Georges Palante: Il filisteismo e lo snobismo filosofico

Particolare di un'opera di Franz Borghese (1941-2005), Giocatori di scacchi - Olio su tela, 1998

GEORGES PALANTE — Il filisteismo filosofico occupa un vasto dipartimento del filisteismo della cultura. I confini ne sono mal determinati. La stessa prodigalità con la quale i filosofi usano questo vocabolo non smette di essere sconcertante. In filosofia l’epiteto di filisteo è un bonum vacans. I clan avversari si lanciano reciprocamente questa ingiuria. Joseph de Maistre chiama Bacone capo fila dei filistei. Schopenhauer è inesauribile sul filisteismo di Hegel e dei professori di filosofia. James tratta da filistei gli ammiratori del razionalismo, mentre i suoi avversari gli rinviano la palla qualificando il suo pragmatismo di piatto opportunismo e di filosofia per filistei. Nietzsche ha trattato da filistei gli anti-wagneriani prima, poi i wagneriani.

Una ventina d’anni fa in un pamphlet intitolato Il crepuscolo dei filosofi un umorista italiano, Giovanni Papini, si è fatto, per i suoi lettori divertiti, il cicerone di una sorta di galleria internazionale del filisteismo filosofico. Il nostro paese aveva un posto onorevole in questa esibizione. Non ci si stupirà se si pensa alle condizioni fatte in Francia alla filosofia negli ultimi centocinquant’anni. Mentre ad Atene i filosofi si reclutavano tra l’aristocrazia o la marmaglia, vale a dire nelle classi pittoresche((J. Bourdeau, Pragmatisme et modernisme, p.31.)), in Francia, intendo la Francia del dopo Rivoluzione, non sono usciti quasi esclusivamente se non dai ranghi della borghesia e più particolarmente della casta professorale. Conformemente a una legge sociologica passata quasi allo stato di truismo, l’avvento della classe borghese negli affari ha comportato l’avvento dello spirito borghese nella cultura. Al pensiero aristocratico che, sotto l’antico regime, aveva dato il tono alle lettere e alla filosofia francese – pensiero fatto di osservazione accorta, di fredda analisi e di lucidità un po’ beffarda; pensiero di uomini di corte o di guerra, mischiati al mondo degli affari: un Montaigne, un Descartes, un La Rochefoucauld, un Montesquieu —, al pensiero ecclesiastico che una lunga pratica della teologia morale e delle discipline logiche aveva condotto a un alto grado di acume psicologico e di sottigliezza dialettica, va a succedere un pensiero nuovo, adattato alle esigenze di una società più complessa e più mobile rispetto a quella antica; pensiero ricco e potente per certi aspetti, ma tumultuoso e torbido, contemporaneamente inesperto e presuntuoso, meno preoccupato della precisione e del rigore che dell’influenza politica e mondana, contaminato d’avarizia da tutti i flutti di interessi, di passioni e di pregiudizi che trascinava con sé la classe novellamente arrivata al potere. E conformemente alla legge sociologica precitata, questo pensiero di classe si va a sua volta a suddividere in stadi: pensiero dell’alta, della media e della piccola borghesia. A quest’ultimo piano appartiene il pensiero professorale che monopolizza pressoché tutta la filosofia nel corso del XIX secolo, pensiero senza ali né bellezza, pensiero subalterno e libresco, deprivato dell’esperienza del mondo e dei grandi affari, che odora d’olio di lampada, d’atmosfera rafferma da studiolo, delle preoccupazioni di carriera, delle