Ghislanzoni: La Tromba di Rubly (racconto)

tromba

ANTONIO GHISLANZONI — Ogni giorno la cronaca dei giornali registra un suicidio per amore.

Eppure: sentiteli un po’, questi imberbi filosofi dello scetticismo! Interrogatele, queste larve nuotanti nella seta e nei pizzi, queste mummie intonacate di cosmetico che si chiamano le donne del gran mondo!

Vi diranno che l’amore è una metafora da poeti, un mito ingegnoso e gentile, con che si piacquero gli idealisti raffigurare l’attrazione fisica dei due sessi.

E frattanto, i figli della ignobile plebe amano e si uccidono—e mentre una bella fanciulla del popolo, irradiata di innocenza e di giovinezza tacitamente e coll’estasi in volto, dà il fuoco ai carboni che devono addormentarla per sempre; un colpo di pistola annunzia la fine di un appassionato artista, di un povero operaio, di un bersagliere animoso, i quali lasciarono scritto col loro sangue queste due sante parole: ho amato!

Il suicidio è una grande follia, forse… un delitto; ma le follie e i delitti qualche volta rappresentano l’unico sintomo vitale di una generazione. Le anime candide e serene, che respirano l’amore, hanno bisogno, per rattemprare la loro fede, che qualcuno sparisca dal mondo per aver troppo amato. L’amore è la religione del cuore; è necessario che essa abbia i suoi martiri.

Era un giovane suonatore di tromba, nato—se non m’inganno—sulle coste della Dalmazia, e venuto adolescente a domiciliarsi in Venezia, dove all’età di venti anni aveva preso posto nell’orchestra del teatro la Fenice.

Paolo Rubly aveva sortito dalla natura una di quelle fisonomie caratteristiche, le quali, in chi le abbia vedute una volta, lasciano una impressione indelebile.

Mi ricordo di esser partito con lui da Venezia, nell’estate del 1857. Egli recavasi a Padova per suonare alla fiera del Santo; io doveva proseguire sino a Milano.

Appena lo vidi entrare nella sala d’aspetto, i miei occhi, il mio cuore, tutta l’anima mia furono assorti in lui e nella giovine donna che si appoggiava al di lui braccio.

La più parte dei viaggiatori, vedendolo entrare nella sala, rimasero ugualmente impressionati. Nel volto di tutti io lessi una commozione di vivissima simpatia.

—Chi sono?—domandai ad un signore veneziano che li aveva salutati.

—È il Rubly… un professore della Fenice…. un bravo professore di tromba; e la poveretta che gli sta al fianco è sua moglie—una sposina da tre mesi che forse non ne vivrà altrettanti.

—Voi credete, signore?

—Guardatela bene, e vedrete che non c’è luogo ad illudersi…. Là dentro ci lavora il mal sottile da un pezzo.

Mentre noi parlavamo, il giovine, colla sua pallida compagna, si era posto a sedere in un angolo della sala.

Si tenevano allacciati per le mani con ingenua famigliarità, come due fanciulli—si parlavano cogli sguardi…. coi sorrisi…. come non è dato parlarsi colla voce—Ma i sorrisi erano brevi, e spegnendosi, non lasciavano traccia, o solo una traccia di dolore.

La campanella invitava i viaggiatori a salire nel convoglio; tutti si precipitarono verso la porta. Io feci come gli altri—e, lasciando dietro me quei due simpatici personaggi che tanto mi avevano interessato, andai in cerca del mio vagone di seconda classe.

Sbadatamente entrai in uno di quei compartimenti dove non è permesso fumare, e già io muoveva per uscirne, quando mi si affacciarono i due giovani sposi che accennavano di voler salire.

—Qui dentro non si fuma? domandò languidamente la donna.

—No, Maria! E poi…. non c’è che un solo viaggiatore… e tu potrai adagiarti comodamente.

In luogo di discendere, io mi ritirai verso l’estremità della carrozza—i due sposi vennero a collocarsi sulla panchetta che stava di fronte alla mia, e, come se nessuno fosse là ad osservarli, la giovane donna abbandonò la sua pallida testa sulla spalla del marito, e questi la attirò a sè dolcemente, accarezzando i bruni capelli e baciando la pallida fronte.

—Ciò le farà bene—mi disse—vedrete ch’ella dormirà tosto.

E mi parlava come se io lo conoscessi da un pezzo, come se io, consapevole d’ogni sua disavventura e partecipe de’ suoi dolori, avessi a ritrarre qualche conforto dalle sue parole.

