John Stuart Mill: Sulla libertà sociale o civile

Londra serale

JOHN STUART MILL — Il soggetto di questo lavoro non è il cosi detto libero arbitrio tanto infelicemente opposto a quella che mal si chiama dottrina di necessità filosofica, ma bensì la libertà sociale o civile, cioè la natura e i limiti del potere che la Società può legittimamente esercitare sull’individuo: questione posta di rado e forse non discussa mai in termini generali, ma che colla sua presenza inavvertita ha una profonda influenza sulle controversie pratiche del secolo e probabilmente sarà bentosto riconosciuta come la questione vitale dell’avvenire. Questa questione è si lungi dall’esser nuova, che, in un certo senso, essa ha diviso l’umanità, fin quasi dai tempi più remoti. Ma essa si presenta sotto nuove forme nell’epoca di progresso in cui ora sono entrati i gruppi più civili della specie umana, ed è necessario trattarla in modo diverso e più fondamentale.

La lotta tra libertà ed autorità è la nota caratteristica di quelle epoche storiche che ci divengono a prima giunta familiari nelle storie greca, romana ed inglese. Ma, in altri tempi, la lotta era tra i sudditi, o qualche classe di sudditi, e il governo: per libertà, s’intendeva la protezione contro la tirannia dei governanti politici. Questi (tranne che in qualche città democratica di Grecia) sembravano in una posizione necessariamente nemica al popolo da essi governato. In altri tempi il governo era in generale tenuto da un uomo o da una tribù o da una casta che derivava la propria autorità dal diritto di conquista o di successione, — in nessun caso dal consenso dei governati — e di cui gli uomini non osavano, fors’anche non desideravano di porre in dubbio la supremazia, pure prendendo qualche precauzione contro l’esercizio oppressivo di essa. Si considerava allora il potere dei governanti come necessario, ma anche come altamente pericoloso: come un’arma ch’essi avrebbero tentato di usare tanto contro i loro sudditi quanto contro i nemici esterni. Per impedire che i membri più deboli della collettività fossero divorati da innumerevoli avoltoi, era indispensabile che un uccello da rapina più forte degli altri fosse incaricato di frenare questi animali voraci; ma poiché il re degli avoltoi non sarebbe stato meno disposto a divorare il gregge di nessuna delle arpie minori, cosi bisognava tenersi sempre sulla difensiva contro il suo becco e contro i suoi artigli.

Per questo, scopo dei patrioti era di assegnare dei limiti al potere che i governanti dovessero esercitare sulla collettività: questo essi intendevano per libertà. Vi si tendeva in due modi: anzitutto, coll’ottenere il riconoscimento di certe immunità, dette libertà o diritti politici, che, secondo l’opinione generale, il governo non poteva impunemente violare senza mancar di parola e senza correre, ben a ragione, il rischio di una resistenza particolare o di una ribellione generale. Un altro espediente, più recente in generale, era lo stabilire dei freni costituzionali, per mezzo dei quali il consenso della comunità o di un corpo qualunque, supposto rappresentante degl’interessi di questa, era condizione necessaria di qualcuno fra gli atti importanti di governo. Nella maggior parte dei paesi d’Europa, il governo è stato costretto, più o meno, a sottomettersi alla prima di queste restrizioni. Non avvenne lo stesso per la seconda; e il potervi giungere o, quando fino a un certo punto già la si possedeva, il giungervi più completamente, divenne dappertutto principal fine degli amici di libertà. E finché l’umanità si contentò di combattere un nemico coll’altro, ed esser governata da un padrone, a condizione d’esser più o meno efficacemente garantita contro la sua tirannia, i desideri dei liberali non si elevarono più alto.

