Georges Palante: Il conflitto individuo / società e il significato della loro antinomia

Le maschere di Nolde
Nella foto: particolare di un dipinto di Emil Nolde, Maschere (1911)

GEORGES PALANTE – Arrivati al termine della nostra analisi delle antinomie dobbiamo, per fissare le nostre conclusioni, esaminare qualche questione di ordine generale. 1. In quale misura la parola antinomia è conveniente per designare i conflitti o disaccordi tra l’individuo e la società? 2. In che senso conviene intendere l’antinomia? 3. Le antinomie proposte comportano una soluzione? 4. A quale specie di individualismo conduce la constatazione di antinomie insolubili?

Una prima questione è quella di sapere se la parola antinomia è proprio quella che conviene per designare i conflitti che possono sorgere tra l’individuo e la società. Si può qui distinguere due sensi della parola antinomia: un senso stretto o assoluto e un senso largo e relativo.

In senso stretto antinomia significa che una cosa ne esclude un’altra e che se l’una è, l’altra non è. Se si dà alla parola antinomia questo senso assoluto non si può parlare di antinomia tra l’individuo e la società, perché di fatto l’individuo non esiste mai, e probabilmente non è mai esistito, in stato isolato. Individuo e società sono due realtà che esistono correlativamente e che si presuppongono l’un l’altra, opponendosi l’una all’altra. Conviene sottolineare, d’altronde, che nell’ordine concreto, nell’ordine delle realtà viventi e agenti, il senso relativo della parola antinomia è il solo accettabile. Non ci può essere questione di antinomie in senso assoluto che a proposito di tesi e antitesi metafisiche, tali come quelle che Kant ha messo alle prese – vanamente, del resto – nella sua Critica della Ragion pura e che non sono altro se non delle coppie di nozioni contraddittorie erette ad assoluto, ciascuna dal suo lato, per virtù di un artificio dialettico. Presa in senso relativo la parola antinomia significa che due cose sono in un rapporto tale che lo sviluppo dell’una si fa a spese dello sviluppo dell’altra, che la piena affermazione dell’una contrasta la piena affermazione dell’altra, che l’una tende a distruggere, o almeno a debilitare e indebolire, l’altra. È in quest’ultimo senso che noi prendiamo qui la parola antinomia. Antinomia qui vuol dire antagonismo virtuale o attuale, disarmonia fondamentale, conflitto inevitabile fra due cose tuttavia correlative e inseparabili.


Intanto, l’antinomia tra l’individuo e la società prende un significato differente a seconda che la si consideri da un punto di vista soggettivo o da un punto di vista oggettivo.

Intesa in un senso soggettivo essa si pone nel foro interiore degli individui. Ciascun uomo un poco individualizzato è, a questo riguardo, come una «casa divisa». Due anime coabitano in lui, al tempo indissolubilmente legate e irriducibilmente ostili: l’anima sociale e l’anima individuale. Noi sentiamo molto bene questi due anime opposte vivere fianco a fianco in noi stessi, mischiarsi, penetrarsi, ingannarsi l’un con l’altra, tendersi tranelli, giocarsi tiri mancini. La nostra vita morale non è che un susseguirsi di peripezie di quest’interminabile duello. Le due genie che sono in noi sono abili a darsi il cambio, arrivano persino a prestarsi i loro punti di vista e i loro argomenti per meglio ingannarsi l’un l’altra. Più di una volta l’individuo che non cerca nei suoi attacchi contro la società se non una soddisfazione dei suoi desideri antisociali, persuade se stesso di obbedire a una preoccupazione di giustizia sociale, di star perseguendo un ideale di sociabilità superiore. E di contro, il talaltro che pretende o che anche crede di perseguire un fine sociale, un ideale politico e morale superiore, non ricerca in fondo se non una occasione di rovesciare ciò che è, e gioisce soprattutto del piacere della distruzione.

L’antagonismo di queste due anime d’altronde non si fa sentire in tutti gli uomini con una stessa intensità. Coloro nei quali l’antinomia arriva al suo punto culminante di sensibilità dolorosa sono animi complessi e delicati, che a un tempo hanno un bisogno profondo d’ideale, di aspirazioni verso una sociabilità superiore e un vivo sentimento dell’individualità, uno spirito di indipendenza che li predispone a soffrire delle costrizioni, delle tirannie e ipocrisie inseparabili da ogni vita sociale (Vigny, per esempio).

