Georges Palante: Il circolo vizioso della morale normativa

Opera di Franz Sedlacek
Nella foto: Canzone al crepuscolo di Franz Sedlacek (1931)

GEORGES PALANTE — La cosa noiosa, per il critico che rende conto delle opere di Morale, è che per lui c’è molto poco di imprevisto. Per il fatto stesso che un signore si mette in testa di scrivere un libro di morale, si sa fin da subito che egli ammette un certo numero di postulati (dei più contestabili, del resto) senza i quali non c’è morale possibile: per esempio che c’è un bene, che lo si può conoscere, che lo si può realizzare, etc.

Qui, beninteso, per morale io intendo la morale corrente, la morale normativa, prescrittiva o parenetica, la morale che ha la pretesa di determinare ciò che deve essere, in opposizione alla morale tale come l’ha compresa qualche pensatore eccezionalmente chiaroveggente e sincero, uno Schopenhauer, per esempio: la morale intesa come una scienza analoga alle altre scienze, avente per oggetto non quello di prescrivere ciò che deve essere, ma di teorizzare ciò che è.

Ogni morale normativa, dico, riposa su un circolo vizioso, su una fondamentale petizione di principio. In ogni morale si parte, di fatto, da un giudizio di valore arbitrariamente posto per arrivare a un altro giudizio di valore che era implicito nel primo e che, di conseguenza, non ne è che la ripetizione. Brunetière, commentando l’opinione di Bayle sulla vanità delle morali filosofiche, ha denunciato questo sofisma: «Bisogna filosofare, ma non bisogna domandare alla filosofia, non più che alla ragione filosofica di darci delle regole di condotta. Non bisogna pretendere di conformare le nostre azioni a un ordine universale del quale noi non possiamo affermare l’esistenza se non in quanto lo traiamo da una certa idea che ci formiamo di questo ordine, e questo è un circolo vizioso» (Brunetière, Revue des deux Mondes, agosto 1892).

Questo circolo vizioso si spandeva ingenuamente nell’antica morale spiritualista e kantiana. Si cominciava con il porre i caratteri che deve soddisfare ogni vera legge morale. Questi caratteri erano precisamente quelli dell’Imperativo kantiano. Dopo di che si mostrava che la legge morale kantiana soddisfaceva come per caso questi caratteri: quindi che essa era la vera legge morale. Ecco uno dei più divertenti giochi di prestigio della filosofia.

Questo circolo vizioso si dissimula più abilmente nelle nuove morali pretese scientifiche, ma non ne è meno implicato. Si parte dall’idea di un certo ordine sociale al quale noi dobbiamo conformare le nostre azioni e se ne deduce che la morale ci ordina di conformare i nostri atti a questo ordine sociale. Dunque, da questo lato, il critico sa già in anticipo cosa aspettarsi. E c’è anche poco imprevisto nelle soluzioni proposte. Ci si muove in un circolo ristretto di dottrine, sempre le stesse. Tutt’al più si scoprono delle sfumature che attengono alla sensibilità degli autori a seconda che essi siano degli adepti di una saggezza intellettuale e contemplativa o degli apostoli dell’azione.

Questi ultimi sono al momento in maggioranza. Il vento va verso l’azione, verso il pragmatismo. Agiamo! Lavoriamo! Ecco la parola d’ordine. Meno riflessioni, meno meditazioni! Meno teorie! Meno critica! Viva l’Azione!


I moralisti sono dei «sociali». L’individualista è, per essenza, immoralista e ateo. Da una parte religiosità sociale, dall’altra parte ateismo religioso e sociale; così si pone il dilemma. Da parte mia, la mia scelta è fatta. Io ho optato per l’ateismo sociale. Questo ateismo io l’ho espresso, da una quindicina d’anni, in una serie di opere delle quali l’ultima, “Le Antinomie tra l’individuo e la società”, è una tesi di dottorato rifiutata dalla Sorbona. Su questo, devo una spiegazione ai miei lettori. Qualcuno di loro si potrebbe domandare come sia possibile che l’individualista, l’ateo sociale che sono, abbia potuto a cuor leggero sottomettere le sue idee al verdetto di una giuria ufficiale. Alcuni hanno potuto giudicare che io abbia avuto un qualche cedimento nel mio individualismo supponendo che la mia tesi potesse essere accolta e che le mie idee potessero essere assimilate dai direttori del pensiero sorboniano. In molti mi hanno amichevolmente fatto il rimprovero: «Che andavi a fare in quella galea?». Risponderò a modo di scusa innanzitutto che ben intendevo, nel presentare questa tesi, non fare sacrificio di alcuna delle mie idee; poi, che mi proponevo soprattutto di fare un esperimento sociale, di vedere fino a dove arrivava la tolleranza e il liberalismo dei miei giudici. L’esperimento è fatto; ha dato il risultato previsto. Ha anche superato la mia attesa. I limiti di questa tolleranza sono ancora più stretti di quanto io non avessi pensato. Mai tesi è stata rifiutata con più frettolosità, con più disinvoltura. I miei giudici hanno, al primo colpo, giudicato il mio pensiero inassimilabile.