Pure, nel cammino delle cose umane, venne un momento in cui gli uomini cessarono di considerare come naturalmente necessario che i loro governanti costituissero un potere indipendente, d’un interesse opposto al loro. Parve ad essi assai meglio che i vari magistrati dello Stato fossero loro rappresentanti o delegati, revocabili a loro piacimento. Sembrò che solamente a questo modo l’umanità potesse avere la completa assicurazione che non si sarebbe mai, a suo danno, abusato dei poteri del governo. A poco a poco, questo nuovo bisogno di governanti elettivi e temporanei divenne l’obbietto principale delle agitazioni del partito popolare, dovunque ce n’era uno, e allora si abbandonarono quasi dappertutto gli sforzi precedenti per limitare il potere dei governanti. Poiché in questa lotta si trattava di far emanare il potere di governo dalla scelta periodica dei governati, alcuni cominciarono a credere che si era attribuita troppa importanza all’idea di limitare il potere stesso. Questo (a ciò che pareva) era un vantaggio contro quei governanti i cui interessi erano abitualmente opposti a quelli del popolo; ma ciò che allora occorreva, era che i governanti fossero una cosa sola col popolo, che il loro interesse e la loro volontà fossero l’interesse e la volontà della nazione. La nazione non avea bisogno d’esser protetta contro la sua propria volontà: non c’era da temere ch’essa si tiranneggiasse da sé. E poiché i governanti di una nazione erano efficacemente responsabili verso di essa, prontamente revocabili quando a questa piacesse, si poteva bene affidar loro un potere di cui la nazione stessa aveva il mezzo di prescrivere l’uso. Il loro potere non era che lo stesso potere della nazione, concentrato e messo in una forma comoda per essere esercitato. Questo modo di pensare o forse piuttosto di sentire era comune, nell’ultima generazione dei liberali europei, fra i quali prevale ancora sul continente. Quelli che pongono qualche limite a ciò che un governo può fare, tranne il caso di governi tali che, secondo essi, non dovrebbero esistere, sono, fra i pensatori del continente, segnati a dito come brillanti eccezioni. Un tal modo di sentire potrebbe, nell’ora che volge, prevalere anche nel nostro paese, se le contingenze che per un dato tempo rincoraggiarono non l’avessero mutato dappoi.

Ma nelle teorie politiche e filosofiche, come nelle persone, il successo lascia scorgere dei difetti e dei lati deboli che l’insuccesso avrebbe potuto nascondere. L’idea che i popoli non hanno bisogno di limitare il loro potere su loro stessi poteva sembrare assiomatica quando il governo popolare era una cosa di cui ci si limitava a sognar l’esistenza o a leggerla nella storia, in qualche epoca molto remota.

Questo concetto non fu necessariamente turbato da transitorie aberrazioni, come quelle della rivoluzione francese, di cui le peggiori furono opera di una minoranza usurpatrice e che, in ogni caso, non rappresentavano l’azione permanente delle instituzioni popolari, ma una esplosione subitanea e convulsiva contro il dispotismo monarchico ed aristocratico. Frattanto, a tempo opportuno, una repubblica democratica venne ad occupare una larga superficie della terra e divenne una delle parti più potenti della comunità delle nazioni. D’allora in poi, il governo elettivo e responsabile divenne l’obbietto ai quelle osservazioni e di quelle critiche che si dirigono a qualunque grande fatto esistente. Ci si accorse allora che certe frasi, come «il potere su se stesso» e «il potere dei popoli su loro stessi» non esprimevano il vero stato delle cose; il popolo che esercita il potere non è sempre quello stesso su cui lo si esercita, e il governo di sé stesso di cui si parla non è il governo di ciascuno tenuto da lui stesso, ma di ciascuno tenuto da tutti gli altri. Inoltre, volontà del popolo significa, praticamente, volontà della parte più numerosa ed attiva del popolo – della maggioranza insomma, o di quella che riesce a passare per tale. Di conseguenza, il popolo può desiderar di opprimere una parte di se stesso, e le precauzioni sono, a questo riguardo, utili altrettanto che contro qualunque altro abuso di potere. Per queste ragioni è sempre importante limitare il potere del governo sugl’individui, anche quando i governanti siano regolarmente responsabili verso la comunità, o cioè verso il partito che nella comunità prevale. Questo modo di lumeggiare l’argomento non ha durato fatica a farsi accettare: esso si raccomanda ugualmente all’intelligenza dei pensatori e alle tendenze di quelle classi notevoli della società europea che considerano la democrazia come ostile ai loro interessi. Così ora si pone, nelle speculazioni politiche, la tirannia della maggioranza nel novero dei mali di cui la società deve premunirsi.

