Georges Palante: Riflessioni sul metodo e la critica filosofica

Libri di Matisse
Nella foto: part. dipinto di Henri Matisse – Nature morte aux livres, 1890

GEORGES PALANTE – Io non credo più utile di fare davanti ai lettori di questa Rivista un esame di coscienza intellettuale né di infliggere loro una dichiarazione di principi dei quali forse ben poco si preoccuperanno. Dirò solamente qualche parola del modo in cui io concepisco la funzione critica.

A me sembra che la vecchia critica dogmatica abbia fatto il suo tempo in filosofia come altrove. Non c’è più un tempio del Vero di quanto ci sia un tempio del Gusto. Tuttavia c’è una varietà di critica dogmatica, la quale conserva in alcuni ambienti intellettuali un certo credito. È la critica che io chiamerei metodologica. Qui non si critica più le ricerche, i punti di vista o le opere in nome di un principio o di una dottrina. Le si critica in nome di un metodo. C’è il metodo buono, il vero, l’unico e… gli altri.

Nella vecchia scuola francese ravaissoniana e lachelierista si impiegava questo procedimento di critica semplice ed elegante. Si rimproverava all’avversario di non avere conosciuto il vero metodo. Questo famoso metodo era il metodo dell’introspezione, o piuttosto una varietà un po’ sibillina e bizantina dell’introspezione, decorata dai capi della scuola con il nome pomposo di intuizione metafisica. E quando un filosofo non era spiritualista secondo la formula voluta, questo era dovuto al fatto che aveva ignorato il vero metodo. In fondo non era una sua mancanza ed era perciò più da compiangere che da biasimare. Non aveva avuto molta fortuna, ecco tutto. Non era caduto sul metodo buono.

Oggi la critica metodologica non è per nulla passata di moda. In sociologia, segnatamente, essa fa autorità. C’è una tale scuola sociologica che si dichiara in possesso del metodo, del vero, dell’unico, fuori del quale non c’è salvezza.


In filosofia il dogmatismo metodologico è più indeciso. Esso varia con i clan. All’ora presente, negli ambienti universitari, è il metodo bergsoniano che tende a prevalere. Niente di sorprendente in questo essendo il bergsonismo, nel fondo, una coda del ravaissonismo e del lachelierismo di un tempo. Del resto ognuno applica questo metodo seguendo il voto del suo temperamento. Esso è flessibile e maneggevole al punto che il rivoluzionario Georges Sorel ne trae delle applicazioni che dovranno apparire orrifiche al dolce assemblatore di sottigliezze che professa al Collège de France [>ovvero, Bergson<].

Da parte mia, io non credo molto di più al vero metodo che ai veri principi. Non è certamente che io metta tutte le pratiche (démarches) del pensiero filosofico sullo stesso piano né che io attribuisca ad esse un eguale valore. Io non contesto che ci siano dei pensieri più o meno esatti e più o meno sicuri. Io non contesto l’utilità che c’è nel condurre la propria mente (son esprit) secondo un modo definito e sotto certe condizioni di prudenza intellettuale. L’ipotesi contraria renderebbe impossibile ogni critica. Ma io respingo l’idea di un metodo-tipo, di un metodo unitario e autoritario applicabile a tutti i problemi e valevole per tutte le menti. I problemi filosofici possono essere attaccati da molti lati, ed è buono ogni metodo che conduce il pensatore a cogliere e a fissare qualche aspetto del mondo e della vita.

