Gaetano Mosca: La classe politica (governanti e governati)

GAETANO MOSCAI. Predominio di una classe dirigente in tutte le società. Fra le tendenze ed i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta: in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono appena arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone: quella dei governanti e l’altra dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che alla vitalità dell’organismo politico sono necessari.

Nella pratica della vita tutti riconosciamo l’esistenza di questa classe dirigente o classe politica, come altra volta ebbimo a definirla((Mosca, Teorica dei Governi e Governo parlamentare, cap. 1°. Torino, 1884, Loescher.)). Sappiamo infatti che nel nostro paese alla direzione della cosa pubblica vi è una minoranza di persone influenti, di cui la maggioranza subisce, di buon grado o malgrado, la direzione e che lo stesso avviene nei paesi vicini, e non sapremmo quasi nella realtà immaginare un mondo organizzato diversamente, nel quale tutti ugualmente e senza alcuna gerarchia fossero sottoposti ad un solo o tutti ugualmente dirigessero le cose politiche. Se in teoria ragioniamo altrimenti ciò è in parte l’effetto di abitudini inveterate nel nostro pensiero ed in parte è dovuto alla soverchia importanza che diamo a due fatti politici, la cui appariscenza è d’assai superiore alla realtà.

Il primo di essi consiste nella facile constatazione che in ogni organismo politico vi è sempre una persona che è capo della gerarchia di tutta la classe politica e dirige ciò che si chiama il timone dello Stato. Questa persona non sempre è quella che legalmente avrebbe il supremo potere, alle volte anzi, accanto al Re od all’Imperatore ereditario vi è un primo ministro o un maestro di palazzo che ha un potere effettivo maggiore di quello del Sovrano, od, in luogo del Presidente elettivo, governa l’uomo politico influente, che l’ha fatto eleggere. Qualche volta, per circostanze speciali, invece di una persona sola sono due o tre quelle che adempiono a quest’ufficio della suprema direzione.

Il secondo fatto è anch’esso di facile percezione, perché qualunque sia il tipo di organizzazione sociale, agevolmente si può constatare che la pressione proveniente dal malcontento dalla massa dei governati, le passioni da cui essa è agitata possono esercitare una certa influenza sull’indirizzo dalla classe politica.

Ma l’uomo che è a capo dello Stato non potrebbe certo governare senza l’appoggio di una classe numerosa, che i suoi ordini fa eseguire e rispettare, e se egli può far sentire il peso della sua possanza ad uno od a parecchi dei singoli individui, che a questa classe appartengono, non può certo urtarla nel suo complesso e distruggerla. Giacché, dato che ciò fosse possibile, dovrebbe subito ricostituirne un’altra, senza di che la sua azione sarebbe completamente annullata. E d’altra parte, ammesso anche che il malcontento delle masse riuscisse a detronizzare la classe dirigente, dovrebbe necessariamente trovarsi, come più avanti meglio dimostreremo, nel seno delle masse stesse un’altra minoranza organizzata, che all’ufficio di classe dirigente adempisse. Altrimenti qualunque organizzazione e qualunque compagine sociale sarebbe distrutta.

II. Importanza politica di questo fatto. Ciò che poi costituisce la vera superiorità della classe politica, come base di ricerche scientifiche, è l’importanza preponderante che la sua varia costituzione ha nel determinare il tipo politico ed anche il grado di civiltà dei diversi popoli. Stando infatti a quella maniera di classificare le forme dei governi, che è ancora in voga, la Turchia e la Russia erano fino a qualche anno fa tutte e due monarchie assolute, l’Inghilterra e l’Italia monarchie costituzionali e la Francia e gli Stati Uniti andrebbero poste nella categoria delle Repubbliche. Questa classificazione è basata sul fatto che, nei primi due paesi, il capo dello Stato è ereditario ed era nominalmente onnipotente, nei secondi, pur essendo ereditario, ha facoltà ed attribuzioni limitate, negli ultimi infine è elettivo. Ma la classificazione è evidentemente superficiale.

