José Carlos Mariátegui: Arte, rivoluzione e decadenza

JOSÉ CARLOS MARIÁTEGUI – Conviene affrettare la liquidazione di un equivoco che disorienta alcuni giovani artisti. È importante stabilire, rettificando certe definizioni affrettate, che non tutta l’arte nuova è rivoluzionaria, e nemmeno è veramente nuova. Nel mondo contemporaneo coesistono due anime, quella della rivoluzione e quella della decadenza. Solamente la presenza della prima conferisce a una poesia o a un quadro valore di arte nuova.

Non possiamo accettare come nuova un’arte che non ci porta se non una nuova tecnica. Questo significherebbe cadere nella più fallace delle illusioni attuali. Nessuna estetica può abbassare il lavoro artistico a una questione di tecnica. La tecnica nuova deve corrispondere a uno spirito altrettanto nuovo. Se no, l’unica cosa che cambia e il paramento, la decorazione. E una rivoluzione artistica non si accontenta di conquiste formali.

La distinzione tra le due categorie coetanee dell’artista non è facile. La decadenza e la rivoluzione, così come coesistono nello stesso mondo, coesistono anche negli stessi individui. La coscienza dell’artista è l’arena di una lotta tra i due spiriti. La comprensione di questa lotta a volte, quasi sempre, sfugge allo stesso artista. Però alla fine uno dei due spiriti prevale. L’altro rimane strangolato nell’arena.
La decadenza della civiltà capitalista si riflette nell’atomizzazione, nella dissoluzione della sua arte. L’arte, in questa crisi, ha perso soprattutto la sua unità essenziale. Ognuno dei suoi principi, ognuno dei suoi elementi, ha rivendicato la sua autonomia. Secessione è il suo termine più caratteristico. Le scuole si moltiplicano all’infinito perché non operano se non forze centrifughe.

Però questa anarchia nella quale muore irreparabilmente scisso e disgregato lo spirito dell’arte borghese, preludia e prepara un ordine nuovo. È la transizione dal tramonto all’alba. In questa crisi si elaborano sparsamente gli elementi dell’arte dell’avvenire. Il cubismo, il dadaismo, l’espressionismo, etc., nello stesso tempo in cui accusano una crisi, annunciano una ricostruzione. Isolatamente ciascun movimento non conduce a una formula; però tutti concorrono — apportando un elemento, un valore, un principio — alla sua elaborazione.

Il senso rivoluzionario delle scuole o tendenze contemporanee non è nella creazione di una tecnica nuova. Non è nemmeno nella distruzione della tecnica vecchia. È nel ripudio, è nell’espulsione, nella beffa dell’assoluto borghese. L’arte si nutre sempre, coscientemente o no — e questo è il meno —, dell’assoluto della sua epoca. L’artista contemporaneo, nella maggior parte dei casi, ha l’anima vuota. La letteratura della decadenza è una letteratura senza assoluto. Però così, si possono fare solo pochi passi. L’uomo non può marciare senza una fede, perché non avere una fede è non avere una meta. Marciare senza fede è patiner sur place. L’artista che più esasperatamente si confessa scettico e nichilista è, generalmente, quello che ha più disperata necessità di un mito.

I futuristi russi hanno aderito al comunismo, i futuristi italiani hanno aderito al fascismo. Si vuole una migliore dimostrazione storica del fatto che gli artisti non possono sottrarsi alla gravitazione politica? Massimo Bontempelli dice che nel 1920 si sentì quasi comunista e nel 1923 [1922], l’anno della marcia su Roma, si sentì quasi fascista. Ora sembra fascista del tutto. Molti si sono burlati di Bontempelli per questa confessione. Io lo difendo: lo trovo sincero. L’anima vuota del povero Bontempelli doveva adottare e accettare il Mito che ha collocato nella sua ara Mussolini. (Gli avanguardisti italiani sono convinti che il fascismo è la Rivoluzione).