L’antinomia può, in secondo luogo, essere intesa in un senso oggettivo. Essa è allora un conflitto tra l’individuo e il gruppo o i gruppi dei quali fa forzatamente parte.

Da un lato c’è un individuo isolato, differente per ipotesi, dagli altri, cosciente di questa differenza e inteso a difenderla; un individuo dissidente o ribelle che, a seguito della sua attitudine, è più o meno malvisto, più o meno vilipeso e perseguitato dal gruppo. E dall’altra parte c’è il gruppo conformista e tirannico, armato delle sue sanzioni. Qui non sono più in discordia con me stesso. Io mi scontro ben bene contro una forza estranea, esteriore a me e differente da me e che mi fa sentire molto bene la sua esistenza attraverso le rappresaglie che esercita all’occorrenza contro di me.

Forze d’altronde incommensurabilmente superiori a me in potenza, in estensione, in durata, in risorse; cosa che non mi impedisce di resistergli, perché io sento che cedergli sarebbe annichilirmi in ciò che ho di più intimo e di più prezioso: il sentimento della mia indipendenza e della mia esistenza personale.

Infine, ponendosi ancora dal punto di vista oggettivo, si può constatare nel seno stesso della società un conflitto perlomeno virtuale tra due specie di menti (esprits) o, se si preferisce, tra due tipi di temperamento: il temperamento o il carattere sociale (o gregario) e il carattere individualista. Questa differenza non è l’effetto della vita sociale e, ugualmente, esso resiste all’esperienza della vita sociale. Perché la mancanza di un vero carattere è l’impermeabilità all’esperienza. L’individualista, per esempio, resta individualista quale che sia la sua esperienza degli inconvenienti pratici di questa attitudine morale quando è forzato a vivere nello stato di società. Del resto queste due diverse menti non potranno intendersi né convincersi. Il loro modo di sentire la vita e la società è troppo differente.


Le soluzioni date al problema delle antinomie si possono ricondurre a tre.

1. C’è una prima soluzione che consiste nel considerare l’uomo come un essere naturalmente sociale.

È la soluzione di Guyau e in generale dei sociologi che ammettono l’esistenza di una sorta di altruismo e di socialismo primitivo (quest’ultima parola presa nel senso più largo). Nelle società primitive l’individuo sarebbe esistito molto poco o anche per nulla.

L’individuo non è individualizzato, egli è assolutamente assorbito nella solidarietà incosciente della tribù. Ci sembra difficile ammettere in alcun momento [storico] una socializzazione così completa dell’individuo. Anche presso i selvaggi meno individualizzati i movimenti della paura, della collera, dell’istinto sessuale, della gelosia, certo procedettero indubbiamente da un desiderio egoista, per quanto poco cosciente di se stesso possa essere stato questo egoismo. Le trasgressioni al costume sociale, per quanto fossero rare, non devono essere state del tutto sconosciute. Come che sia di ciò, oggi noi siamo degli esseri socializzati solamente in parte. Noi sentiamo molto bene le due anime rivali – l’anima individuale e l’anima sociale – opporsi in noi. E il loro antagonismo non sembra prossimo a finire.

2. In Comte e Spencer non c’è soluzione di continuità tra l’individuo e la società. All’inizio, è vero, la natura umana non è così altruista né così socializzata come lo è oggi. Ma essa era virtualmente socievole e altruista. E queste virtualità dovettero svilupparsi più tardi secondo un’evoluzione continua e definita.

In Comte l’umanità tende a realizzare sempre più le sue virtualità altruiste. Secondo Spencer l’umanità esordì con l’egoismo ma essa portava in sé il germe dell’altruismo. L’egoismo primitivo si è trasformato e si trasforma sempre più in altruismo. L’individuo può sempre meno isolarsi dagli altri, opporsi al gruppo, rifiutarsi alla solidarietà. Egli ne ha anche sempre meno la tentazione. Le antinomie che qui ancora si manifestano tra l’individuo e la società mantengono un adattamento incompleto e incompiuto; esse saranno appianate completamente un giorno in virtù dell’evoluzione fatale e benefica.