Poco dopo (il convoglio era già uscito dalla stazione, e quell’uomo singolare non aveva mai levati gli occhi dalla sua donna) egli portò l’indice al labbro, e volgendosi a me colla espressione della più viva compiacenza «ella dorme!—mi disse—così giungerà a Padova senza avvedersene—non soffrirà! Osservate! Quando ella dorme, la sue guancie prendono un bel colore di rosa… Credete voi che la sua malattia sia grave?»

Io rimasi colpito da quella inattesa interpellanza, ma più ancora dall’ansia affannosa ond’egli attendeva la mia risposta.

Tentai di rassicurarlo. Gli feci osservare che il respiro della dormente era dolce e regolarissimo.

Per tutta risposta, egli mi strinse la mano—e stette parecchi minuti senza profferire parola.

Poi, contemplando con espressione ineffabile la povera malata—no! non è possibile!….—parlava fra sè—una donna non può morire quando è amata come tu la sei, o mia buona Maria!—E voltosi di nuovo a me «Io credo, mi disse, che se questa poveretta avesse a morire, ella mi trarrebbe seco inesorabilmente dopo pochi giorni, o io avrei tale potenza da farla rivivere!»

Queste parole mi afflissero come un lugubre vaticinio.—Ed ora, nel ricordarle, mi sento commuovere da superstizioso terrore, poichè la fine del povero suonatore di tromba fu quale egli stesso la aveva preconizzata in quel giorno.

Quel signore, che alla stazione della ferrovia aveva presagita la prossima fine dell’ammalata, non si era punto ingannato.

Quella debole fiammella, che era l’anima della povera Maria, a Padova si andava spegnendo di ora in ora. Finita la fiera del Santo, la malata espresse il desiderio di trasferirsi ad un paesetto in vicinanza dei colli Euganei,—dove—sperava ella—avrebbe respirato la salute e la vita. Una mattina fu veduta uscire dalla città una grande carrozza tirata da un solo cavallo che andava al passo. Dentro la carrozza, adagiata tra quattro guanciali, stava la pallida Maria sorridendo mestamente al marito che, seduto di faccia, la accarezzava con sguardi di madre.

Giunsero al paesello in sull’ora del tramonto. Dalle colline verdeggianti spirava il tiepido soffio della vita—da ogni parte un cinguettio, un tripudio, una festa. Le contadine uscivano dalle case, e vedendo passare quel lento convoglio, cessavano dal canto e guardavano attonite.

La carrozza si fermò presso una casetta di fresco costruita, bianca come una sposa.

Il Rubly scese a terra.

—Ah! siamo dunque arrivati! Grazie… Paolo!…come si sta bene qui… Oh… qui… non si può morire.

—Vedrai… vedrai la bella stanzetta che ti ho preparata! No… non muoverti, Maria!… Lascia aprire la porta… e poi… Ecco… hanno aperto!… Ora vieni!…

Così parlando, il Rubly si prese fra le braccia la donna, e questa si abbandonò a lui come una bimba dormente—e così entrarono nella casetta, e salirono al piano superiore.

«Che Iddio le renda la salute»—esclamò una giovane donna, facendo il segno della croce.—I fanciulli, che erano accorsi festosamente all’arrivo della carrozza, d’un tratto ammutirono. Un vecchio prete crollò la testa mormorando: «Sarà bene che io non mi allontani!»

Il Rubly frattanto entrava in una cameretta al primo piano, e, deponendo sovra un candido letticciuolo la gracile creatura che non aveva parlato sin là—qui starai bene—diceva—qui vivrai felice, Maria! Domattina verranno gli uccelletti a svegliarti come il giorno… ti ricordi?—Fu appunto in una stanzetta come questa che noi ci siamo destati all’indomani del nostro matrimonio… Tu hai schiuse le finestre allo spuntare dell’alba ed hai esclamato: come il mondo è felice!

Maria aperse gli occhi—portò la mano alla fronte di Paolo, e, accarezzandogli i capelli—è tempo che tu ti riposi, gli disse, son due notti che non dormi—va!—domattina sarai tu che aprirai le finestre; sarai tu che farai entrare nella stanza la bella luce dell’alba. Se dormo, svegliami… Vedrai come sarò bella… come sarò allegra domani!