Un solo precetto, una sola esigenza intellettuale mi sembra indispensabile; precetto banale, sicuramente, ma troppo spesso dimenticato. È la perfetta chiarezza dell’idea, la possibilità di tradurla sempre in fatti concreti. Un solo procedimento di critica, di conseguenza, è valevole: è l’analisi, la dissociazione destinata a procurare questa chiarezza. La verità non è forse che un mito. Ma ci sono quantomeno dei modi di associare e di dissociare le idee che danno allo spirito più o meno soddisfazione. Soddisfazione difficile da definire, lo riconosco, e che io credo sia di ordine estetico. È la soddisfazione che si prova davanti a delle idee ben delucidate e dove la parte di verbalismo è ridotto al minimo. Se queste nozioni rispondono o no a una realtà metafisica o morale, è ciò che noi non possiamo sapere; e in fondo questo è senza importanza per chi si pone dal punto di vista del piacere che prova nel contemplare le idee, nel vederle in piena luce, nel notare i loro aspetti, le loro combinazioni e le loro metamorfosi, e nel seguire attraverso il tempo le vicissitudini della loro vita leggera.


Si dirà forse che questo modo di intendere la critica è ben negativo e che essa si risolve in una sorta di impressionismo e di dilettantismo filosofico. Che importa? Benché questi appellativi siano presi da qualcuno per la parte cattiva, non li ripudieremo se si giudica di applicarli a noi. Essi ci sembrano esprimere un’attitudine molto legittima allo stadio attuale dell’evoluzione filosofica.

In effetti, questo modo di comprendere la critica presuppone una diminuzione e una regressione notevole delle pretese della filosofia. Io mi rappresento quest’ultima come una megalomania intellettuale, come un imperialismo ideologico, come una presa di possesso della mente sul mondo e sull’umanità. Il bisogno di filosofare si ricollega a degli istinti di comando, di dominazione, di autorità e di gerarchia. Questa megalomania ideologica si ritrova al suo più alto grado nell’antica metafisica dogmatica, tutta penetrata di spirito gerarchico, d’orgoglio sacerdotale e dottorale.

Oggi essa si ritrova, molto attenuata, è vero, nel nostro moderno razionalismo. Jean Bourdeau rileva da qualche parte che il razionalismo è una filosofia di teneri che, feriti dalla vita, urtati dalla brutalità del reale, si rifugiano in un mondo ideale, figlio del loro pensiero, come esso armonioso e sereno. Io tenderei piuttosto a credere che il razionalismo sia una filosofia di ambiziosi e di autoritari che, non avendo l’occasione di governare gli uomini, vogliono perlomeno irregimentare le idee, schierarle in battaglia, farle manovrare come dei soldati, ammassarle squadrate e lanciarle contro un invisibile avversario. L’ideologia è in loro una forma e come una derivazione della volontà di potenza.

Del resto, chi lo sa? I razionalisti credono all’azione delle idee sugli uomini e sugli avvenimenti. Forse l’egemonia intellettuale li condurrà un giorno all’egemonia reale, politica e sociale. È questa, perlomeno, la speranza di qualcuno.


L’imperialismo ideologico si lascia vedere assai grossolanamente e sotto una forma plebea e anche volgare (populacère) nel nostro banale razionalismo laico, scientista, democratico, umanitario, ottimista, solidarista ed educazionista (éducationniste). È questo una sorta di homaisismo arrivato o in procinto di arrivare; un homaisismo dotto, salito di grado e salito di un gradino; un homaisismo perfezionato e intellettualizzato, messo al giorno e tenuto al corrente dei progressi o dei sedicenti progressi della Ragione.

A lato di questo imperialismo ideologico laico, ce n’è un altro piuttosto clericale, di un clericalismo, è vero, infinitamente discreto e impalpabile, come conviene all’ultima metamorfosi e all’ultimo raffinamento di un pensiero così antico, così profondo e così estenuato come il pensiero cristiano. Il neospiritualismo bergsoniano rappresenta questo clericalismo sottile, delicato e sfumato che conserva la sensibilità delle anime tenere allo stesso tempo che soddisfa i segreti istinti di dominazione della mentalità da prete (esprit prêtre). Questo modo di filosofare è molto distinto, molto fine-razza e fine-religione. Esso procede secondo una dialettica volpina che sembra svilupparsi con una divisione incurante delle conseguenze, ma che in realtà sa molto bene dove va.