Questa teoria, molto differente da quella di Guyau e anzi, per certi aspetti, opposta a quella di Guyau, non ci sembra più esatta. Non è necessario insistere lungamente su ciò che ha di contestabile l’ottimismo fatalista di Comte e di Spencer. Un fatto molto importante da opporre a questi due filosofi è che l’egoismo e l’individualismo non sembrano perdere terreno nell’umanità, anzi al contrario. L’egoismo si riveste di forme più sottili, più complicate, più delicate e più profonde. Esso si fa sempre più cosciente; volendo, diviene egotismo, cioè egoismo teorizzato, volontà di differenza e d’isolamento, dilettantismo amorale e antisociale. Oggi, più che essa abbia mai fatto, l’anima individuale si oppone all’anima sociale.

L’individuo recalcitra contro il gruppo, si solleva contro la solidarietà; ha il sentimento che egli può trattare con il gruppo da eguale a eguale e che il gruppo non è nulla di moralmente superiore a lui; gli restituisce all’occasione disprezzo per disprezzo, sarcasmo per sarcasmo. La mancanza di rispetto nei confronti delle decisioni dei gruppi è un sentimento che tende a predominare negli animi molto coltivati e molto delicati. È certo che se l’individualismo antisociale non guadagna in estensione (perché la mentalità gregaria è ancora molto potente nelle masse mediocri e medie), esso guadagna perlomeno in profondità, in intensità e in lucidità.

3. In Durkheim se non c’è propriamente parlando soluzione di continuità tra l’individuo e la società; nondimeno secondo questo filosofo il «sociale» è di un altro ordine rispetto a quello psicologico. Esso obbedisce a delle leggi proprie e irriducibili a quelle della psicologia individuale (Regles de la methode sociologique, p. 128). La società è un’entità distinta dagli individui, esteriore ad essi e che gli impone dei modi di azione e di pensiero che non avrebbero senza di lei.

La vita collettiva non è un semplice prolungamento della vita individuale; essa è qualche cosa di nuovo, una potenza sui generis che si forma al di fuori e al di sopra degli individui o piuttosto che coesiste con essi, perché mai si sono conosciuti individui viventi nell’isolamento. L’individuo, tuttavia, è originariamente, e resta tutt’oggi, più o meno refrattario alla disciplina sociale: egli non la può sentire senza recalcitrare contro essa o almeno senza provarne la tentazione. All’origine stessa delle società non ci sono mai stati dei perfetti conformismi, dei completi assorbimenti dell’individualità, delle perfette sottomissioni alla disciplina di gruppo (ivi p. 86). Il gruppo qualifica come crimini le infrazioni alla disciplina; ora, il crimine in Durkheim è un fenomeno sociologico normale; attesta quindi come un fatto normale e universale la resistenza degli individui alla disciplina di gruppo. Da tutto ciò sembra risultare che Durkheim ammetta un conflitto possibile tra l’individuo e il gruppo, una resistenza possibile da parte dell’individuo. Ma aggiungiamo subito che secondo Durkheim la lotta è talmente ineguale, la potenza della società è talmente schiacciante che l’individuo, se ha un po’ di buon senso, deve presto riconoscere la propria debolezza e inchinarsi davanti alla società. Dopo qualche velleità di resistenza, l’individuo non può mancare di sottomettersi. «Per indurre l’individuo a sottomettersi da sé, non è necessario ricorrere ad alcun artificio; è sufficiente fargli prendere coscienza del suo stato di dipendenza e di inferiorità naturale, che egli se ne faccia attraverso la religione una rappresentazione sensibile e simbolica o che egli arrivi a formarsi attraverso la scienza una nozione adeguata e definita» (Regles de la methode sociologique, p. 150).

La scienza sociologica assumerà quindi la stessa funzione che hanno assunto fino a qui le religioni; essa piegherà gli individui davanti alla società. La morale sociocratica è, come le morali religiose, una morale del timore e dell’automatismo.

La posizione di Durkheim ci sembra differire allo stesso tempo da quella di Guyau e da quella di Spencer. Durkheim non ammette con Guyau che l’uomo, l’individuo, sia spontaneamente socievole e altruista, che sia d’un colpo socializzato e che non ci possano essere conflitti tra l’individuo e la società e resistenze serie e profonde dell’individuo nei confronti della società. Egli ammette l’esistenza di queste resistenze, ma allo stesso tempo crede che la società sia armata per reprimerle.

D’altra parte Durkheim ci sembra differire da Spencer per il fatto che non ammette, come questo filosofo, una soluzione globale, unica e universale del problema delle antinomie, soluzione ottenuta attraverso un gioco meccanico della legge dell’evoluzione e valevole per l’umanità intera divenuta infine altruista.