Come le altra tiranne, quella della maggioranza fu dapprima ed è volgarmente ancora temuta, soprattutto in quanto agisce per mezzo dgli atti della pubblica autorità. Ma ogni attento osservatore si accorse che, quando la società è essa stessa il tiranno – la società collettivamente, rispetto ai singoli individui che la compongono – i suoi mezzi di tiranneggiare non si restringono agli atti ch’essa comanda ai suoi funzionari politici. La società può eseguire, ed eseguisce essa stessa, i suoi propri decreti; e, se ne emana di cattivi, o se ne emana a proposito di cose di cui non dovrebbe entrare, essa esercita una tirannia sociale più formidabile di qualunque oppressione legale: in realtà, se una tal tirannia non dispone di penalità altrettanto gravi, lascia però minor mezzo di sfuggirle; perché penetra ben più addentro nei particolari della vita ed incatena l’anima stessa.

Per questo, la protezione contro la tirannia del magistrato non basta. Dappoiché la società ha la tendenza: 1° d’omporre come regole di condotta, con mezzi che non entrano nelle penalità civili, le sue idee e i suoi costumi a quelli che se ne staccano – 2° d’impedire lo sviluppo e, per quanto è possibile, la formazione di qualunque individualità spiccata – 3° di costringere tutti i caratteri a modellarsi sul suo proprio – l’individuo ha il diritto di esser protetto contro tutto questo. C’è un limite all’azione legittima della opinione collettiva sull’indipendenza individuale: trovare questo limite e difenderlo contro qualunque usurpazione è indispensabile ad una buona condizione delle cose umane altrettanto che proteggersi contro il dispotismo politico.

Ma, se questa proposizione non è contestabile in termini generali, la questione pratica del dove il limite si debba porre, del come si debbano metter d’accordo la libertà individuale e la sociale sorveglianza, è un argomento sul quale quasi tutto è ancora da fare. Tutto ciò che dà qualche valore alla nostra esistenza dipende dalla coazione imposta alle azioni d’altri: dunque alcune regole di condotta debbono essere imposte dalla legge anzittutto, e poi dall’opinione, per quelle molte cose su cui la legge non può esercitare un’azione.

Quali debbono essere queste regole? Tale è la fondamental questione nelle cose umane; ma, eccezion fatta per qualcuno dei casi più importanti, è anche quella per la soluzione della quale si è fatto il minor cammino.

Non vi sono due secoli né, quasi, due paesi che su questo siano arrivati alla stessa conclusione; e la conclusione di un secolo o si un paese è argomento di stupore per un altro. Tuttavia, gli uomini di ciascun secolo o di ciascun paese non trovano la questione più complicata che se si trattasse di un soggetto su cui la specie umana sia sempre andata d’accordo. Le regole che in mezzo a loro predominano sembrano evidenti ed aventi in se stesse la loro giustificazione: questa illusione quasi universale è uno degli esempi della magica influeza dell’abitudine, la quale non soltanto, come dice il proverbio, è una seconda natura, ma continuamente è scambiata con la natura medesima. L’effetto dell’abitudine, impedendo che alcun dubbio si elevi a proposito delle regole di condotta dall’umanità imposte a ciascuno, è tanto più completo in tanto che, su questo argomento, non si considera generalmente come necessario di poter dare delle ragioni o agli altri o a se stesso: si è avvezzi a credere (e certuni che aspirano al titolo di filosofi c’incoraggano in questa opinione) che i nostri sentimenti su soggetti di tal natura valgano meglio di ragioni e rendano queste inutili. Il principio pratico che ci guida nelle nostre opinioni sul modo di regolare la condotta umana, è l’idea, nello spirito di ciascuno, che gli altri dovrebbero esser costretti ad agire come desidererebbe egli e quelli pei quali egli ha simpatia. In realtà, nessuno si confessa che il regolatore del suo giudizio è il suo proprio capriccio; eppure un’opinione su un punto di condotta, che non è sostenuta da ragioni, non può considerarsi se non come la tendenza di una persona; e se le ragioni, una volta date, non sono che un semplice richiamo ad una simile tendenza a cui altre persone obbediscono, è sempre ancora la inclinazione di molti in luogo d’essere quella di un solo. Per un uomo ordinario tuttavia, la sua inclinazione, così sostenuta, non solo è una ragione pienamente soddislacente, ma l’unica la cui derivano tutte le nozioni di moralità, di gusto, di convenienze, che la sua fede religiosa già non comprende: è anche la sua principal guida nell’interpretazione di questa.

Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che è lodevole o biasimevole risentono l’influenza di tutte le cause diverse che influiscono sui loro desideri a proposito della condotta degli altri, cause numerose quanto quelle che determinano i loro desideri su qualunque altro soggetto. Qualche volta è la loro ragione; qualche altra sono i loro pregiudizi o le loro superstizioni; spesso i loro sentimenti sociali, e non di rado le loro tendenze antisociali, l’invidia o la gelosia, lo sprezzo o l’improntitudine. Ma il più delle volte l’uomo è guidato dal suo interesse, legittimo o illegittimo. Dovunque c’è una classe dominante, quasi tutta la morale pubblica deriva dagli interessi di questa classe e dai suoi sentimenti di superiorità. La morale tra Spartani ed Iloti, tra coltivatori e negri nelle piantagioni, tra principi e sudditi, tra nobili e plebei, tra uomini e donne, fu quasi dappertutto creazione degl’interessi e dei sentimenti di classe: e le opinioni cosi generate reagiscono alla lor volta sui sentimenti morali dei membri della classe dominante, nelle loro relazioni reciproche. D’altra parte, dovunque una classe in altri tempi dominante ha perduto la sua influenza, o anche dovunque questa influenza è impopolare, i sentimenti morali che prevalgono portano il segno di un’impaziente ribellione all’autorità. Un altro principio, che determinò delle regole di condotta imposte, sia dalla legge, sia dall’opinione, fu la servilità della specie umana riguardo alle preferenze o alle avversioni supposte dei suoi signori terreni o delle sue divinità. Questa servilità, sebbene essenzialmente egoistica, non nasce da ipocrisia, e fa sorgere dei sentimenti d’orrore perfettamente sinceri; essa ha reso gli uomini capaci di bruciare degli stregoni e degli eretici.

Frammezzo a tante più basse influenze, gli interessi evidenti e generali della società hanno avuto naturalmente una parte, ed importante, nella direzione dei sentimenti morali: meno tuttavia pel valore loro proprio che come una conseguenza delle simpatie o delle antipatie da questi interessi prodotte. In seguito si son fatte sentire con altrettanto vigore nello stabilirsi dei principi morali delle simpatie o delle antipatie le quali nulla o quasi avevano a che vedere cogli interessi della società.

Cosi il capriccio o il disgusto della società o di qualche parte potente della società sono la principale determinante, in pratica, delle regole imposte all’osservanza generale sotto la sanzione della legge o della opinione.

In genere, quelli che erano, quanto ad idee e a sentimenti, più avanzati della società, hanno lasciato che un tale stato di cose si mantenesse, come principio, intatto, per quanto abbiano potuto lottare contro qualcuno dei suoi particolari; si sono dati cura di sapere che cosa debba preferire o non preferire la società, piuttosto che di sapere se quanto essa preferiva o non preferiva si dovesse imporre agli individui; si proposero di mutare i sentimenti della specie umana su qualche punto speciale in cui essi stessi eran colpevoli di eresia, anziché di fare, con tutti gli eretici in generale, causa comune per la difesa della libertà. Nessuno si è, coscientemente, inalzato di più; e nessuno ci è rimasto saldamente tranne che in materia di religione: un caso che, sotto più rispetti, contiene degl’insegnamenti, sopratutto perché offre un esempio, che colpisce, della fallibilità del cosi detto senso morale: poiché l’odium theologicum, in un bigotto sincero, è uno dei casi più sicuri del sentimento morale. Quelli che scossero per primi il giogo di ciò che si chiamava la Chiesa universale, erano in generale disposti a tollerare delle divergenze di opinioni religiose quanto quella Chiesa stessa. Ma, quando fu sbollito l’ardore della lotta senza dare compieta vittoria ad alcun partito, quando ciascuna chiesa o setta dovette limitare le sue speranze a conservare il possesso del terreno occupato, le minoranze, vedendo che esse non avevano probabilità di mutarsi in maggioranze, furono costrette a sostenere la libera dissidenza religiosa in confronto di quelli che non potevano convertire. Di conseguenza, è quasi solo su questo campo di battaglia che i diritti dell’individuo contro la società sono stati rivendicati sulla base di principi bene stabiliti, e che il diritto della società di far pesare l’autorità sua sui dissidenti fu apertamente contestato. I grandi scrittori a cui il mondo deve ciò ch’egli possiede di libertà religiosa hanno rivendicato la libertà di coscienza come un diritto inalienabile, ed hanno in modo assoluto negato che un essere umano debba render conto agli altri della sua fede religiosa. Tuttavia è cosi naturale alla specie umana l’intolleranza per tutto quello che veramente le preme, che la libertà religiosa non fu attuata quasi in nessun luogo, salvo là dove l’indifferenza, che non ama di vedersi turbata nella sua pace da dispute teologiche, ha fatto sentire il suo peso sulla bilancia.