D’ordinario, quando un candidato al dottorato si presenta alla Sorbona non ottiene, all’inizio, né l’assenso né il rifiuto completo dei giudici. Egli deve far subire alla sua opera tante modificazioni che diviene impossibile ai suoi giudici disconoscersi più a lungo nella loro opera e di rifiutare un lavoro al quale, per una così gran parte, hanno essi stessi contribuito. Ammirano se stessi nella loro opera e nel loro allievo.

Se il mio lavoro è stato rifiutato al volo è senza alcun dubbio perché io non ho in nessun modo le qualità dell’allievo e che, per quanto poco importante possa essere il mio pensiero, esso ha almeno il merito di essere mio.

È senza dubbio ciò che mi domandano i miei lettori. È me che essi cercano nella mia opera e non l’immagine moltiplicata in centinaia di esemplari, nella filosofia contemporanea, del pensiero dei miei giudici, Séailles e Bouglé.

Io mi trovo dunque ampiamente giustificato e come glorificato nella mia attitudine per questo eclatante certificato di indipendenza intellettuale che mi ha rilasciato la Sorbona.

Solo, tra i miei lettori, coloro che si interessano all’ordine sociale si inquieteranno della disinvoltura con la quale hanno scartato un lavoro che, in ogni caso, rappresenta uno sforzo di pensiero serio e sincero.

C’è un certo numero di bons esprits, di buone menti, che stimano si possa conciliare la preoccupazione per la propria situazione materiale con il gusto per la filosofia. La scienza contemporanea ha le sue prebende come la Chiesa un tempo aveva le sue. È giusto che queste prebende siano riservate esclusivamente ai buoni allievi e ai membri dell’«équipe» sorboniano? È giusto che, per avere il diritto ad aspirarne, ci si debba prostrare e gettar via le proprie idee? Ma, per me, questa questione non si pone. Io ho di fatto preso, da molto tempo, come Orazio, il mio partito per la mediocrità. Io rinuncio senza pena al profitto del discepolato sorboniano e all’onore di professare per qualche grassa prebenda intellettuale le idee di Séailles. Di tutti i pregiudizi morali che io combatto, ne conservo uno solo: la preferenza per la libertà di spirito rispetto all’opulenza.

***Traduzione 2019: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati.


I. Il testo è la traduzione della premessa generale e della parte finale della cronaca editoriale pubblicata nel numero del 1° dicembre 1912 del “Mercure de France” (MdF) in cui Georges Palante recensiva una “sfilza di moralisti dogmatici, apocalittici, sociologisti, razionalisti, etc.”, libri tutti accomunati – sosteneva Palante – da una comune pretesa normativa, scritti da autori perlopiù oggi caduti nell’oblio. Oltre a collaborare ad alcune riviste, Palante “di mestiere fece per tutta la vita il professore di filosofia.  Le Antinomie tra l’individuo e la società e Pessimismo e individualismo sono due libri nati inizialmente come tesi da presentare alla Sorbona di Parigi per ottenere un dottorato; depositò i titoli già nel 1907, ma per ragioni ideologiche e per l’approccio rude e per nulla diplomatico che Palante tenne con i suoi relatori (Gabriel Séailles e Célestin Bouglé) la tesi nel 1911 fu respinta in prima lettura e non ammessa alla discussione finale. Gli fu quindi sbarrata la strada per la carriera accademica, negandogli l’eventuale possibilità di concorrere per una qualche cattedra universitaria; nel 1898 era entrato stabilmente nel corpo docenti del liceo di Saint-Brieuc e lì, dunque, continuò a insegnare fino al pensionamento”. [Per un primo sintetico profilo vedi Georges Palante, l’individualismo e la mentalità del ribelle].