meschinità di una stretta economia. E alla scala inferiore appare un pensiero popolare, operaio, proletario, semplice prolungamento del pensiero borghese, nutrito in fondo delle stesse aspirazioni e degli stessi pregiudizi che esagera ulteriormente, come è naturale. Di modo che la storia del pensiero francese del XIX secolo rappresenta una marcia regolare nel senso di uno svilimento sempre più marcato dei valori filosofici. Un nome apre questo periodo: quello di Rousseau, genio quanto mai piccolo borghese. A lui più che a chiunque altro spetta il titolo di capofila del filisteismo europeo. Sì, Rousseau, questo visionario (rêveur), questo nomade, questo selvaggio, questo ribelle, Rousseau al quale tanti filistei scagliano la pietra. Filisteo Rousseau lo è per la sua passione moralista, per la sua mania giudicante e ragionante; per la sua sete di considerazione, per la sua preoccupazione – in fondo molto volgare – di giustificazione e di apologia della sua stessa condotta. Rousseau non ha mai saputo elevarsi a quel sentimento nel quale si riconoscono gli happy few: la perfetta indifferenza verso gli apprezzamenti morali del pubblico. Data a Rousseau l’invasione della morale nella filosofia. D’altra parte data all’Encyclopédie l’introduzione di due idoli popolari: la Scienza e il Progresso. Infine, data al giacobinismo francese uno straordinario rafforzamento dell’idea di Stato. Primato della morale, culto della Scienza, culto del Progresso, culto dello Stato, questa tetralogia va a comporre la religione filistea del XIX secolo. La filosofia francese si mette al servizio della nuova teologia. Seguendo i movimenti di opinione, a volte conservatrice e a volte “avanzata”, essa oscilla tra due poli: uno spiritualismo convenuto di origine universitaria e un homaisismo adattato ai bisogni intellettuali di una piccola borghesia vanitosa e superficiale. «Il positivismo umanitario di Comte, deformato da Littré, è divenuto il vangelo della piccola borghesia radicalizzante, dei Joseph Prudhomme che ci governano, degli Homais, dei Bouvard e Pécuchet»((J. Bourdeau, Pragmatisme et modernisme, p. 36.)). Si ritroverà senza troppa fatica qualcosa di questo spirito nel nostro sociologismo sorbonico, ammirazione degli elementari e sostegno teorico dello Stato radical-socialista. Un Renouvier fa figura da gran borghese della filosofia. Che cosa è la sua Scienza della Morale se non il codice etico e giuridico della borghesia francese verso gli anni 1840-1850? Renouvier ha scritto un libro su Victor Hugo il Filosofo. Ora, di Victor Hugo il Filosofo, il meglio è non dire niente se si vuole evitare di rieditare la definizione tanto esatta quanto irriverente di “Joseph Prudhomme a Patmos”. Un Michelet, un Quinet, si fanno profeti della democrazia e lusingano il gusto della folla per le apocalissi. Un Jaurès assumerà più tardi lo stesso ruolo; Jaurès, i cui ammiratori ci perdoneranno di porre immediatamente alla destra di Victor Hugo pensatore. Al pensiero da piccola borghesia si ricollegheranno due impiegati di commercio, campioni di due filisteismi differenti: Proudhon, apologeta del matrimonio, panegirista della sposa borghese; Fourier, damerino di ritorno, preconizza al contrario il fascino dell’amore libero, ma i suoi gruppi quadrati, le sue sestine, i suoi ottetti e altre combinazioni amorose richiamano un po’ troppo i Gaudissart.