Nello spirito di quasi tutte le persone di fede, anche nei paesi più tolleranti, il diritto non è ammesso senza tacite riserve. Una persona lascerà dire i dissidenti in materia di governo ecclesiastico, ma non in materia di dogma; un altro può tollerar chicchessia, ma non un papista o un unitario; un terzo, tutti quelli che credono alla religione rivelata; un piccolo numero va nella sua carità più lontano, ma si ferma alla credenza in un Dio e nella vita futura. Dovunque il sentimento della maggioranza è ancora sincero ed intenso, ci si accorge che essa non ha punto rinunziato alle sue pretese di essere obbedita.

In Inghilterra (a cagione delle speciali contingenze della nostra storia politica) sebbene il giogo della opinione sia forse più grave, quello della legge e più lieve che nella maggior parte dei paesi di Europa, e c’è una grande avversione contro qualunque diretto intervento del potere, sia legislativo, sia esecutivo, nella condotta privata; questo assai meno a causa di un giusto rispetto pei diritti dell’individuo che a causa della vecchia abitudine di considerare il governo come rappresentante di un interesse opposto a quello del pubblico. La maggioranza non ha ancora imparato a considerare il potere del governo come il suo potere, e le opinioni del governo come le sue: e quando essa sarà giunta a questo, la libertà individuale correrà probabilmente il pericolo di essere violata dal governo quanto lo è già ora dalla pubblica opinione.

Ma, pel momento, c’ è una forza grande di sentimento pronta a sollevarsi contro qualunque tentativo della legge per sorvegliare gl’individui, in cose che fino allora non erano di sua spettanza: e questo senza alcun discernimento di ciò che sia o no nella sfera legittima della sorveglianza ufficiale; cosicché un tale sentimento, così altamente salutare in sè, è applicato altrettanto spesso a torto che a ragione. In fatto, non v’è principio riconosciuto per istabilire in modo pratico la legittimità o l’illegittimità dell’intervento governativo: si decide secondo le tendenze personali. Gli uni, dovunque vedono del bene da fare o del male da riparare, vorrebbero spingere il governo ad assumersi l’impresa, mentre gli altri preferiscono sopportare ogni sorta di abusi sociali piuttosto di aggiungere alcunché alle attribuzioni del governo. Gli uomini si schierano, in ciascun caso particolare, in queste o in quelle file, seguendo o l’indirizzo generale dei loro sentimenti, o il grado d’interesse ch’essi prendono alla cosa che si propone di far fare al governo, o anche la persuasione che il governo saprà o non saprà fare la cosa nel modo da essi preferito. Ma essi agiscono molto di rado secondo una opinione meditata e ferma sulle cose che naturalmente devono esser fatte dal governo. E quindi mi sembra che oggidì, in conseguenza di tale mancanza di regola o di principio, un partito ha torto altrettanto spesso che l’altro; l’intervento del governo è invocato a torto altrettanto spesso che condannato a torto.

Scopo di questo saggio e proclamare un principio molto semplice, e che deve assolutamente informare la condotta della società verso l’individuo, in tutto ciò che è costrizione e sorveglianza — siano poi i mezzi usati vuoi la forza fisica, sotto forma di pene legali, vuoi la coazione morale della pubblica opinione. Ecco un tale principio: il solo fine che permette agli uomini, individualmente o collettivamente, di turbare la libertà d’azione d’alcuno dei loro simili, è là protezione di sé stesso; la sola ragione legittima che possa avere una comunità per far uso della forza contro uno dei suoi membri, è d’impedirgli di nuocere agli altri: ma non è ragione sufficiente il bene, sia fisico, sia morale, di questo individuo.