In luogo di questa soluzione unica e in qualche modo rettilinea, Durkheim ammette piuttosto delle evoluzioni parziali, variabili con la struttura delle società e le loro condizioni di esistenza: ogni società si difende a seconda di come intende queste condizioni e creandosi un suo sistema di costrizioni e di sanzioni efficaci contro l’individuo. La costrizione e l’obbedienza forzata ci sembrano giocare un ruolo più grande nella morale di Durkheim che in quella di Spencer e soprattutto di Guyau. L’altruismo spontaneo ne gioca, di contro, uno minore. Nella morale sociocratica di Durkheim, come nella morale cristiana, l’individualismo resta il peccato originale e indelebile che bisognerà sempre combattere.

La soluzione di Durkheim ci sembra meno utopica di quella di Guyau e di Spencer; più modesta e più conforme allo spirito scientifico, poiché non predice il regno dell’altruismo universale. Tuttavia Durkheim ci sembra contare troppo sui sentimenti di rassegnazione e di obbedienza che dovrebbero generare, secondo lui, nelle menti degli individui l’esperienza delle costrizioni sociali e l’onnipotenza della società. L’impermeabilità all’esperienza è il marchio dei veri caratteri. Nei temperamenti individualisti l’esperienza delle costrizioni e delle sanzioni sociali, lontano dal provocare la rassegnazione e l’obbedienza, non provoca invece che la resistenza, la ribellione (révolte) aperta o segreta.

L’individualismo originale in loro resiste aspramente e resta se non invitto perlomeno indomito. Tali menti non si lasceranno facilmente persuadere della superiorità intellettuale e morale della società; continueranno a vedere in quest’ultima una macchinazione più o meno abile destinata a reprimere e ingannare gli individui, e i sentimenti che provano di fronte ad essa sarà sempre di diffidenza.


Secondo noi l’antinomia resta insolubile, non ammettendo ne la soluzione globale e utopica di Guyau e Spencer né la soluzione più modesta di Durkheim ottenuta in virtù di costrizioni sociali, di religioni e della morale sociologica. È che noi siamo degli esseri senza dubbio parzialmente socializzati, ma malgrado tutto troppo individualizzati per assorbirci senza resistenze nella società. In noi l’anima individuale sussiste a fianco all’anima sociale. La pressione sociale, per quanto sia schiacciante o abile e astuta, non trionferà verosimilmente su ciò che malgrado tutto c’è d’incomprimibile nell’individuo, cioè l’individualità stessa.


La nostra teoria delle antinomie giustifica l’individualismo come attitudine dell’individuo di fronte alla società. Ma come intendere questo individualismo?

Noi scartiamo subito, naturalmente, l’individualismo sociologico di Draghicesco che ci sembra un semplice gioco di parole. Perché questo suo individualismo arriva a dire che un uomo è tanto più individualizzato quanto più è simile agli altri, tanto più differenziato quanto più è conforme e più confuso nella massa, tanto più originale quanto più è banale.

Noi scartiamo ugualmente ciò che alcuni filosofi chiamano l’individualismo di diritto (Bouglé, Individualisme et sociologie, «Revue bleue», 4 novembre 1905). S’intende con ciò l’individualismo che proclama l’identità essenziale delle individualità umane come esseri ragionevoli e di conseguenza la loro eguaglianza dal punto di vista del diritto. Questa dottrina non ha di individualista che il nome. In effetti essa insiste esclusivamente su ciò che c’è di comune nelle individualità umane; essa trascura per partito preso ciò che c’è di diverso, di singolare e di unico; di più: vede in quest’ultimo elemento una fonte di disordine e di male. Essa proclama la necessità di una disciplina sociale razionale. Questo razionalismo sociologico e morale è l’espressione di una volontà sociale di un gruppo, un’affermazione della dominazione della società sull’individuo.

C’è al momento l’individualismo che noi chiameremo individualismo unicista.

È l’individualismo della differenziazione pura e semplice, dell’unicità. Questo individualismo non è più sociologico, ma fisiologico.