Giacché appare subito che ben poco di comune v’è nella maniera come sono ed erano rette politicamente la Russia e la Turchia, assai diverso essendo il grado di civiltà di questi due paesi e l’ordinamento delle loro classi politiche: e, seguendo lo stesso criterio, troviamo il regime dell’Italia monarchica assai più analogo a quello della Francia repubblicana che a quello dell’Inghilterra ugualmente monarchica, ed importantissime differenze esservi fra l’ordinamento politico degli Stati Uniti e quello della Francia stessa, sebbene ambedue i paesi siano retti a repubblica.

Come poco avanti abbiamo accennato, lunghe abitudini di pensiero si sono opposte e si oppongono su questo punto al progresso scientifico. La classificazione da noi accennata, che divide i Governi in monarchie assolute, temperate e repubbliche è opera di Montesquieu che la sostituì a quella classica, che già aveva fatto Aristotele, il quale li divideva in monarchie, aristocrazie e democrazie((Si sa che quella che Aristotele chiamò democrazia non era che un’ aristocrazia più larga, e lo stesso Aristotele avrebbe potuto osservare che, in ogni Stato greco, aristocratico o democratico che fosse, vi erano sempre una o pochissime persone che aveano un’influenza preponderante.)). Da Polibio a Montesquieu molti autori aveano perfezionato la classificazione aristotelica sviluppandola nella teoria dei Governi misti. Poi la corrente democratica moderna, che ebbe il suo inizio con Rousseau, si fondò sul concetto che la maggioranza dei cittadini di uno Stato possa, anzi debba partecipare alla vita politica; e la dottrina della sovranità popolare, malgrado che la scienza moderna renda sempre più manifesta la coesistenza in ogni organismo politico del principio democratico, del monarchico e dell’aristocratico((Fra gli autori che ammettono questa coesistenza basta citare lo Spencer.)), s’impone ancora a moltissime menti. Noi qui non la confuteremo direttamente, giacché a questo compito adempiamo in tutto il complesso del nostro lavoro, e perché è assai difficile in poche pagine distruggere in una mente umana tutto un sistema d’idee, che vi si è radicato; giacché, come bene scrisse il Las Casas nella vita di Cristoforo Colombo, il disimparare è in molti casi più difficile dell’imparare.

III. Prevalenza delle minoranze organizzate sulle maggioranze. Fin da ora però crediamo utile di rispondere ad una obiezione, la quale ci pare che molto facilmente si possa fare al nostro modo di vedere. Se è agevole il comprendere che un solo non possa comandare ad una massa senza che ci sia in essa una minoranza che lo sostenga, è piuttosto difficile l’ammettere come un fatto costante e naturale, che le minoranze comandino alle maggioranze anziché queste a quelle. Ma è questo uno dei punti, come tanti se ne danno in tutte le altre scienze, in cui la prima apparenza delle cose è contraria alla loro realtà. Nel fatto è fatale la prevalenza di una minoranza organizzata, che obbedisce ad unico impulso, sulla maggioranza disorganizzata. La forza di qualsiasi minoranza è irresistibile di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si trova solo davanti alla totalità della minoranza organizzata; e nello stesso tempo si può dire che questa è organizzata appunto perché è minoranza. Cento, che agiscano sempre di concerto e d’intesa gli uni cogli altri, trionferanno su mille presi ad uno ad uno e che non avranno alcun accordo fra loro; e nello stesso tempo sarà ai primi molto più facile l’agire di concerto e l’avere un’intesa, perché son cento e non mille.

Da questo fatto si ricava facilmente la conseguenza che, quanto più è grande una comunità politica, altrettanto minore può essere la proporzione della minoranza governante rispetto alla maggioranza governata, e tanto più difficile riesce a questa l’organizzarsi per reagire contro di quella.

Però, oltre al vantaggio grandissimo che viene dall’organizzazione, le minoranze governanti ordinariamente sono costituite in maniera che gli individui che le compongono, si distinguono dalla massa dei governati per certe qualità, che danno loro una certa superiorità materiale ed intellettuale od anche morale, oppure sono gli eredi di coloro che queste qualità possedevano: essi in altre parole devono avere qualche requisito, vero od apparente, che è fortemente apprezzato e molto si fa valere nella società nella quale vivono.