Un uomo non può, a rigore, essere costretto a fare o ad omettere un’azione, perché ciò sarebbe meglio per lui, o lo renderebbe più felice, o perché, nell’opinione degli altri, egli farebbe cosa saggia od anche giusta. Tutte queste sono ragioni buone per fargli delle osservazioni, per discutere con lui, per convincerlo o per supplicarlo, ma non per costringerlo o per cagionargli alcun danno, s’egli non se ne cura. Per giustificare questo, occorrerebbe che la condotta da cui si vuole distogliere quest’uomo avesse per effetto di nuocere a qualche altro: la sola parte della condotta d’un individuo, sulla quale la società abbia giurisdizione, è quella che concerne gli altri: per ciò che interessa lui solo, la sua indipendenza e, di diritto, assoluta; su sé stesso, sul proprio corpo e sul proprio spirito, l’individuo è sovrano.

Questa dottrina — è forse appena necessario di accennarlo — non vuol essere applicata se non agli esseri umani nella maturanza delle loro facoltà. Noi non parliamo dei ragazzi né degli adolescenti d’ambo i sessi che non abbiano raggiunto, secondo la legge, l’età maggiore: quelli che sono ancora in età che richiede le cure altrui, devono essere protetti contro le loro proprie azioni così come contro qualunque pericolo esterno. Per la stessa ragione, noi possiamo lasciar da parte quelle società nascenti in cui la razza stessa può esser considerata come minorenne: le prime difficoltà sulla strada del progresso spontaneo sono cosi grandi, che ben di rado si ha la scelta dei mezzi di superarle. Cosi, qualunque sovrano animato da spirito progressivo può bene servirsi di tutti i mezzi per raggiungere uno scopo, che altrimenti, forse, gli sarebbe sfuggito per sempre. Il dispotismo è un modo legittimo di governare quando si tratta con barbari, purché lo scopo sia il loro miglioramento e i mezzi si giustifichino raggiungendolo sul serio. La libertà, come principio, non si può applicare ad uno stato di cose anteriore al momento in cui la specie umana divien capace di migliorarsi con un’equa e libera discussione: fin là, essa non può sperare che nella cieca obbedienza ad un Akbar o ad un Carlomagno, se ha la fortuna di trovarne. Ma dacché il genere umano è capace di progredire per mezzo della convinzione o della persuasione (grado che da molto tempo hanno raggiunto tutte le nazioni di cui dobbiamo occuparci) la coazione, o sotto la forma diretta, o sotto quella di penalità per la non osservanza, non è più ammissibile come mezzo di far del bene agli uomini; essa è giustificabile ancora soltanto per la loro sicurezza reciproca.

Conviene premetterlo: io trascuro qualunque vantaggio possa venire alla mia argomentazione dall’idea del diritto astratto come cosa indipendente dall’utile: l’utilità è, a senso mio, la soluzione suprema di qualunque questione morale; ma deve essere l’utilità nel senso più vasto della parola, l’utilità fondata sui vantaggi permanenti dell’uomo, considerato come essere progressivo.

Quesi interessi, io sostengo, non giustificano la sottomissione della spontaneità individuale ad una sorveglianza esteriore se non per quelle azioni di ciascuno che toccano l’interesse altrui. Se un uomo compie un atto agli altri dannoso, c’è evidentemente ragione di punirlo colla legge, oppure, se le penalità legali non sono in tutta certezza applicabili, colla generale disapprovazione. Vi sono anche molti atti positivi vantaggiosi agli altri che un uomo pul esser giustamente obbligato a compiere: per esempio, far da testimonio in giudizio o fare tutto il proprio dovere, sia nella difesa comune, sia in qualunque opera comune necessaria alla società sotto la protezione della quale egli vive. Inoltre si può, a rigore, tenerlo responsabile verso la società se egli non compie certi atti di beneficenza individuale che sono, in date circostanze, il dovere evidente di ogni uomo; come il salvare la vita al proprio simile o l’intervenire per difendere il debole dai maltrattamenti. Una persona può nuocere agli altri non soltanto con le sue azioni, ma con la sua inazione; e, in ogni caso, essa è responsabile verso di loro del danno.