Esso non considera più l’individuazione come un prodotto sociale, come il risultato di un certo grado di differenziazione e di complicazione sociale, ma piuttosto come una idiosincrasia nativa, iscritta nella costituzione, nella fisiologia stessa dell’individuo. Questo individualismo non è più razionalista, ma irrazionalista. Esso nega ogni certezza razionale, ogni dogmatismo sociologico e morale in nome del quale la volontà sociale s’arrogherebbe il diritto d’imporre la sua autorità agli individui. Come non sapendo mai seguire all’infinito le ripercussioni dei nostri atti e comprendere il loro rapporto con l’insieme delle cose, come potremo mai avere una certezza sul valore morale di ciò che facciamo? Nessun sistema razionalista ha dunque autorità per irregimentare la condotta dell’individuo. Ciascuno deve essere libero di condurre la propria barca, a suo rischio e pericolo, e di cercare il proprio bene a modo suo.

L’Unicismo è un individualismo della forza e non più del diritto. L’Unico aspira naturalmente a dispiegare la sua forza, a espandere, senza preoccuparsi delle conseguenze sociali, le sue tendenze quali che siano.

Ugualmente l’idea di contratto, base del diritto, opprime l’individuo nella sua spontaneità e sua istantaneità. L’Unicismo conseguente sopprime i contratti (1).

Alla fin fine l’Unicismo è un individualismo dell’isolamento e dell’ostilità dell’uno contro tutti. Sentirsi e volersi differente non è eguagliarsi a tutta la società, non è al tempo stesso sopprimere, per sé almeno, gli obblighi del patto sociale? Perché in effetti rispetteremmo questo patto se è l’opera di gente con la quale noi non abbiamo o non vogliamo avere nulla in comune?

L’individualismo unicista riveste d’altronde tanti aspetti particolari quanti sono i modi possibili di differenziazione per gli individui. Un uomo non può vedere il mondo, un uomo non può pensare esattamente come un altro uomo; da ciò, un individualismo intellettuale. Un uomo non può sentire esattamente come un altro; da ciò, un individualismo sentimentale. Un uomo non può avere esattamente le stesse ragioni d’agire di un altro; da ciò, un individualismo morale. Un uomo non può avere esattamente la stessa maniera di sentire la bellezza come un altro; da ciò, un individualismo estetico. Un uomo non può avere esattamente gli stessi interessi di un altro; da ciò, un individualismo economico. Un uomo non può avere la stessa potenza né, di conseguenza, lo stesso diritto di un altro; da ciò, un individualismo giuridico o antigiuridico, come si vorrà.

Così nei differenti ordini di pensieri e di azioni l’individualismo unicista nega ogni ideale collettivo: ideale intellettuale, sentimentale, morale, estetico, economico, giuridico, politico. Esso è puramente negativo e distruttivo. Rappresenta una pura attitudine di astensione sociale o di ribellione antisociale (révolte antisociale), una messa in teoria della disobbedienza e insubordinazione, un disprezzo filosofico delle convenzioni sociali, della morale, del diritto, dell’intero patto sociale.

C’è infine un altro individualismo meno semplicista e meno elementare del precedente, un individualismo che non è più puramente negativo e distruttivo, puramente antisociale come il precedente, ma che sembra compatibile, almeno in una certa misura, con l’idea di un legame sociale e di una cultura umana. È l’individualismo aristocratico.

I partigiani dell’individualismo aristocratico rimproverano all’individualismo unicista di essere troppo modesto e troppo vago nella sua rivendicazione in favore dell’individualità. Di fatto questa rivendicazione, dicono, di sicuro porta una differenziazione molto generale e molto vaga. Essa sfocia in un’astensione indolente o in una sterile ribellione. Riprendere eternamente il leit-motiv dell’unicità lo rende un individualismo senza interesse, senza portata, senza grandezza e senza nobiltà. È vero che due uomini non vedono allo stesso modo la stessa foglia d’albero e che essi non stimano esattamente alla stessa maniera la distanza tra due alberi. Ma questo è un elemento ben piccolo e debole di originalità. È un’originalità al ribasso, è un minimum di originalità, un’originalità molto comune e molto banale poiché appartiene a tutti gli uomini senza eccezione, che lo vogliano o no.

Si può avere una concezione più complessa, più ricca e più interessante dell’originalità.

L’uomo superiore nell’individualismo aristocratico non è colui che nega ogni legame sociale e ogni cultura; è colui che riassume in sé la cultura di un’epoca, ma nel superarla e nell’aggiungerne, nel marcarla con il sigillo della sua personalità. Un Leonardo da Vinci, un Goethe sono dei totalizzanti e nello stesso tempo dei creatori di valori; ma questi valori che riassumono in loro, li incorporano e li subordinano alla loro individualità, li ingrandiscono di tutta la loro propria grandezza.