IV. Forze politiche. Il valor militare. Nelle Società primitive, che sono ancora nel primo stadio della loro costituzione, la qualità che più facilmente apre l’accesso alla classe politica o dirigente, è il valor militare. La guerra, che nelle società di avanzata civiltà è uno stato eccezionale, può essere considerata quasi come normale in quelle che sono all’inizio del loro sviluppo, ed allora gli individui che spiegano in essa migliori attitudini acquistano facilmente la supremazia sugli altri: i più bravi diventano i capi. Il fatto è costante, ma le modalità che può assumere, secondo i casi, sono alquanto diverse.

Ordinariamente il dominio di una classe guerriera sopra una moltitudine pacifica si suole attribuire alla sovrapposizione delle razze, alla conquista, che un popolo bellicoso fa di un altro relativamente imbelle. Qualche volta infatti la cosa avviene precisamente così: e ne abbiamo degli esempi nell’India dopo le invasioni degli Arii, nell’impero romano dopo quelle dei popoli germanici e nel Messico dopo la conquista azteca; ma più spesso ancora, in certe condizioni sociali, vediamo formarsi una classe guerriera e dominatrice anche là dove di conquista straniera non vi è assolutamente traccia. Finché un’orda infatti vive esclusivamente di caccia, allora tutti i suoi individui possono facilmente tramutarsi in guerrieri e vi saranno dei capi, che avranno naturalmente il predominio nella tribù, ma non si avrà la formazione di una classe bellicosa, che sfrutti e tuteli nello stesso tempo un’altra addetta al lavoro pacifico. Ma, a misura che si va lasciando lo stadio venatorio e si entra in quello agricolo e pastorale, allora, insieme all’aumento enorme della popolazione ed alla maggiore stabilità dei mezzi d’influenza sociale, può nascere la divisione più o meno netta in due classi: l’una consacrata esclusivamente al lavoro agricolo, l’altra alla guerra. Se ciò avviene, è inevitabile che l’ultima acquisti poco a poco tale preponderanza sulla prima da poterla impunemente opprimere.

La Polonia offre un esempio caratteristico del cambiamento graduale della classe guerriera in classe assolutamente dominatrice. In origine i Polacchi aveano quell’ordinamento del comune rurale che era prevalso fra tutti i popoli slavi, né vi erano fra loro distinzione alcuna fra guerrieri ed agricoltori, ossia nobili e contadini. Però, dopo che si fissarono nelle grandi pianure dove scorre la Vistola ed il Niemen, cominciando a svilupparsi fra essi l’agricoltura e nello stesso tempo continuando la necessità di guerreggiare contro bellicosi vicini, i capi delle tribù o woiewodi si circondarono di un certo numero di individui scelti, i quali ebbero come occupazione speciale quella delle armi. Essi erano divisi nelle varie comunità rurali ed erano naturalmente esentati dai lavori agricoli, pur ricevendo la loro porzione dei prodotti della terra, alla quale, come gli altri comunisti, aveano diritto. Nei primi tempi la loro posizione non era molto ricercata e vi ebbero esempi di paesani, che rifiutavano l’esenzione dei lavori agricoli pur di non andare a combattere; ma, gradatamente, come quest’ordine di cose si fece stabile, come una classe si abituò al maneggio delle armi ed agli ordinamenti militari, mentre l’altra vieppiù incallivasi nell’uso dell’aratro e della vanga, i guerrieri divennero nobili e padroni ed i contadini, da compagni e fratelli, si tramutarono in villani e servi. Poco a poco i bellicosi signori moltiplicarono le loro esigenze al punto che la parte, che essi prendevano come membri della comunità, si allargò fino a comprendere tutto il prodotto della comunità stessa, meno ciò che era assolutamente necessario alla sussistenza dei coltivatori; e quando questi tentarono di fuggire, furono con la forza costretti a restar legati alla terra, assumendo cosi il loro stato i caratteri di una vera e propria servitù della gleba((Il Re Casimiro II il Grande (1333) tentò invano di porre un argine a questo prepotere dei guerrieri e, quando i paesani venivano a reclamare contro i nobili, si limitava a domandare loro se non avessero bastoni e pietre. Più tardi, nel 1587, la nobiltà imponeva che tutti i borghesi delle città fossero costretti a vendere le loro terre, in maniera che la proprietà di queste non poteva appartenere che a nobili, contemporaneamente faceva pressione sul Re affinché iniziasse a Roma le pratiche necessarie per ottenere che non potessero d’allora in poi essere ammessi in Polonia negli ordini sacri che i soli nobili, volendosi così escludere assolutamente dalle cariche onorifiche e da ogni importanza sociale i borghesi ed i contadini. Vedi Mickiewicz, Slaves, cap. IV, pag. 376-80; Histoire populaire de Pologne, cap. I e II. Paris, 1875, ed. Hetzel.)).