Vicente Huidobro pretende che l’arte sia indipendente dalla politica. Questa asserzione è tanto antica e caduca nelle sue ragioni e motivi che io non la potrei concepire in un poeta ultraista se credessi i poeti ultraisti in grado di discutere di politica, economia e religione. Se la politica è per Huidobro esclusivamente quella del Palais Bourbon, è chiaro che possiamo riconoscere alla sua arte tutta l’autonomia che vuole. Però il caso è che la politica, per chi come noi la sente elevata alla categoria di una religione, come dice Unamuno, è la trama stessa della Storia. Nelle epoche classiche, o di pienezza di un ordine, la politica può essere solamente amministrazione e parlamento; nelle epoche romantiche o di crisi di un ordine, la politica occupa il primo piano della vita.

Così lo proclamano, con la loro condotta, Luis Aragón, André Bretón e i suoi compagni della Rivoluzione surrealista — i migliori spiriti dell’avanguardia francese — marciando verso il comunismo. Drieu La Rochelle che quando scrisse Mesure de la France e Plaint contra inconnu, era molto vicino a questo stato d’animo, non ha potuto seguirli; però, siccome non ha potuto nemmeno scappare dalla politica, si è dichiarato vagamente fascista e chiaramente reazionario.
Ortega y Gasset è responsabile, nel mondo ispanico, di una parte di questo equivoco sull’arte nuova. Il suo sguardo così come non ha distinto scuole né tendenze, non ha distinto, almeno nell’arte moderna, gli elementi di rivoluzione dagli elementi di decadenza. L’autore della Disumanizzazione dell’Arte non ci ha dato una definizione dell’arte nuova. Però ha preso come tratti di una rivoluzione quelli che corrispondono tipicamente a una decadenza. Questo lo ha condotto a pretendere, tra le altre cose, che «la nuova ispirazione è sempre, indefettibilmente, cosmica». Il suo quadro sintomatologico, in generale, è giusto; però la sua diagnosi è incompleta e sbagliata.

Non basta il procedimento. Non basta la tecnica. Paul Morand, a dispetto delle sue immagini e della sua modernità, è un prodotto di decadenza. Si respira nella sua letteratura un’atmosfera di dissoluzione. Jean Cocteau, dopo aver flirtato un tempo con il dadaismo, esce ora con il suo Rappel a l’ordre.

Conviene chiarire la questione, fino a dissipare l’ultimo equivoco. L’impresa è difficile. Costa fatica intendersi su molti punti. È frequente la presenza di riflessi della decadenza nell’arte d’avanguardia, fino a quando, superando il soggettivismo, che a volte lo debilita, si propone mete realmente rivoluzionarie. Hidalgo, situando Lenin in una poesia di varie dimensioni, dice che i “seni salomé” e la “parrucca alla garçonne” sono i primi passi verso la socializzazione della donna. E di questo non c’è da sorprendersi. Esistono poeti che credono che la jazz band sia una messaggera della rivoluzione.

Per fortuna restano al mondo artisti come Bernard Shaw, capaci di comprendere che l’«arte non è mai stata grande quando non ha favorito un’iconografia per una religione viva; e mai è stata completamente disprezzabile se non quando ha imitato l’iconografia dopo che la religione si era trasformata in una superstizione». Quest’ultimo cammino sembra essere quello che vari artisti nuovi hanno preso nella letteratura francese e in altre. Il futuro se ne riderà della fortunata stupidità con la quale alcuni critici del tempo li chiamarono «nuovi» e persino «rivoluzionari».

**Traduzione 2017: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati.
Testo originale: José Carlos Mariátegui, Arte, revolución y decadencia, «Amauta» (Lima), a. I, n. 3, novembre 1926, pp. 1-2. [ora anche in Obras completas, Lima: Biblioteca Amauta, 1968; in edizioni antologiche più recenti e accreditate in lingua spagnola, lo si può invece leggere in José Carlos Mariátegui, Literatura y estética, (Presentación, selección y notas de Mirla Alcibíades), Caracas: Fundación Biblioteca Ayacucho, 2006]

1 Commento

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    Obrigado admin

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