È vero che, nell’ultimo caso, la coazione deve essere esercitata con assai maggiore riguardo che nel primo. Tenere qualcuno responsabile del male ch’esso fa agli altri: ecco la regola; tenerlo responsabile del male da cui non li assicura: ecco, comparativamente parlando, l’eccezione. Tuttavia, vi sono molti casi abbastanza chiari ed abbastanza gravi per giustificare questa eccezione. In tutto ciò che riguarda le relazioni esteriori dell’individuo, esso è ispo iure responsabile verso quelli i cui interessi sono in giuco, e, se occorre, verso la società come loro proteggitrice. Vi sono spesso delle buone ragioni per non imporre agli uomini questa responsabilità; ma tali ragioni debbono derivare dalle particolari convenienze del caso, sia perché è un caso in cui, tutto considerato, l’individuo agirà probabilmente meglio abbandonato al suo proprio impulso che sorvegliato in qualsiasi modo dalla società; sia perché un tentativo di sorveglianza produrrebbe mali più grandi di quelli che si vogliono evitare. Quando tali ragioni fanno ostacolo alla responsabilità forzata, la coscienza dello stesso agente deve prendere il posto del giudice assente, per proteggere quegli interessi altrui che mancano di una protezione esteriore, e l’uomo deve giudicarsi tanto più severamente in quanto che il caso non lo sottomette al giudizio dei suoi simili.

Ma v’è una sfera d’azione, nella quale la società, come distinta dall’individuo, non ha che un interesse indiretto, se pure essa ne ha uno. Intendiamo quella parte della condotta e della vita di una persona che tocca soltanto la persona stessa o che, se tocca ugualmente gli altri, lo fa col loro consenso e colla loro partecipazione libera, spontanea e perfettamente illuminata. Quando io parlo di ciò che riguarda la persona soltanto, intendo ciò che la riguarda in modo diretto e immediato; poiché tutto ciò che tocca un individuo può toccar gli altri per mezzo di lui, e l’obbiezione che si basa su questa possibilità sarà l’argomento di nostre ulteriori riflessioni. Questa è adunque la regione che spetta alla umana libertà. Essa comprende, prima di tutto, la giurisdizione di quello che i canonisti chiamano il forum internum, esigendo la libertà di coscienza nel senso più esteso della parola, la libertà di tendenza e di pensiero, la libertà assoluta d’opinioni e di sentimenti, su qualunque soggetto pratico, speculativo, scientifico, morale o teologico. La liberta di esprimere e di pubblicar delle opinioni può sembrar sottoposta a un diverso principio, perchè essa appartiene a quella parte della condotta d’un individuo che tocca gli altri; ma, poiché essa è d’un’importanza pressoché uguale a quella della stessa libertà di pensiero, e riposa, in gran parte, sulle stesse ragioni, queste due libertà sono, in pratica, inseparabili. In secondo luogo, il principio della libertà umana richiede la libertà dei gusti e dei capricci, la libertà di adattare il nostro tenor di vita all’indole nostra, di fare quel che ci garba, avvenga che vuole avvenire, senza esserne impediti dai nostri simili, fino a che noi non arrechiamo loro danno, ed anche quando essi trovino sciocca o biasimevole la nostra condotta. In terzo luogo da questa libertà di ciascun individuo nasce, negli stessi limiti, la libertà di associazione fra gli individui; la libertà di unirsi per un qualunque fine inoffensivo per gli altri — supposto sempre che gli associati siano d’età maggiore e non siano nè costretti, nè ingannati.

Nessuna società è libera, qualunque possa essere la forma di governo con cui si regge, se queste libertà non sono almeno rispettate; e nessuna è libera completamente, se queste libertà non esistono in modo assoluto e senza riserve.

La sola libertà degna veramente di questo nome e quella di cercare il nostro bene a modo nostro, fino a che noi non tentiamo di privar gli altri del loro o di porre ostacoli ai loro sforzi per ottenerlo. Ognuno è il custode naturale della sua propria salute, sia fisica, sia intellettuale e spirituale; e la specie umana guadagna di più a lasciar che ciascuno viva come meglio gli sembra, che a costringerlo a vivere come sembra meglio a tutti gli altri.

Sebbene questa dottrina non sia affatto nuova, e possa a qualcuno sembrare una verità evidente, non ve ne certo altra che sia più diametralmente opposta all’opinione e al costume oggi esistenti. La società si è data tanta cura per tentare (secondo i suoi criteri) di costringere gli uomini a seguir le sue nozioni di perfezione personale, quanto per veder di obbligarli a seguire le sue idee in fatto di perfezione sociale. Le antiche repubbliche si credevano in diritto (e i filosofi dell’antichità appoggiavano la loro pretesa) di regolare, di pubblica autorità, tutta la condotta privata, sotto pretesto che la disciplina fisica e morale di ciascun cittadino è cosa la quale interessa profondamente lo Stato.