Infine c’è l’altra filosofia alla moda, il pragmatismo, con la quale si sospetta un arretramento della megalomania ideologia. Perché il pragmatismo tradisce un fiaccamento dei razionalismi imperiosi; esso rappresenta una rinuncia del pensiero ai “grandi problemi” e alle vaste ambizioni speculative. Tuttavia, non c’è da fidarsene. Maschera, anch’esso, una segreta volontà di potenza. Chi sa quali retro pensieri di dominazione religiosa o morale dissimula sotto la sua apparente modestia e la sua prudente riserva.


Le filosofie che vengo a segnalare restano delle scuole o confraternite che si sforzano di lottare, con una disciplina più o meno allentata, contro la corrente di dissoluzione che sembra trascinare la filosofia contemporanea e minaccia di portar via senza ritorno l’antico spirito dogmatico. A lato di esse, un certo numero di pensatori isolati favoriscono e precipitano questa dissoluzione. Questi pensatori, amici della diversità e della sfumatura, non guardano alla filosofia come a una parola d’ordine o un segno di allineamento; non fanno di essa una predica morale, né una panacea sociale. Essi sono partigiani della filosofia per la filosofia, come altri sono partigiani dell’arte per l’arte. Questi pensatori indipendenti si ricollegano alle tendenze più svariate: sia a un paganesimo altero, insocievole e sdegnoso delle applicazioni politiche e sociali, molto differente in questo, come in molti altri punti, dal volgare anticristianesimo o, piuttosto, anticattolicesimo homasiano; sia a un neoromanticismo irrazionalista e immoralista; sia a un impressionismo psicologico curioso di annotazioni esatte e di fini analisi; sia semplicemente a una attitudine critica e ingegnosamente eclettica.

Questa diversità intellettuale, questa dissoluzione del pensiero dogmatico non ha nulla, del resto, che noi giudichiamo spaventoso. Niente, al contrario, è più interessante di questo fenomeno per l’amatore del pensiero che si compiace di seguire dal suo osservatorio le lente evoluzioni meteorologiche o i bruschi sbalzi di vento che portano delle nuove correnti o delle nuove nubi nel cielo cambiante delle idee.

Io mi accorgo che queste riflessioni che avrei voluto più brevi hanno pressoché riempito lo spazio che mi è impartito in queste pagine. Avrei tuttavia ben voluto iniziare il mio compito critico avvicinando qualcuno dei volumi che ho ricevuto dal Mercure. È troppo tardi per questa volta. Rinvio dunque alla mia prossima cronaca.


Contro la Metodomania

Le questioni di metodo continuano ad essere all’ordine del giorno. Non bisogna rammaricarsene. Il metodo è un’eccellente cosa e non bisogna denigrarlo. Non bisogna però nemmeno esagerarne l’importanza. Bisogna guardarsi, qui come altrove, da un culto superstizioso. Bisogna evitare il difetto che io chiamerei volentieri metodomania.

È che la preoccupazione del metodo si può ispirare a considerazioni di valore ineguale. Nei grandi spiriti, un Decartes, un Comte, la preoccupazione del metodo procede da alte esigenze intellettuali, da un imperioso bisogno di certezze e allo stesso tempo da una nobile fiducia nelle forze dello spirito umano. Altri obbediscono a dei motivi rispettabili di prudenza intellettuale. Invece di cercare di costruire un sistema, di imporre un dogma, essi propongono più modestamente un metodo. — In altri, infine, soprattutto tra i filosofi e gli scienziati ufficiali, tra coloro che insegnano la scienza, l’amore per il metodo ha delle radici più umili.