Fourier e Proudhon annunciano l’avvento di un pensiero plebeo, proletario, spinto ad ottenere a sua volta diritto di cittadinanza nella filosofia. Ma, a dire il vero, questo nuovo pensiero di classe quasi non ha dato prova di originalità. Tra esso e il pensiero borghese, nessuna discontinuità. Esso prolunga questo pensiero molto più che non ne sia la reazione antagonista. Stesso fondo ideologico; stesso armamentario verbale, ovvero i luoghi comuni egualitari e umanitari, socialisti e femministi, eredità del 1848, accomodati al gusto del giorno; luoghi comuni dei quali non si spaventa quasi più il borghese che all’occasione li inserisce anche nei suoi imbonimenti elettorali. Invano Georges Sorel – vecchio borghese francese, funzionario in pensione, ma che, per caso, non ha l’anima filistea – ha fatto un tentativo sul terreno della teoria per spezzare tutti i legami tra il popolo e l’ideologia del XVIII secolo; invano ha indirizzato alla classe operaia le più veementi arringhe per condurlo a disinborghesirsi intellettualmente e a forgiarsi una filosofia autonoma, cosa che non è, del resto, esattamente facile. Il suo manifesto non ha avuto che scarsa eco nella classe operaia, anche se ha fornito a qualcuno dei suoi discepoli un’occasione per una bella e vigorosa carica a fondo contro gli intellettuali borghesi((Ed. Berth, Les Méfaits des Intellectuels.)). Mettendo in circolazione i suoi ingegnosi paradossi l’autore delle Riflessioni sulla violenza ci sembra avere misconosciuto quella legge elementare della psicologia economica – sintesi delle leggi dell’imitazione, dell’emulazione e dell’invidia sociale – la quale vuole che la classe inferiore aspiri sempre a raggiungere il livello di vita della classe immediatamente superiore. E non solamente il livello della sua vita materiale, ma quello della sua cultura, della sua estetica, della sua filosofia, nella misura in cui essa ne possieda una. Per questo nessun appello alla violenza redentrice, nessun mito sindacalista prevarrà contro la legge di imborghesimento progressivo e di filisteizzazione dei valori intellettuali che sembrano legati alla democrazia.

Un breve sguardo all’indietro sui metodi della filosofia francese nel corso del XIX secolo ci permetterà di riconoscere l’unità del mondo borghese di pensare, attraverso le scuole e i tempi. Una delle prime e delle più autentiche manifestazioni di questo modo di pensare sembrerebbe essere l’appello al senso comune in filosofia. Preconizzato al seguito della scuola scozzese da Jouffroy e dagli eclettici, criticato da Taine e più recentemente da Albert Shinz, l’autorità del senso comune si trova oggi riabilitata dal pragmatismo. D’altronde, che cos’altro si adatta meglio alle esigenze di un pensiero di classe media se non queste verità medie che sono le verità del senso comune? E che cosa c’è di più democratico di una concezione della filosofia che autorizza chiunque a improvvisarsi filosofo “armandosi di senso comune come una volta Don Chisciotte del suo elmo di cartone?”((A. Schinz, Anti-pragmatisme, p.249.)).

La fede nel senso comune, leggermente trasformata, è divenuta ai giorni nostri la fiducia benevolmente concessa all’intelligenza naturale dei semplici, in opposizione alla diffidenza che si testimonia all’intelligenza ragionante, nello stesso tempo in cui si registra con una soddisfazione non dissimulata ogni vantaggio riportato dalla prima sulla seconda((Cf. dans L’Energie spirituelle de M. Bergson une anecdote toute à l’honneur d’une jeune fille qui découvre d’instinct le sophisme d’un médecin raisonneur, à propos de la question des Fantômes de Vivants. «Eh oui, il y avait un vice ! C’est la petite jeune fille qui avait raison et c’est le grand savant qui avait tort », p. 72)).

Si segnalerà poi il favore non meno persistente della critica detta “moralista” che, sotto forme più o meno speciose, torna a confutare una dottrina per le sue conseguenze morali. Inaugurata dalla scuola eclettica, ridicolizzata da Taine nel suo libro I filosofi classici, questa critica è sopravvissuta agli sdegni dei rari adepti di una filosofia più libera e resta la più accessibile alla media delle intelligenze.

