José Asunción Silva: Sospiri

JOSÉ ASUNCIÓN SILVA – Se fossi poeta e potessi fissare il volteggio delle idee in rime brillanti e agili come uno sciame di farfalle bianche in primavera con spilli sottili d’oro; se potessi cristallizzare i sogni in rare strofe, farei una meravigliosa poesia in cui parlerei dei sospiri, di quest’aria che ritorna all’aria, portando con sé qualcosa delle speranze, delle stanchezze e delle malinconie degli uomini.


E per fuggire dai sospiri di convenzione, dalle romanze sentimentali, piene di luna di paccottiglia e di usignoli triviali, parlerei dei sospiri angusti che fluttuano nell’aria spessa e impregnata di odore di acido fenico, nella luce dorata dei ceri, tra l’aroma vago dei fiori mortuari, vicino a quelli i cui occhi, chiusi per sempre, conservano le impronte violacee delle ultime insonnie, e le cui labbra si screpolarono per il freddo della morte…


Ah, no! Quel sospiro sarebbe troppo triste per parlarne; il suo ricordo farebbe annuvolare gli occhi ingenui delle lettrici, gli occhi talvolta scuri come notti d’inverno, altra azzurri e chiari, come l’acqua dei laghi quieti.


Perché non si annuvolassero, parlerei del sospiro di voluttà e di stanchezza che fluttua nell’aria tiepida di una sala da ballo, illuminata a giorno, riflessa da specchi veneziani; del sospiro di una donna bella e giovane agitata dal valzer, la cui pelle di pesca arrossisce, e le cui dita di fata stringono febbrilmente il ventaglio di piume flessuose che le baciano la falda; del sospiro sensuale e vago che si perde tra le bianchezze rosate dell’aria dove palpita l’iride dei diamanti, dove la luce si brucia nell’aria dei rubini, nell’azzurro misterioso degli zaffiri, nell’aria che trascina tentazioni di tenerezze e di baci…


Ah, no! Quel sospiro è troppo dolce per parlarne; il suo ricordo farebbe corrugare la fronte stanca e sbiancherebbe la canizie dei filosofi, nelle cui vene non scorre, in ondata ardente, il sangue della gioventù. Perché potessero leggermi, parlerei piuttosto del sospiro di stanchezza di un vecchio, di un sospiro udito in una sera d’autunno, sulla strada che va dal paese al cimitero, una strada sulla quale roteava il fogliame spinto dal vento; dove un filo d’acqua lasciava udire il suo lamento monotono; dove gli alberi, avvolti dalla nebbia, prendevano strani aspetti, e nel cui orizzonte tra le nebbie fredde e umide, si disponeva il sole. Oh! Quel sospiro sembrava uscire più che da un petto umano, stanco della vita, dal paesaggio stesso, dal cimitero dove dormono le ossa sotto l’erba, dalla vegetazione bruciata dal freddo, dalle oscurità vaghe dell’orizzonte; sembrava essere un lamento della natura desiderosa di dormire in definitivo riposo, affaticata dal suo compito eterno, dalla successione infinita delle estati e degli inverni, della luce e dell’ombra…


Oh, se fossi poeta e potessi fissare il volteggio delle idee in rime brillanti e agili come uno sciame di farfalle bianche in primavera con spilli sottili d’oro; se potessi cristallizzare i sogni; se potessi chiudere le idee, come profumi, in strofe cesellate, farei una meravigliosa poesia in cui parlerei dei sospiri, di quest’aria che ritorna all’aria, portando con sé qualcosa delle speranze, delle stanchezze e delle malinconie degli uomini!


Pur essendo poeta e facendo la poesia meravigliosa, non potrei parlare di un altro sospiro… del sospiro dei poeti quando non riescono a chiudere nella loro opera l’irriducibile essenza delle cose; del sospiro che viene a tutti i petti umani quando comparano la felicità ottenuta, il sapore conosciuto, il paesaggio visto, l’amore felice, con le felicità che sognarono, che non si realizzano mai, che non offre mai la realtà, e che tutti ci forgiamo in inutili sogni.

**Traduzione 2017: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati.
Opera originale: “Suspiros” (189?). *La traduzione segue il testo incluso in José Asunción Silva, Poesías, (precedidas de un Prólogo de Don Miguel De Unamuno), Barcelona, Imprenta de Pedro Ortega / Casa Editorial Maucci, 1908 [Nueva edición, 1910].
*Parte significativa dell’opera autografa di José Asunción Silva (Colombia; 1865-1896), si perse definitivamente nel naufragio del vaporetto Amérique (1895) e quello che si conserva dei suoi scritti ha seguito accidentate peripezie editoriali, dando molto lavoro ai filologi che nel secondo Novecento hanno provato a fissare per i testi edizioni critiche sufficientemente affidabili. I dettagli e/o le scelte discrezionali sono questioni tecniche che intessano gli specialisti; richiamo rapidamente il punto solo per segnalare al lettore che in edizioni più recenti – e in particolare mi riferisco a quelle curate da Camacho Guizado e Gustavo Mejía (1977/1985), riprese oggi da vari siti online in spagnolo – nell’ultima parte del testo viene espunto “del suspiro de los poetas cuando no alcanzan á encerrar en su obra la esencia irreductible de las cosas;” (“del sospiro dei poeti quando non riescono a chiudere nella loro opera l’irriducibile essenza delle cose;”).
Per coerenza testuale, ritengo – è evidente – letterariamente migliore la scelta che fecero i curatori della “edizione Maucci”.

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