Questo modo di pensare poteva essere ammissibile in piccole repubbliche circondate da potenti nemici ed in pericolo continuo di essere rovesciate o da un attacco esteriore o da un sommovimento interno. A simili stati poteva cos facilmente cagionar danno che l’energia e l’impero degli uomini su loro stessi si allentassero anche per un solo istante che non era ad essi lecito di attendere gli effetti salutari e permanenti della libertà. Nel mondo moderno, la maggior importanza delle comunità politiche, e sopratutto la separazione dell’autorità religiosa dalla civile (ponendo la direzione della coscienza dell’uomo in mani diverse da quelle che sorvegliavano i suoi affari temporali) impedirono un intervento cosi grande della legge nei particolari della vita privata; ma, a dire il vero, l’individuo non vi fece un gran guadagno: l’autorità spirituale si pose a regolare tutti i particolari abbandonati dalla temporale: l’uomo fu allora stretto anche più da vicino in quanto lo riguarda, poiché la religione (l’elemento d’autorità morale fino ad oggi più

potente) fu quasi sempre governata o dall’ambizione di una gerarchia che aspira a guidare tutta la condotta umana o dallo spirito di puritanismo. Qualcuno di quei riformatori moderni, che con maggior veemenza hanno dato l’assalto alle religioni del passato, non sono per nulla affatto rimasti addietro né alle chiese né alle sette, nella loro affermazione del diritto di autorità spirituale; citeremo in ispecie Augusto Comte, il cui sistema sociale, quale ei lo espone nel suo Sistema di politica positiva, mira a stabilire (piuttosto, e vero, con mezzi morali che con mezzi legali) un dispotismo della società sull’individuo, che supera tutto quanto hanno potuto imaginare i più rigidi tra i filosofi antichi in fatto di disciplina.

A parte le dottrine speciali dei pensatori individuali, vi è anche nel mondo una forte e crescente inclinazione ad estendere esageratamente il potere della società sull’individuo, e colla forza dell’opinione, e anche con quella della legislazione. Ora, poiché tutti i mutamenti che s’operano nel mondo hanno l’effetto di accrescere la forza della società e diminuire il potere dell’individuo, questa usurpazione non è uno di quei mali che tendano a sparire spontaneamente: anzi, esso tende, al contrario, a divenire sempre più formidabile. La tendenza degli uomini, sia come sovrani, sia come concittadini, ad imporre agli altri le loro opinioni e i loro capricci come regola di condotta è cosi efficacemente sostenuta da qualcuno dei migliori e da qualcuno dei peggiori sentimenti dell’uomo, che essa non si raffrena quasi mai, se non quando proprio il potere le manca. E poiché il potere non è sulla strada di diminuire, ma di crescere, conviene aspettarsi — salvo che contro il male si elevi una forte barriera di convinzione morale — conviene aspettarsi, diciamo, nelle presenti condizioni del mondo, di veder crescere anche tale tendenza.

È più opportuno per l’argomento che, invece di affrontare immediatamente la tesi generale, noi ci tratteniamo dapprima in una sola delle sue parti, a proposito della quale il principio qui stabilito è riconosciuto, se non del tutto, almeno fino ad un certo segno, dalle opinioni correnti. Questo ramo è la libertà di pensiero, da cui è impossibile separare la libertà di parola e di stampa. Sebbene queste libertà formino una parte importante della moralità politica di tutti i paesi che mantengono la tolleranza religiosa e le libere instituzioni, tuttavia i principi, sia filosofici, sia pratici, su cui esse riposano, non sono forse cosi famigliari allo spirito pubblico né così pienamente valutati dagli stessi capi dell’opinione, come si potrebbe credere. Questi principi, sanamente intesi, sono applicabili a ben più d’una suddivisione dell’argomento; e un esame alquanto approfondito di questa parte della questione sarà, io penso, la migliore introduzione al rimanente. Per questo, coloro che non troveranno nulla di nuovo in ciò che verrò dicendo, vorranno, io spero, avermi per iscusato se oso discutere una volta di più un argomento che, da tre secoli in qua, e stato tante volte dibattuto.

** da John Stuart Mill, On Liberty (1859) – Cap. I / Introduzione | (traduzione draft / work in progress)