Questa critica ha dato luogo, da una cinquantina d’anni, a una forma larvata che merita una forma speciale. Io voglio parlare di quella critica che si potrebbe chiamare patologica e che consiste nell’applicare agli scrittori dei criteri non più etici ma clinici. Uno scrittore non è più dichiarato morale o immorale, ma normale o anormale. È come alla visita di leva. Il soggetto esaminato è riconosciuto abile o è riformato. Non si incriminano più le tendenze, le idee di un autore, ma la sua usura nervosa. Si scrutano i suoi tratti ereditari, le sue malattie, le sue abitudini di gioventù. Inaugurata da Max Nordau nel suo libro “Degenerazione”, ripresa e proseguita con un punto di vista un po’ differente da Ernest Seillière nel corso di un opera di un’ampiezza considerevole, questa critica conduce, o poco ci manca, a rappresentare la filosofia e la letteratura moderna come un vasto ospedale. In particolare i romantici hanno pagato un pesante tributo a questa censura psicopatologica (psychopathique). Genere peraltro discutibile. Critica da praticanti e medicastri direbbe Schopenhauer. Sostenuta la maggior parte delle volte da una documentazione patologica di seconda mano e non disponendo, per stabilire le sue classificazioni, che di caratteristiche vaghe e sommarie, questa critica quasi non rivela, in fondo, che i partiti presi intellettuali o etici di chi se ne fa un mezzo di polemica. Aggiungiamo agli altri difetti di questa critica la monotonia e la fatalità prevista dei giudizi. Ogni singolarità di sentimento o di pensiero rischiando di passare per una anomalia, i criteri della salute intellettuale saranno forniti da “l’uomo ordinario e ben equilibrato”, dal filisteo, del quale questa critica costituisce l’apoteosi indiretta.

Un’altra forma della critica moralista, la cui invenzione risale a Brunetière, rappresenta una varietà dell’arte di accomodare i resti. È il metodo di utilizzo delle dottrine: utilizzo del positivismo, utilizzo del darwinismo, etc., in vista di un’intrapresa di apologetica religiosa e di difesa sociale. La filosofia diventa un succedaneo della “cucina borghese” o, per prendere una metafora da un altro ordine di idee, un ricettario di pillole pragmatiche per persone benpensanti.

Lo stesso gusto per le misture salutari e per le combinazioni emollienti e lenitive ha suscitato la critica chiamata da Nietzsche “critica conciliatrice” e ribattezzata da Georges Sorel con il nome di critica concordista((Georges Sorel, Matériaux d’une théorie de prolétariat, p. 353.)); metodo di sintesi universale, sincretismo vago e comodo che permette di accordare tutto: la religione e il libero pensiero, la morale e la scienza, lo spirito critico e le convenienze della società. Questo metodo che parte evidentemente da un buono naturale non tende nientemeno che a riconciliare tutta la gente filosofica in un immenso bacio di Lamourette e a promuovere un pacifismo ideologico forse precursore del pacifismo tout court. Questo metodo è particolarmente in onore presso i nostri filosofi ufficiali, habitué dei congressi internazionali e di altre chiacchiere d’apparato. Imbevuti del principio piccolo borghese del giusto mezzo, addestrati a salvare capra e cavoli, a sposare l’acqua e il fuoco con dei gesti benedicenti, i nostri “cari maestri” fanno meraviglie in quelle riunioni in cui non si tratta solamente di essere buon filosofo, ma di dar prova di qualità d’uomo di mondo e di diplomatico.

Perché il filosofo, oggi, deve essere tutto questo e molte altre cose ancora. È una sorta di tuttofare intellettuale, un retore pronto a parlare su ogni specie di soggetto, di preferenza quelli che rientrano nelle preoccupazioni della vita comune e pubblica. La filosofia si è fatta borghese, mondana, politica (politicienne). Essa si fatta anche divulgatrice, giornalistica, persino imbonitrice. Ad essa si domanda di soddisfare una clientela di brava gente che «si immagina di essere trasportata alle più alte regioni dello spirito allorquando hanno letto delle dissertazioni abbondanti sulla prosperità dei popoli, sulle questioni sociali e la diplomazia»((Ed. Berth, Les Méfaits des Intellectuels. Préface de M. G. Sorel, p. XVI.)). Lontano da noi il pensiero di deprezzare l’economia e le scienze che si ricollegano; ma conviene conservare la distinzione dei generi. Ora, questa nuova clientela filosofica non ha che in debole grado la preoccupazione delle frontiere che separano i domini della conoscenza. Non parlate loro dei temi tradizionali della filosofia: l’analisi introspettiva, oppure l’analisi critica delle idee direttrici della scienza o della condotta. Queste sono, per i nostri buoni borghesi e i nostri “uomini del progresso” dei problemi obsoleti, degli articoli fuori moda. La nuova scala dei valori filosofici è quella che “pone al primo rango, nel sistema intellettuale, le nozioni che interessano la maggioranza dei cittadini, nel maggior numero di circostanze, nell’eccitare in loro i desideri più vivi”((G. Sorel, Loc. Cit.)). È, se si può dire, una concezione quantitativa della filosofia, che misura il valore di un’idea dal numero delle persone che interessa e all’intensità dei desideri collettivi ai quali essa dona soddisfazione. Istallazione nella filosofia del sentimento maggioritario e di quel sentimento comico qualificato da Schopenhauer come “orgoglio a buon mercato”, in virtù del quale ognuno dà la maggior stima alle qualità, caratteri e vantaggi che egli possiede in comune con molte altre, come di essere elettore, cittadino, repubblicano; di essere un moderno, un contemporaneo, etc.