II. Nel fascicolo successivo del MdF (16 dicembre 1912) Palante ritornò sulla questione della sua “bocciatura” alla Sorbona con un lungo articolo/dossier difensivo, fatto poi circolare anche come estratto in forma di opuscolo. Su questo resta anche una interessante riflessione di un altro “irregolare” attivo all’esterno delle istituzioni accademiche statali francesi – a quell’epoca molto più chiuse, autoreferenziali e angustamente burocratiche di oggi – Georges Sorel (1847-1922), conservata in una lettera che scrisse il 4 febbraio 1913 al pubblicista e saggista Jean Bourdeau (1848-1928):

«Dopo avere letto la brochure di Palante non sono molto sorpreso della severità di cui la Sorbona ha dato prova; trovo solamente che Séailles avrebbe potuto dare altre ragioni rispetto a quelle che si leggono nel suo rapporto. L’autore appartiene all’équipe del Mercure che continua a guardare a Schopenhauer, Stirner, Nietzsche come spiriti direttori del pensiero moderno. La Sorbona non ha bisogno di mettersi a rimorchio di Durkheim per trovare che hanno tratto da quegli autori un deplorevole guazzabuglio e che essa non consacrerà affatto con onori universitari delle dissertazioni che giudica indegne della filosofia. Io non trovo che essa superi i limiti del suo diritto nel rinviare alla letteratura la gente del Mercure. Poiché loro pensano delle Università quello che ne diceva Schopenhauer (ed è ciò che si vede nella brochure), non devono aggregarsi alle Università. Io non mi sognerei mai di presentare Le illusioni del progresso come una tesi di dottorato; ugualmente troverei del tutto naturale che la Sorbona non accettasse nessuna mia tesi.

C’è un altro lato della questione che Palante avrebbe dovuto accostare nella sua brochure. Il Mercure ha edito Il Romanticismo di P. Lasserre e voi sapete che questo libro ha avuto una grande influenza sull’attuale gioventù; la Sorbona senza dubbio oggi non l’accetterebbe più come tesi e deve ben pentirsi di aver dato al suo autore il cappello di dottore. Dopo molti anni hanno annunciato il volume recente dello stesso autore sulla Dottrina ufficiale dell’Università; è apparso al Mercure e dal 1911 si deve supporre che assomiglierà al Romanticismo. Sapete, senza dubbio, che questa nuova opera ha dato una pugnalata ben crudele alla Sorbona, perché non è facile ribattere agli argomenti di P. Lasserre; parla con una competenza che mancava ad Agathon. Infine, è nel Mercure che Agathon ha pubblicato, credo, il suo libro sulla Sorbona due anni fa. Tutti questi fatti sarebbero sufficienti per piazzare il Mercure come una fucina di complotti anti-sorboniani; suppongo che siano stati molto lieti di avere avuto un’occasione per manifestare ai giovani che ormai la Sorbona avrebbe guardato come dei nemici tutti i membri dell’équipe del Mercure. Séailles questo non lo poteva dire, ma è probabilmente la grande ragione del suo cattivo umore. La nota che contiene l’opinione di Taine su Séailles mi sembra eccellente. Taine doveva detestare quella letteratura estetica che ha fatto la reputazione di Séailles. […]».

III. Nel clima postbellico, quando «L’ora è alla revisione dei conti, dei valori, delle idee. In filosofia più che altrove di tali ricapitolazioni sono di stagione.», Palante alla fine del 1919 dedicava quasi interamente la sua “chronique” del MdF (15 dicembre) alla recensione di Dominique Parodi, La Philosophie contemporaine en Franc (Parigi, Alcan, 1919; nel 1920 usci già la seconda edizione rivista). Nel libro Palante viene ricordato solo di passaggio (p. 317) in una nota bibliografica relativa “alla diffusione della filosofia di Nietzsche” e alla trasformazione dell’immoralismo in dottrina (“Toute une série d’écrivains, dans les années qui ont précédé la guerre, ont érigé ainsi l’immoralisme en doctrine : c’est l’irralionalisme de l’action.”); di questo non fa cenno, però nella sua recensione Palante si sofferma sui rapporti conflittuali tra il “clan professorale” e “i pensatori extra universitari”:

