Lo spaventapasseri. Un racconto di Antonio Beltramelli

spaventapasseri

Seduto in mezzo al campo, presso la croce di canna elevata a porre il seminato sotto la protezione del Signore, lo squallido vecchio aveva a quando a quando un rauco grido e levava a stento un suo vinciglio, fra le mani anchilosate. Incurvo il mento sul petto, tutto pervaso dal tremito della paralisi, attendeva al suo compito dall’alba al tramonto, da quando i passeri scendevano dai loro rifugi fino all’ora in cui vi ritornavano con un frullo, mentre suonava un’ Ave.

Era il tempo dell’estremo autunno, che novembre traeva l’invernata dai cieli preclusi, con le nebbie, le brine e le burrascose furie di Borea. Anche i pettirossi se ne andavano con le ultime foglie e le nostalgiche voci delle giovinette cantavan la leggenda di Solicello che muore impigliato fra i roveti.

La terrà si mostrava ignuda fra zone di basse nebbie o nei magici bagliori della galaverna. E fra le nebbie e la galaverna, sotto l’esigua croce di canna, rattrappito, bistorto, ravvolto come un ramo secco, padron Veli attendeva la sua morte in mezzo al campo seminato. Né pregava Iddio che l’affrettasse, né vedeva cosa che gli paresse ingiusta anche in quella sua postrema sofferenza.

Vegeto e sano aveva sempre pensato, come i suoi tre figli, che tanto ci si può prender cura di un uomo quanto utile può rendere; ed ora che si vedeva immobilizzato dal male su di una sedia, più gli sarebbe parso atroce essere come l’aratro arrugginito o come lo stollo fracido che non regge il suo mucchio anziché giovare, in quel modo che poteva, a coloro che avevano preso il posto di lui. Così s’illividiva sotto i plumbei cieli tranquillamente, levando a quando a quando un rauco grido o il rossigno vimine a spaventare i passeri che non vedeva ormai più perché gli occhi suoi non gli mostravan del mondo se non un’immagine smorticcia, una teoria di fantasmi evanescenti dall’ombra densa.

E Maiore e Pietro e Benedetto utilizzavano il vecchio in tal modo, contenti dell’opera loro e di quel qualsiasi utile che ne ritraevano.

Erano costoro tre uomini scalati come tre canne di una zampogna, ma di uguale tipo e di anima uguale, se ben poteva dirsi anima il vago baglior di vita che appena schiariva la loro grossezza. Ridevan di nulla così come il minimo suono s’ingigantisce nelle stanze vuote, l’un dopo l’altro con la bocca aperta e gli occhi tondi: avevan quella semplicità la quale confina con l’ebetudine, ma solo fino al punto in cui non entrasse in gioco il loro tornaconto.

Infaticati come la bestia a coltivare il campo e la vigna, consideravan sé stessi a simiglianza degli altri, a seconda dell’utile che potevan dare, né avevan tolto moglie perché più pane avrebbe consumato una donna che non ne avrebbe reso. Così conducevano la casa da soli, compiendo ogni opera femminile, perfettamente.

Nel contado li chiamavan gli Scalzi e infatti fino ai giorni del più rigido inverno andavan scalzi e solo allora infilavano gli zoccoli quando la neve era per le vie. Né possedevan mantelle a ripararsi dai rigori del gennaio, né ferrajoli, né altra veste che non fosse una pelle di pecora la quale avevan cucita alla meglio e che infilavan sulla giacchetta a volta a volta, che ne possedevano una sola.

Il loro mondo era in tale avarizia, all’infuori della quale nessuna cosa più li toccava o li commuoveva e non sapevan che ridere.

Così quando padron Veli, il padre loro venerando, fu ridotto fra il letto e la sedia, incapace a qualsiasi opera, i tre Scalzi sentirono appesantirsi sull’anima loro la nube di quella vecchiaia dannosa e, tardando la morte a render giustizia, strologarono nel pensier loro il modo di far servire a qualcosa il malato.