La tisi ha un presagio infallibile di morte, la gioia. Quando il povero Rubly si destò all’indomani, quando ebbe schiuse le finestre per dar adito alla luce, chiamò dolcemente per nome la sua Maria, ma questa non rispose. La chiamò una seconda volta baciandola in fronte, ma le sue labbra sentirono in quel bacio i geli della morte. Dalle finestre si versava nella stanzetta il tripudio mattutino della natura; ai riflessi di quell’alba, il mondo pareva ancora felice, ma nell’anima del Rubly entrava la notte e la disperazione. A Padova, a Venezia, si disse per alcun tempo che il professore di tromba del teatro la Fenice aveva smarrita la ragione. Era altresì corsa voce ch’egli si fosse suicidato sulla tomba della sua donna. Fatto è che dopo la morte di Maria, il Rubly divenne invisibile nel paesello dov’era accaduta la dolorosa catastrofe; nessuno ebbe più nuove di lui; non vi era quindi chi fosse in grado di darne agli altri.

All’approssimarsi del carnevale, l’impresario della Fenice stava in forse di scritturare un altro professore di tromba per sostituirlo a questo assente misterioso, che non dava più segno di esistere; ma ecco sopraggiunge una inattesa lettera diretta al presidente del teatro—è il Rubly che annunzia il suo prossimo ritorno a Venezia, che promette di trovarsi al suo posto la sera della prima prova d’orchestra.

Il Rubly, all’ora fissata, entrò nel teatro e si assise dinanzi al leggio senza far motto ai colleghi. La sua nobile fisonomia, improntata di mestizia serena, attraeva irresistibilmente gli sguardi. Nessuno osava interrompere quel misterioso silenzio, nel quale si rivelava un profondo cordoglio e una speranza sublime.

Ma ciò che sorprese, ciò che scosse di ineffabile meraviglia i professori dell’orchestra, fu il primo squillo che il Rubly evocò dalla tromba—un squillo potente, febbrile, convulso, ma pieno di dolcezza.

La prova fu sospesa per un istante. Tutti i professori si alzarono come un sol uomo per fissare in volto l’artista.

Il Rubly comprese il suo trionfo, e senza levarsi dallo sgabello salutò i colleghi con uno sguardo irradiato di gioia.—Poi, come uno che parli a sè stesso: non basta ancora, mormorò sommessamente—ma quattro o cinque mesi di esercizio costante mi renderanno onnipotente.

In quel carnevale, la tromba del Rubly divenne famosa a Venezia, e i frequentatori del teatro la Fenice, ad ogni nuova rappresentazione, notavano nell’artista un sensibile progresso. Le signore di temperamento delicato, al prorompere di quegli squilli, impallidivano—gli uomini di carattere appassionato si sentivano compresi da una tristezza inesplicabile, e qualche volta erano costretti a fuggire dal teatro, come si fugge, per istinto, da ciò che affascina e soggioga.

Il Rubly era additato nelle vie come una eccentricità della specie umana. Egli passeggiava sempre solo: suoi occhi si affissavano, con rapida vicenda ora al cielo ed ora alla terra, mutando ad ogni tratto espressione. I più lo dicevano pazzo.

In quell’anno, uno spettacolo insolitamente grandioso si allestiva al teatro di Padova per la fiera del Santo. La stagione doveva aprirsi coll’opera Roberto il diavolo, concertata e diretta da Angelo Mariani.

Il Rubly fu chiamato a far parte dell’orchestra.

Tutti ricordano la fantastica evocazione di Beltrame nel convento di Santa Rosalia: tutti sanno come in quella stupenda ispirazione fantastica predomini lo squillo della tromba. Il Rubly, nell’accentare le potenti frasi del sublime maestro, divenne a sua volta sublime.—Quanti assistevano alla prova si sentirono, a quegli accenti, correre per le vene un brivido di terrore.

Il direttore dell’orchestra impallidì—egli non ricordava di aver udito mai tanta potenza di suoni; gli pareva che quello squillo di tromba rappresentasse qualche cosa di sopranaturale, di divino.—E poichè nessuno alla fine di quel pezzo si levò per applaudire, tanto era lo stupore e lo sgomento di tutti, il Mariani, nel cupo silenzio della sala, si volse al Rubly:—«Quando Iddio avrà bisogno di una tromba per evocare dagli avelli i trapassati e chiamarli al finale giudizio, non potrà affidare meglio che a voi la solenne missione—voi siete predestinato ad essere l’arcangelo del giudizio universale.»

A tali parole, insorse dall’orchestra e dal palco scenico un grido di approvazione.—Il Rubly non si mosse dal suo posto. Solamente affissò il direttore dell’orchestra colla espressione del dubbio e della speranza.—Poi abbassò il capo, e, stringendosi al petto lo strumento col trasporto d’un amico che abbraccia l’amico—ora, a noi due, esclamò sospirando—il momento è venuto!