Evoluzione analoga abbiamo in Russia. Colà i guerrieri che costituivano la droujina, ossia il seguito degli antichi kniaz o principi discendenti da Rürick, ottennero anch’essi, per vivere, una parte del reddito dei mir, o comuni rurali dei contadini. A poco a poco questa parte crebbe e siccome la terra abbondava e le braccia mancavano ed i contadini ne profittavano per emigrare, lo czar Boris Godounof alla fine del decimosesto secolo diede il diritto ai nobili di ritenere con la forza i contadini nelle loro terre, dando cosi origine alla servitù della gleba. Però in Russia giammai la forza armata fu costituita esclusivamente dai nobili: i moujiks o piccoli uomini seguivano alla guerra come gregari i membri della droujina e poi, fin dal secolo sedicesimo, Ivano IV il Terribile costituiva mediante gli strelitzi un corpo di truppe quasi stanziali, che durò fino a quando Pietro il Grande lo sostituì con i reggimenti organizzati secondo il tipo europeo-occidentale, nei quali gli antichi membri della droujina, uniti a stranieri, formarono il corpo degli ufficiali, ed i moujiks diedero l’intero contingente dei soldati((Leroy-Beaulieu Anatole, L’Empire des tzars et les Russes, vol. I, pag. 338 e seg. Paris, 1881-82, Hachette.)).

In generale poi, in tutti i popoli entrati recentemente nello stadio agricolo e relativamente civile, troviamo costante il fatto che la classe per eccellenza militare corrisponde a quella politica o dominatrice; in qualche parte anzi l’uso delle armi resta riservato esclusivamente a questa classe, come è accaduto nell’India ed in Polonia; più comunemente avviene che anche i membri della classe governata possono essere eventualmente arruolati, ma sempre come gregari e nei corpi meno stimati. Così in Grecia, all’epoca delle guerre mediche, i cittadini appartenenti alle classi più ricche ed influenti costituivano i corpi scelti dei cavalieri e degli opliti, i meno ricchi combattevano come peltasti o frombolieri e gli schiavi, ossia la massa dei lavoratori, era quasi completamente esentata dal maneggio delle armi. Ordinamento perfettamente analogo troviamo nella Roma repubblicana fino all’epoca delle guerre puniche ed anche fino a Caio Mario, tra i Galli all’epoca di Giulio Cesare((Cesare fa rilevare replicatamente che il nerbo degli eserciti gallici era costituito dai cavalieri reclutati nella nobiltà. Gli Edui, ad esempio, non potevano più resistere ad Ariovisto dopo che la maggior parte dei loro cavalieri era stata uccisa combattendo.)), nell’Europa latina e germanica del Medio Evo, nella Russia testé citata ed in molti altri popoli.

V. La ricchezza. Come in Russia ed in Polonia, come nell’India e nell’Europa del Medio Evo, dappertutto le classi guerriere e dominatrici si sono accaparrata la quasi esclusiva proprietà delle terre, che nei paesi non molto civili sono la fonte principalissima della produzione e della ricchezza. A misura poi che la civiltà va progredendo, il reddito di queste terre va aumentando((Col crescere della popolazione suole crescere, almeno in certe epoche, la rendita ricardiana, segnatamente perché si creano quei grandi centri di consumo, che sono o furono costituiti da tutte le metropoli e dalle altre grandi città antiche e moderne. Or una popolazione discretamente fitta e la creazione di grandi città sono condizioni quasi necessarie di una civiltà avanzata.)), ed allora, se altre circostanze vi concordano, può avvenire una trasformazione sociale molto importante: la qualità più caratteristica della classe dominante più che il valore militare viene ad essere la ricchezza, i governanti sono i ricchi piuttosto che i forti.