Fu Maiore che una mattina, all’alba, levato col canto del gallo, disse a Pietro:

— Prendi il vecchio e portalo con te.

— Dove?

— Nel campo.

Pietro trasse padron Veli dal letto e se lo caricò sulle spalle. Questi non fiatò, tremava soltanto, ma per la sua paralisi.

Poi Maiore chiamò Benedetto e gli disse:

— Prendi una sedia e vieni con me.

— Dove?

— Nel campo.

Maiore si caricò di tre marre e andarono. Traversata l’aia, seguendo le redole, giunsero al campo della croce che era il più grande.

Avevano seminato il giorno prima. Maiore andava innanzi. Quando fu presso la croce disse a Benedetto:

— Metti la sedia qui.

Fu fatto. Maiore la piantò bene sulla terra smossa che non avesse a rovesciarsi, compiuta la qual opera, disse a Pietro:

— Vien qua. Fa sedere il vecchio. Spaventerà i passeri.

Padron Veli capì solo allora che cosa gli preparavano e non si dolse della cosa, come non si sarebbe dispiaciuto anco se l’avesser sepolto.

Come fu seduto, Maiore gli disse:

— Voi siete quasi cieco ma non importa. I passeri avranno paura di voi. Badate al grano. Se avrete fame vi ho messo il pane in tasca. Qui c’è la fiasca dell’acqua. Verremo a prendervi questa sera.

Padron Veli non parlava più e non poté rispondere; continuò a tremare, la testa inchiodata al petto, le braccia penzoloni. Ma per quel che capì fu soddisfatto. Maiore si fermò à guardarlo. Disse a Benedetto:

— Va a tagliare una rama.

Benedetto andò in un filare e tornò con un vimine rosslgno. Maiore lo pose nelle mani del vecchio e disse ancora:

— Tenete questa rama. Vi farà buono per i passeri!

Poi raccolse la marra, Pietro e Benedetto fecero similmente e senza rivolgersi se ne andarono all’opera loro.

Padron Veli rimase in mezzo al seminato col suo vimine sanguigno. Su le prime non si rimosse, stette con le braccia abbandonate, istupidito, senza saper come eseguire degnamente il compito nuovo, che nulla vedeva se non l’ombra degli alberi, sul cielo, e un mare grigiastro ed uniforme; poi a qualcosa che trasentì e che non seppe comprendere nell’ombra sua moritura, mandò un grido rauco e levò il vinciglio e così fece e continuò fra lunghe pause finché giunse la sera e lo riportarono via.

Il nuovo costume non fu più dimesso. Ad ogni alba gli Scalzi partivano col vecchio paralitico e ritornavano col tramonto. E fra le ultime foglie che le raffiche si portavano via frullando, fra lo strido dei forasiepe, l’argento delle brine, il grave aduggiarsi delle nebbie Padron Veli attese la sua morte che non poteva mancare.

Ma egli era di salda radice e il freddo e l’umido e la nebbia e la pioggia non l’abbatterono. Anche quando scendeva sulla terra la caligine livida, sì che non vedeva la cinta degli alberi, i tre Scalzi che lavoravano nel campo vicino, udivano uscire dal fitto velo della foschia il grido del vecchio; e pareva giungesse di tanto lontano che già la morte l’avesse serrato e condotto giù per le sue fosche contrade.

E Maiore diceva alludendo al vecchio:

— Lavora bene!

E Pietro e Benedetto assentivano.

Poi giunsero le piogge e il compito di padron Veli parve esaurito. Dal primo giorno in cui il cielo si oscurò per non aver più sole il vecchio fu posto in una panca, vicino al focolare spento. Faceva freddo, ma in casa degli Scalzi il fuoco non si accendeva mai se non per cuocere le vivande. Quel giorno non v’erano vivande da cuocere e padron Veli tremava presso la cenere del focolare e aveva il volto illividito come quando sedeva in mezzo al seminato, fra il turbinìo del vento. Gli occhi gli si erano ormai chiusi e non udiva intorno che il ronzìo cupo delle sue stanche vene. E quel ronzìo gli figurò lo svolare e il pigolar dei passeri fra la sementa. Alzò un braccio, ad un tratto e mandò il suo rauco grido.