La metodomania è innanzitutto un difetto professorale. Essa favorisce quell’imperialismo speciale che si potrebbe chiamare imperialismo accademico. Bisogna qui riferirsi a quello che Gobineau ha detto dell’amministrazione o della funzionarizzazione delle attività filosofiche e scientifiche in Francia. Chi dice funzionarizzazione dice irreggimentazione e gerarchia. Qui l’irreggimentazione si chiama discepolato. C’è un maestro e ci sono dei discepoli. Si vede il rapporto fra discepolato e metodomania. La metodomania favorisce il discepolato e il discepolato rinforza la metodomania. Perché non si è buoni discepoli che a condizione di seguire scrupolosamente il metodo del maestro. Ed è anche la condizione sine qua non per diventare a propria volta maestro. Ci sono così, nella scienza ufficiale, differenti equipe, differenti discepolati. C’è il discepolato degli storici, il discepolato dei letterati, quello dei germanizzanti, quello dei sociologi. E per ognuno di essi c’è il sacrosanto metodo fuori dal quale non c’è affatto salvezza. La metodomania è il trionfo del funzionamento burocratico dello spirito; è l’amore del rito per il rito; è un formalismo scientifico dove si soddisfa un istinto d’autorità e di dogmatismo. Perché colui che è in possesso del vero metodo è in diritto di redarguire i dissidenti ed eliminare i lavori concepiti secondo un altro piano e condotti per altre vie. La metodomania è tanto più rigorosa quando si ha a che fare con delle scienze più incerte, con delle pseudoscienze tali come la sociologia. Coloro che coltivano le scienze fanno finta di circondarsi di minuziose precauzioni metodologiche, in modo che il lusso dei precetti metodologici illuda il profano e nasconda la povertà dei risultati. Si ottiene così un mandarinato solido e quasi intangibile che Gobineau descrive così: «Conviene camminare dietro coloro che hanno interesse a darsi per maestri; si diventa modesti, poco rumorosi, poco pretenziosi; ci si vendica con una folle vanità; — debolezza generale dei mandarini; attraverso questo sistema, con o senza merito, ma soprattutto senza merito, ciascuno, con il tempo, ha delle chance di alzarsi agli onori ufficiali della branca professionale alla quale si riduce la sua vocazione. » (V. de Gobineau : la Troisième République française et ce qu’elle vaut, p. 13.)


[…] Non bisogna sopravvalutare il metodo. Nessun metodo può evitare alla scienza i tentativi necessari e fecondi né supplire alle intuizioni del genio. Anche un gran numero di scienziati, da Claude Bernard fino a Le Dantec, hanno reagito contro le pretese del metodo. Il metodo non crea la scienza; esso ne viene in seguito; non è che una riflessione sulla scienza fatta. I ricercatori trovano più spesso altre cose rispetto a ciò che speravano di trovare. Così si verifica l’aforisma (le mot) un po’ cattivo di Bernard Show: “Quando si sa fare una cosa, la si fa; quando non la si sa fare, la si insegna”.


***Traduzione 2018/2019: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati.

I.Il testo propone la traduzione di due “chroniques” di Georges Palante scritte per il «Mercure de France» (MdF). Con la prima (MdF, 16 gennaio 1911, pp. 391-395) inaugurava la sua lunga collaborazione durata fino al 1923; la seconda, qui titolata “Contro la metodomania” e tradotta parzialmente, uscì nel fascicolo MdF dell’1 ottobre 1912; la critica si inasprisce ulteriormente anche per la “bocciatura” delle sue tesi di dottorato alla Sorbona (vedi qui in S-Composizioni Georges Palante: Il circolo vizioso della morale normativa, con le note a margine). In anni più recenti, per trovare altrettanta – e anche più – insofferenza verso la metodomania, è quasi d’obbligo ricordare il noto “manifesto” militante Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975) lanciato da Paul Feyerabend (1924-1994). Homaisismo, etichetta spregiativa ricorrente in Palante, fa riferimento al personaggio di Monsieur Homais, il farmacista del celebre romanzo Madame Bovary di Flaubert.