All’indomani, gli artisti del teatro erano convocati alla seconda prova—il Rubly non comparve. Al direttore dell’orchestra fu presentata una lettera nella quale era detto: «perdonate se oggi manco ai miei impegni—io sono chiamato altrove da una necessità prepotente—se non torno fra ventiquattro ore, non contate di rivedermi più mai.» È egli necessario di aggiungere che quella lettera portava la firma del Rubly?…

E voi avete già indovinato, o lettori, quale via abbia preso il povero suonatore di tromba.—Non chiamatelo pazzo—questa parola rappresenta la nefanda calunnia con che lo scettico mondo pretenderebbe demolire tutte le grandi e generose passioni. Il Rubly era dominato dall’esaltazione dell’amore.

Arrivò nel paesello a un’ora di notte—visitò divotamente la camera dove era morta la sua Maria; poi andò tutto solo a vagare nei campi infino a quando dalle ville, dalle colline non si intese più suono di voce umana.—Il di lui volto, come il modo di camminare, nulla presentava di strano. Era calmo, sereno. Portava sotto le ascelle la sua tromba involta in una tela verde.

Innanzi che battesse la mezzanotte, per una stradicciola obliqua, egli si diresse verso il piccolo Campo Santo che sottostava alla collina.

Il paesello bianco, illuminato dalla luna, era muto. I viventi dormivano come i morti—le case non erano più animate delle tombe.

Si accostò al muricciuolo—si guardò intorno—poi in un lampo lo sorpassò—Le croci erano scarse in quell’ultimo asilo dei poveri—ma una ve n’era, più bianca delle altre e costeggiata da un’ajuola di fiori.—Il Rubly si diresse a quella. Là, da circa un anno, giaceva la sua Maria.

Si inginocchiò dinanzi alla croce, e curvata la testa, parlò sommessamente, come un giovane parla all’orecchio della sua innamorata. Dei suoni indistinti, dei susurri quasi impercettibili si alzavano dalle zolle.—Forse quella ardente fantasia di innamorato credette udire degli accenti conosciuti.

«Io sono venuto, Maria!… Perdonami se mi sono fatto aspettare… Io ho sofferto al pari di te. Ma oramai non è più possibile che noi viviamo disgiunti—o tu verrai meco o io non partirò più da questo luogo.»

Batteva la mezzanotte.—Il Rubly si alzò in piedi, e levato l’involto alla sua tromba, la portò alle labbra, e cominciò ad emettere degli squilli pieni di un fascino sovrumano. Non si può descrivere l’effetto di quei suoni, lanciati così improvvisamente a traverso i silenzi della notte, e ripercossi con varie gradazioni dagli echi delle case e delle colline.

Quegli echi parevano la risposta dei sepolti, il gemito della umanità tutta intera che da un sonno profondo e misterioso si riscuote ai terrori della vita.

Il villaggio sovrastante al cimitero si destò ai primi squilli—le finestre si illuminarono—si vedevano, attraverso la luce, agitarsi delle creature umane che avevano l’aspetto di ombre.

Il Rubly, già stranamente impressionato dagli effetti sonori della propria tromba, parve ravvisare in quella reale agitazione di viventi il miracolo della risurrezione. Le upupe e le strigi, che spaventate battevano le ali mandando strida sinistre, crescevano le illusioni di quella scena fantastica…

Vi fu un momento in cui gli squilli della tromba divennero spaventevoli. Le case dei viventi risposero con un grido di terrore.

La era l’ultima crisi di un sublime delirio. A poco a poco, i suoni rallentarono; la disperazione parve placarsi, gli accenti illanguidirono e l’ultima voce limpida e amorosa, come la nota di un flauto, fu simile all’ultima favilla di una face che si spegne.

Gli abitatori del villaggio chiusero le finestre, e si ritrassero nelle loro stanze.

All’indomani, verso l’alba, il curato ed il sacrista entrarono nel Campo Santo, e quivi trovarono il povero Rubly abbracciato ad una croce di marmo. Lo chiamarono a nome, lo scossero leggermente. Quella nobile fronte era piena di sorriso e di luce, ma irrigidita dalla morte.

La promessa di due anime innamorate si era compiuta.—Maria non era tornata al suo Paolo, ma questi era andato a lei.

di Antonio Ghislanzoni, in Id., Racconti e novelle, Milano, Sonzogno, 1874