«Il libro di Parodi ci presenta un quadro infinitamente più ampio e più ricco dell’attività filosofica contemporanea. Attività multilaterale e polimorfa, quant’altre mai; in ragione dell’assenza di una dottrina di Stato nell’Università e a favore di una anomia intellettuale che nessuno si sogna di lamentare, e Parodi meno di chiunque; anomia che non esclude, tutto sommato, secondo Parodi, né l’orientamento naturale degli spiriti verso alcuni problemi dominanti, né la comunanza de “lo spirito filosofico introdotto nelle discipline più diverse, messe al servizio delle più opposte idee”». […] «Un più serio rimprovero a Parodi è il carattere ad un tempo incompleto e troppo completo della sua galleria di filosofi. Troppo completo per ciò che concerne il clan professorale i cui rappresentanti si allineano in coorti serrate, comparabili alle enumerazioni omeriche; incompleto o perlomeno insufficientemente completo per ciò che concerne i pensatori extra universitari. Non che l’autore non faccia buona e giusta misura per alcuni di loro – Benda, Jules de Gaultier, per esempio – ma ci si stupisce per qualche dimenticanza. È così che la parte filosofica dell’opera di un Remy de Gourmont, costituita da dei contributi di tutto prim’ordine alla psicologia e alla storia delle idee — studi sulla dissociazione delle idee, nel corso di un libro che meriterebbe la qualificazione di classico: La Cultura delle Idee; un’esegesi, unica per penetrazione e originalità, della casuistica gesuita, apparsa sotto il titolo suggestivo di Sentieri di Velluto (**Chemin de Velours); la scoperta di una legge di fisio-psicologia gravida di conseguenze: la legge della costanza intellettuale (Remy de Gourmont, Promenades philosophiques / Passeggiate filosofiche, seconda serie) —, tutto ciò non vale a questo grande spirito, uno dei più alti rappresentanti dell’Intelligenza francese presso la cultura mondiale, l’ombra di una menzione nel palmarès di Parodi. Lo stesso per Gustave Le Bon, altro grande propagatore dell’influenza francese non solamente per la “Bibliothèque de Philosophie scientifique” (Biblioteca di Filosofia scientifica**) che egli dirige, ma anche per l’azione considerevole della sua opera personale. G.[ustave] Le Bon, se ottiene un magro accenno in quanto adepto della filosofia delle razze, è completamente passato sotto silenzio come psicologo dell’Educazione o come teorico della materia e dell’energia; mentre tale o talaltra opera di piccolo, ovvero grande pontefice universitario, che non ha altro titolo all’attenzione se non quella di un’indimenticabile povertà di pensiero o una ributtante aridità dialettica, ricevono un posto proporzionato alla loro potenza sonnifera. Si dirà forse che un Remy de Gourmont era un saggista, un amatore della filosofia piuttosto che un filosofo (e questo sarebbe, dunque, anche il caso del Dr G.[ustave] Le Bon?). Suvvia! Amatore, non è disprezzabile. Dopo tutto, Fabre, in entomologia, non fu un amatore di genio? E anche Descartes, e Pascal, e Fermat, in fisica. Ci sono degli amatori che valgono dei maestri o, meglio, che sono dei maestri.»

IV. Bourdeau aveva recensito favorevolmente il libro di Palante “Les antinomies entre l’individu et la société” nel “Journal des débats politiques et litteraire”, 26 novembre 1912; la trascrizione delle lettere di Sorel, compresa quella qui in parte tradotta, si trova pubblicata nei nn. 14 e 15 della rivista “Mil neuf cent”, 1996/1997. I libri ai quali Sorel si riferisce nella lettera sono: Pierre Lasserre (1867-1930), Le Romantisme français. Essai sur la révolution dans les sentiments et dans les idées au XIXe siècle, (Thèse présentée à la Faculté des lettres de l’Université de Paris), Parigi, MdF, 1907; Pierre Lasserre-René de Marans, La Doctrine officielle de l’Université. Critique du haut enseignement de l’État. Défense et théorie des humanités classiques, Parigi, MdF, 1912. Agathon era invece uno pseudonimo usato da Henri Massis (1886-1970); con questo pseudonimo pubblicò insieme ad Alfred de Tarde (1880-1925) il libro polemico ricordato nella lettera da Sorel: L’Esprit de la nouvelle Sorbonne, Parigi, MdF, 1911. Infine, del suo libro menzionato, “Les Illusions du progrès” (Parigi, Marcel Rivière, 1908), Sorel aveva qualche mese prima pubblicato la seconda edizione (1911); l’editore palermitano Remo Sandron (1854-1925) l’aveva pubblicato in traduzione italiana già nel 1910; il traduttore era Agostino Lanzillo (1886-1952) che da sindacalista rivoluzionario finì dopo la Grande Guerra ad accodarsi al fascismo, in un lungo rapporto di contiguità e critica durato fino alla II Guerra mondiale. (effe) 4/11/2019