Bisogna segnalare, a dire il vero, una forma di filisteismo filosofico che sembra separarsi da questa formula. È lo snobismo, che ha imperversato in filosofia come altrove. Lo snobismo non è, dopotutto, che il filisteismo della gente di mondo. C’è questa differenza tra il filisteo e lo snob, nell’ordine d’idee che ci occupa: il filisteo si soddisfa della sicurezza di pensare in gruppo, mentre il secondo aspira a essere distinto e crede di trovarne il mezzo nel fatto di ostentare delle opinioni estreme, visionarie, paradossali, esoteriche, o che egli stima tali. In fondo egli pensa sempre in gruppo, ma in più piccolo gruppo: in clan o in cappella. Non si può fare un crimine per una filosofia di essere sposata da degli snob. La vanità e la moda sono qui i soli colpevoli. Una ventina d’anni fa il nietzschianesimo ha mobilitato delle legioni di snob dei due sessi. Oggi il favore mondano è andato al bergsonismo. Per quale ragione? Si sarebbe in difficoltà nel dirlo. Forse l’intuizionismo lusinga, negli adepti del nuovo dandismo filosofico, un certo desiderio di sembrare iniziati, di sembrare intrattenere le intelligenze con delle potenze superiori che governano il mondo e ricevere delle particolari comunicazioni dall’Aldilà; o più modestamente di sembrare consultare il loro intimo genio, il loro io profondo. Inoltre è ben portato a denigrare la plebea Ragione. Questo dà un’aria di nobiltà, un tono da gentiluomo che vi distingue subito dalla gente comune. Aristocratismo facile, in fondo parente molto prossimo de “l’orgoglio a buon mercato” del quale parla Schopenhauer.

**Traduzione 2018: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati. Testo francese: Georges Palante (1862-1925), Le philistinisme. In: « Le Monde Nouveau », 15 septembre 1923.
Cfr. Georges Palante, La mentalità del ribelle, Pieffe Edizioni 2018 [a cura di Fabrizio Pinna; ebook Collana MiniMix n. 2; ISBN 978-88-99508-13-5]
È una traduzione parziale del saggio di Palante che, in ordine cronologico, risulta essere stato l’ultimo ad essere da lui pubblicato. Il testo è stato “riscoperto” una decina d’anni fa da Stéphane Beau, estimatore – a volte in polemica con alcune interpretazioni palantiane proposte da Michel Onfray –, e tra i migliori conoscitori dell’opera del filosofo del quale ha curato anche lui, come Onfray, la riedizione di una parte degli scritti. Nel saggio Palante riprende, con un’angolazione un po’ diversa e aggiornata sui dibattiti allora in corso, suoi precedenti studi “ironico-critici” di polemica anti-borghese – per così dire, semplificando in una formula – che risalgono al periodo prebellico, in particolare La mentalità del ribelle (1902), Lo spirito da prete laico (1909) e alcune “divagazioni” in difesa del neo-romanticismo fin de siècle che si trovano nella seconda parte di Pessimismo e Individualismo (1914). effe