Questi sono gli individui superiori, i maestri, i superuomini (les surhommes). Il superuomo rappresenta il punto culminante della cultura di un’epoca, opponendosi completamente su certi punti a questa cultura. Questo individualismo della grandezza umana non nega più ogni ideale, esso suppone al contrario un ideale di cultura progressiva. Rappresenta, nell’ordine intellettuale, uno sforzo verso la più grande scienza, nell’ordine estetico uno sforzo verso la più grande bellezza, nell’ordine economico uno sforzo verso la più grande ricchezza considerata essa stessa come un mezzo per la più grande forza; nell’ordine politico uno sforzo verso la più grande iniziativa e più grande responsabilità per i maestri e le creature di valore; nell’ordine morale uno sforzo verso un’affermazione più intensa della vita, della grandezza umana e dell’orgoglio umano. Questo individualismo è un imperialismo integrale, una filosofia della vita intensa e della volontà di potenza trionfante, una filosofia del superuomo.


C’è qualche tratto in comune tra questi due individualismi, l’individualismo unicista e l’individualismo aristocratico? Si può, ci sembra, trovarne qualcuno. In primo luogo l’individualismo unicista è già virtualmente uno sforzo verso un’affermazione più intensa e più completa di sé.

L’Unico aspira a distinguersi dagli altri e a primeggiare sugli altri; aspira a un più di indipendenza e di potenza, rivendica la sua «differenza» come contrassegno di superiorità e un principio di aristocratizzazione.

Un altro tratto comune all’individualismo unicista e all’individualismo aristocratico è un anticristianesimo e un immoralismo dichiarato o latente.

Per la coscienza moderna anticristianesimo e immoralismo quasi si confondono. Le due idee di cristianesimo e di morale non sono dissociate. Forse non lo saranno mai. La nostra morale moderna, anche quando si titola come razionalista e scientifica, non è altra cosa se non un prolungamento della morale cristiana, una teoria solamente modificata e ringiovanita dei valori morali cristiani: sacrificio dell’individualità, uguaglianza degli uomini, cancellazione dell’individuo davanti alla comunità, sottomissione all’autorità, un tempo l’autorità religiosa e adesso l’autorità sociale. La conseguenza logica di questa morale è un misticismo sociale, una religiosità sociale che divinizza la società e invita l’individuo a inchinarsi davanti ad essa come davanti al moderno Gèova. A questo misticismo sociale l’individualismo – sia unicista sia aristocratico – oppone il suo ateismo sociale, la sua empietà sociologica, la sua mancanza di rispetto per gli idoli sociali; mancanza di rispetto fondata su un sentimento profondo dell’individualità, sulla volontà di salvaguardare i valori individuali – energia, indipendenza, orgoglio e nobiltà personali – e di difenderli contro le pretese sempre più invadenti della morale di gruppo (2).

È perché nel fondo dell’uno e dell’altro individualismo si ritrova lo stesso sentimento di un’antinomia tra l’individuo e la società. Nell’individualismo unicista questo è evidente. L’individuo nasce e si conserva nemico della società. L’individualismo aristocratico sembra al primo approccio compatibile con le preoccupazioni di una cultura umana e di una civiltà progressiva. Ma l’antinomia tra l’individuo e la società non tarda a fare la sua apparizione. La socievolezza superiore sognata dall’aristocratico contrasta troppo con la società reale, sempre gregaria, inintelligentemente conformista, nemica delle superiorità e amante della mediocrità. Di fronte al superuomo, e contro di lui, la società rappresenta un principio di stagnazione e di resistenza. Essa si oppone con tutte le sue forze al novatore che ferisce i suoi sentimenti, le sue abitudini, i suoi pregiudizi, che mette in allarme i suoi interessi. Più spesso gli individui superiori sono sacrificati alla mediocrità della vita sociale che li circonda. L’uomo superiore, d’altronde, non lavora per la società che spesso giudica poco interessante, ma per il sovrumano, cioè per il suo super-umano, per il suo personale ideale di grandezza. L’uomo superiore non può non soffrire questo conflitto fra le sue aspirazioni e il suo ambiente e infine, quali che siano la sua forza e la sua superiorità, soccombe nella lotta. L’individualismo aristocratico termina logicamente nel pessimismo sociale, nel sentimento di un conflitto dove l’individualità superiore è fatalmente vinta.