Maiore levò il capo di su lo spianatoio e si volse a guardare. Così fecero Pietro e Benedetto, ma non corse parola. Dall’angusta finestra chiusa da un’impannata, entrava appena uno scialbo livore di luce. E, fra 1 colpi del telaio , si udiva il gran pianto del giorno senza sole.

Fu una pausa durante la quale Padron Veli continuò a tremare nella sua solitudine moritura, poi con lo stanco gesto del braccio il suo rauco grido empì di nuovo la stanza.

Benedetto ristette, la spola in una mano, e domandò:

— Che ha il vecchio?

Disse Maiore:

— Si sogna !

E lo guardarono un poco in silenzio. Padron Veli non vedeva e non udiva; udiva solamente gli immensi stormi dei passeri voraci cinguettare, cantare, svolare in una persecuzione senza tregua, penosa, e i campi erano devastati, sotto la croce di canna coronata dal candor della brina.

Solo al quinto, al sesto grido, Maiore disse:

— Si pensa di essere nel seminato e lavora !…

Pietro e Benedetto risero e nessuno pensò più alla cosa. Padron Veli continuò nel gesto e nel grido automatico, seduto innanzi la cenere del focolare, illividito dal freddo, sperduto nell’ultima sua visione di tormento.

Ma al secondo e al terzo giorno, come il maltempo non accennava a tramutare e il vecchio a ravvedersi, Maiore disse:’

— Bisogna avvertirlo che non è più nel campo!…

E Pietro e Benedetto risposero:

— Sì!

Bisognava avvertirlo e Maiore si accostò a padron Veli, gli batté una mano sulla spalla, gridò:

— Vecchio, siete in casa, qui non ci sono i passeri!…

Pietro e Benedetto ridevano. Padron Veli non intese, non poteva intendere, tremò un po’ più forte senza rispondere.

E Maiore:

— Avete capito?… Non gridate più che non c’è bisogno!…

E l’opera diuturna fu ripresa, ma il vecchio Veli non aveva inteso. Egli non viveva ormai più se non nella sua estrema visione.

Allora i tre figli si dissero:

— Chiamiamo Puntèrla che lo faccia tacere con le sue erbe !

E Puntèrla giunse. Era questi un semplicista e aveva grande rinomanza per le campagne, che le sue guarigioni erano prodigiose. Giunse e guardò padron Veli. Maiore, Pietro e Benedetto gli stavano intorno con la bocca tonda.

Maiore domandò:

— Potrete guarirlo senza farci spendere?

Disse Puntèrla:

— È vecchio!

I tre figli assentirono. E Maiore chiese:

— Che cosa potremmo dargli?

Puntèrla disse:

— Morirà!…

I tre figli assentirono. Già, era giusto che dovesse morire perché era troppo vecchio. Ora padron Veli urlava sempre più forte e la sua paralisi lo faceva traballare sulla sedia.

— Vedete come trema? — disse Puntèrla. — Ha il male della spingarda.

— Della spingarda?

— Sì — fece il sapiente di semplici. — Bisognerebbe farlo sudare!…

— Non basterebbe qualche pillola?

— No. Fatelo sudare!…

E Puntèrla si ravvolse nel suo ferraiolo. Quando fu sulla porta Maiore gli pose fra le mani due uova e disse:

— Prendete per il vostro incomodo!

Puntèrla intascò le uova senza dir parola e scomparve.

Come rimasero soli, Maiore pensò per qualche secondo, poi disse ai fratelli:

— Aspettatemi qui ! — E uscì sotto il portico.

Per circa mezz’ora Pietro e Benedetto lo udirono andare e venire senza sapere che si facesse. Padron Veli era sempre più agitato e le sue urla aumentavano d’intensità.

Di repente la porta che immetteva nel portico si aperse, e Maiore apparve, vermiglio in volto. Disse ai fratelli:

— Prendete il vecchio!