II.La cronaca del MdF 16 gennaio 1911 iniziava con piccolo elogio (più sopra omesso) rivolto al suo predecessore, Jules de Gaultier (1858-1942):

«Prendendo in mano la rubrica di filosofia di questa Rivista, non credo necessario lodare lungamente il pensatore al quale ho l’onore di succedere. Ho detto altrove dell’opera di Jules de Gaultier, la molto personale sensazione di vita che essa esprime, la seduzione da essa esercitata sugli spiriti indipendenti della generazione intellettuale montante. I lettori del Mercure de France hanno apprezzato per quattro anni il critico avvertito, aperto e penetrante che raddoppia in Jules de Gaultier il filosofo originale. Il teorico del Bovarismo ha qui provato che il vigore della facoltà creatrice non esclude la più intelligente simpatia per il pensiero d’altri. Io sono lieto di immaginare (heureux de songer) che nell’assumere il compito che svolgerò qui risparmio al filosofo che ancora non ha detto la sua ultima parola delle ore più libere per la creazione personale e di apportare così agli amici della speculazione disinteressata la speranza di una nuova messe di nobili e sereni pensieri.»

Oltre a qualche reciproca “affettuosa” recensione che si era trasformata in amicizia tra i due a inizio Novecento, Palante si riferiva in particolare a un breve saggio apparso sempre nel MdF (« Le Bovarysme. Une moderne philosophie de l’illusion », avril 1903, p. 69-86), scritto che fu poi incluso nell’unica snella monografia pubblicata da Palante, giusto rivolta a “La Philosophie du Bovarisme. Jules de Gaultier” (Paris, Mercure de France, 1912; il volumetto faceva parte di una collana divulgativa dedicata ai pensatori contemporanei).

III.Palante aveva apprezzato in particolare la pubblicazione nel 1900 del libro di Gaultier, De Kant à Nietzsche, che segnava, in buona sostanza, un riorientamento dell’asse filosofico dall’etica all’estetica (i capitoli del libro erano apparsi nei mesi precedenti a puntate sempre nel «Mercure de France»), mentre restava più critico sulle sue inclinazioni metafisiche. Ad ogni modo, riassumendo senza scendere troppo nei dettagli bibliografici, l’iniziale simpatia e stima reciproca degenerò negli anni, fino ad arrivare nel 1922/1923 ad un lungo scontro pubblico andato avante per mesi a colpi di scritti e pamphlet ingiuriosi al punto da occasionare le dimissioni di Palante dal «Mercure de France» e una sfida a duello. Il valore teoretico di quella disputa è nell’insieme piuttosto modesto; tra le critiche iniziali mosse da Palante a Gaultier c’era in fondo soprattutto quella di aver perso il suo carattere di “indipendente” e di aver iniziato a darsi al “proselitismo” scolastico, al modo degli accademici.

Comunque sia di ciò, alla fine – secondo la versione ufficiale circolante all’epoca – il “fatto d’onore” si risolse con un compromesso verbale fra le parti, essendo il duello impossibile per via delle condizioni di salute di Palante. Tuttavia in questo “duello mancato” Palante vide una sorta di raggiro nei suoi confronti, operato secondo i modi che raccontò in un ironico “memoriale” ritrovato qualche anno fa tra i pochi autografi che si sono conservati nella sua casa a La Grandville/Hillion (“Un affaire d’honneur – Une félonie” 1923/1924; avrebbe dovuto essere pubblicato dalla rivista “Les Humbles”, ma così non fu; alcuni passaggi erano impugnabili per querela e – in mancanza di documenti certi – è verosimile ipotizzare che la direzione della rivista abbia preferito evitare diatribe legali). È uno degli ultimi scritti noti di Palante, estratto da una ipotetico “Journal”, diario autobiografico che Georges Palante stava scrivedo (col titolo di “Une Carriére”; ipotetico perché in realtà non ne è rimasta traccia se non in una sua annotazione: “Je remercie d’autant plus les Humbles de leur ospitalité. Je détache ici quelques feuillets de mon Journal intitulé Une Carriére.”) [Per un primo sintetico profilo vedi Georges Palante, l’individualismo e la mentalità del ribelle]. effe, 20/11/2019