(1) [Nota di Palante] È curioso ritrovare in Descartes contro i contratti un argomento identico a quello che darà Stirner. È questa idea che, soggetta a cambiare, noi agiamo d’un modo irragionevole quando noi ci leghiamo per l’avvenire. «Io mettevo tra gli eccessi tutte le promesse per le quali si sottrae qualche cosa della propria libertà… Poiché non vedevo al mondo alcuna cosa che restava sempre nello stesso stato, pensai di commettere un grande fallo contro il buon senso se per il fatto di provare allora qualche cosa mi fossi obbligato di prenderla per buona anche dopo, allorquando avesse forse smesso di esserlo o che io avessi cessato di stimarla tale» (Discorso sul Metodo, terza parte). Questo pensiero è gravido di conseguenze e le riserve con le quali Descartes l’accompagna non ostano nulla della sua portata sovversiva.

(2) [Nota di Palante] L’anticristianesimo e l’antisocietà immoralisti si combinano a dosi variabili nei principali rappresentanti del pensiero individualista. Stirner è un ateo assoluto nell’ordine sociale e morale come nell’ordine religioso. Stendhal è, come Stirner, un ateo in ogni genere. Vigny ha abbandonato il punto di vista cristiano. Egli vede i cieli vuoti, oppone «lo sdegno all’assenza» e professa per il moderno idolo – la società – lo stesso sdegno che per l’antico Gèova. Nietzsche disprezza i valori cristiani e i valori sociali moderni che ne derivano. Gobineau disprezza come Nietzsche il cristianesimo e i suoi valori morali e non ammette altra superiorità che la superiorità etnica. Ibsen definisce l’eroismo non per una superiorità morale (punto di vista cristiano) ma per una superiorità di forza (energia, intrepidezza, intelligenza).


***Traduzione 2018/2019: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati. È questo il capitolo finale di Georges Palante (1862-1925), Les antinomies entre l’individu et la société, Parigi, Félix Alcan, 1913 (ma in libreria già dalla fine del 1912), libro nato come tesi di dottorato che fu però “bocciata” dalla Sorbona (vedi qui in S-Composizioni Georges Palante: Il circolo vizioso della morale normativa, con le note a margine). La chiusura del testo implicitamente rimandava allo studio complementare di questa tesi, ovvero Pessimisme et individualisme, Félix Alcan, Paris, 1914, che si chiudeva con una ulteriore nota di disincanto ancora maggiore sull’“Avvenire del pessimismo e dell’individualismo” (cap. XIII):

«Tutto, nell’evoluzione sociale attuale, indica un rafforzamento crescente dei poteri della società: una tendenza sempre più marcata all’usurpazione operata dalla collettività sull’individuo. Tutto indica, ugualmente, che da parte della generalità degli individui questa usurpazione sarà sempre meno sentita e che provocherà sempre meno resistenze e ribellioni. Il conformismo e l’ottimismo sociale avranno dunque verosimilmente l’ultima parola. La società sarà vittoriosa sull’individuo. Arriverà un momento in cui le catene sociali non feriranno quasi più nessuno, per mancanza di gente sufficientemente innamorata (épris) dell’indipendenza e sufficientemente individualizzata per sentire queste catene e per soffrirne. Il combattimento finirà per la mancanza di combattenti. La piccola minoranza indipendente sarà sempre più infima. Ma per quanto infima essa sia, soffrirà della pressione sociale accresciuta. Essa rappresenterà in questi tempi di conformismo pressoché perfetti e di contentezza sociale generalizzata, il pessimismo e l’individualismo».

[Per un primo sintetico profilo vedi Georges Palante, l’individualismo e la mentalità del ribelle; nella più recente bibliografia accademica una interessante lettura contestuale e in prospettiva è quella proposta da Marc Joly, il quale ha ripercorso “L’usage de cette antinomie dans le cadre des rivalités et luttes de pouvoir entre disciplines des sciences humaines et sociales” illustrandola “à partir de l’analyse de la position et des prises de position d’un acteur « marginal » de la configuration philosophie-psychologie-sociologie-histoire propre au champ intellectuel français du tournant du XXe siècle : Georges Palante”. Marc Joly, « L’antinomie individu/société dans les sciences humaines et sociales », Revue européenne des sciences sociales [En ligne], 52-1 | 2014, mis en ligne le 12 mai 2014, consulté le 21 novembre 2019. URL : http://journals.openedition.org/ress/2714 ; DOI : 10.4000/ress.2714 ] | effe 21/11/2019