Pietro e Benedetto ubbidirono senza domandare, com’erano soliti, che Maiore poteva avere il comando, essendo il primo nato.

Sollevarono padron Veli fra le braccia e uscirono. Maiore andava innanzi. In un angolo del portico era aperta la nera bocca del forno.

— Che facciamo? — domandarono i fratelli.

— Portatelo qua! — disse Maiore.

Padron Veli aveva gli occhi serrati. Quando furono innanzi alla bocca del forno Maiore guardò dentro e chiese:

— Potrà starvi seduto?…

Pietro e Benedetto risposero:

— Sì!…

E l’opera fu compiuta. Quando ebbero chiusa la serranda e l’ebber tappata intorno con molta mota, ristettero ad ascoltare, tutti e tre reclini.

— Ora suda !… Non urla più !… — disse Maiore.

E se ne andarono tranquilli.

Padron Veli sudava infatti dentro il forno serrato e più non udiva il cupo ronzio delle sue vene tramutarsi nell’acuto pigolìo dei passeri voraci. 11 giorno declinò ed i tre fratelli compirono le opere loro in pace. Quando fu la sera, Maiore si accostò alla bocca del forno e chiamò forte:

— Vecchio?… o vecchio?… Sudate?…

Padron Veli non rispose. Pietro e Benedetto dissero:

— Dormirà!…

— Lasciamolo tranquillo!…

— Sì, lasciamolo tranquillo!

E com’ebber mangiato il loro pan secco sul palmo della mano, se ne andarono a dormire, contenti nella loro anima ottusa.

All’alba il gallo rosso cantò presso il fico dispoglio dal quale stillava la pioggia. I tre fratelli si levarono e scesero nella stalla.

Com’ebbero governate le bestie era il mattino, e la giornata’ era piovosa.

Dall’aia qualcuno chiamò:

— Oh!… Gli Scalzi!…

— Avanti!… — gridò Maiòre.

Entrò Puntèrla.

— Benvenuto ! — fece Maiore. — Che volete ?…

— Come sta padron Veli?

— Deve star bene perché ha sudato! Non l’abbiamo sentito più!

— Si può vedere?

— Venite!…

E Maiore e Pietro e Benedetto s’accostarono alla bocca del forno. Puntèrla li guardava fare.

Com’ebbero aperta la serranda Maiore disse a Pietro:

— Va a prendere il lume!

Venne il lume e Maiore lo legò in cima a una pertica.

— Ma che avete fatto?… — domandò Puntèrla, e stralunava.

I tre fratelli si volsero a guardarlo, stupiti. Non risposero.

Maiore spinse la lampada nel forno. Apparve l’ombra del vecchio, appoggiata all’incurva parete, ma il volto non si vedeva, non si vedeva che il corpo rattrappito, risecchito.

— O vecchio?… — chiamò Maiore. Passò un silenzio e padron Veli non rispose a quella e alle nuove chiamate. Allora Maiore levò la lampada fin presso il volto del taciturno e, nella luce rossastra, l’orrendo volto apparve di un subito, come dal fondo di un sepolcro millenne. Non era più inchiodato al petto, ma levato fino alla vòlta del forno e gli occhi erano sbarrati e i capelli irti e le mascelle contratte e la bocca socchiusa e stirata sulle vuote gengive. Impietrito nello spasimo era segnato nei solchi e nell’ossa e nella cavità profonda, da una forza spaventevole.

Maiore lo guardò tranquillo e chiamò ancora:

— O vecchio?… Non ci sentite?

— Sì che ci sente ~ sussurrò Pietro. — Guardalo!… Ride!…

E Benedetto:

— Ride!…

E tutti e tre sporsero la testa entro la nera bocca del forno e ripeterono adagio, soddisfatti :

— Ride!

Poi, levatisi in un silenzio, si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere a loro volta tutti e tre. l’uno di fronte all’altro, inconsci e tremendi innanzi alla muta morte che li guardava dalla tenebra.

*Antonio Beltramelli (1879-1930), Lo spaventapasseri, in Id, La vigna vendemmiata. Novelle, Milano, Treves, 1919