La principale condizione necessaria perché questa trasformazione avvenga è la seguente: occorre che l’organizzazione sociale si perfezioni e si concentri in maniera che il presidio della forza pubblica diventi molto più efficace di quello della forza privata. Bisogna, in altre parole, che la proprietà privata sia sufficientemente tutelata dalla forza pratica e reale delle leggi in modo da rendere superflua quella del proprietario stesso. Ciò si ottiene mediante una serie di graduali mutamenti nell’ordinamento sociale, sui quali più avanti ci dovremo piuttosto lungamente intrattenere, e che hanno per effetto di cambiare quel tipo di organizzazione politica, che noi chiameremo lo Stato feudale, in un altro tipo, essenzialmente diverso, che da noi sarà denominato Stato burocratico. Però fin da ora possiamo dire che la evoluzione, alla quale abbiamo accennato, ordinariamente è molto facilitata dal progredire dei pacifici costumi e da certe abitudini morali, che le società contraggono col progredire della civiltà.

Una volta avvenuta la detta trasformazione è certo che, come il potere politico ha prodotto la ricchezza, così la ricchezza produce il potere. In una società già abbastanza matura, nella quale la forza individuale è tenuta a freno da quella collettiva, se i potenti sono ordinariamente i ricchi, dall’altra parte basta essere ricchi per diventare potenti. Ed in verità è inevitabile che, quando è proibita la lotta a mano armata restando permessa quella a colpi di scudi, i posti migliori siano conquistati appunto da coloro che di scudi sono meglio forniti.

Ci sono invero Stati di civiltà avanzatissima, che sono organizzati in base a principi morali di un’indole tale, che sembrano escludere questa preponderanza della ricchezza da noi enunciata. Ma questo è uno dei tanti casi in cui i principi teorici non hanno che una limitata applicazione nella realtà delle cose. Negli Stati Uniti d’America, ad esempio, tutti i poteri escono direttamente od indirettamente dalle elezioni popolari ed il suffragio è, in quasi tutti gli Stati, universale; e vi è anche di più: la democrazia colà non è solo nelle istituzioni, ma anche in certo modo nei costumi, e vi è una certa ripugnanza nei ricchi a darsi ordinariamente alla vita pubblica ed una certa ripugnanza nei poveri a scegliere i ricchi per le cariche elettive((Vedi Claudio Jannet, Le istituzioni politiche negli Stati Uniti d’America, parte II, cap. X e seg. (“Biblioteca politica” Unione tipografica editrice, Torino). L’A. cita moltissimi autori e giornali americani, che rendono la sua asserzione irrecusabile.)). Ciò non toglie che un ricco vi sia sempre molto più influente di un povero, perché può pagare i politicanti spiantati, che dispongono delle pubbliche amministrazioni; non toglie che le elezioni si facciano al suono dei dollari; che interi parlamenti locali e numerose frazioni del Congresso non risentano l’influenza delle potenti compagnie ferroviarie e dei grandi baroni della finanza. E vi è perfino chi assicura che, in parecchi Stati dell’Unione, chi abbia molto da spendere possa anche concedersi il lusso di ammazzare un uomo colla quasi sicurezza dell’impunità((Jannet, opera e capitoli citati (La corruzione privata. Onnipotenza del danaro. La plutocrazia, ecc.). I fatti citati oltre che attestati da quest’autore con numerosissimi documenti sono confermati da molti scrittori americani di cose politiche, dal Seamen ad es. e dal George, che pur sono di principi differenti. Del resto coloro che hanno qualche pratica della letteratura americana sanno che essi sono ammessi da romanzieri, commediografi e giornalisti come cosa risaputa. Il socialista George ha più che all’evidenza dimostrato (vedi opera già citata) come il suffragio universale non basti ad impedire la plutocrazia, dove vi è una grande disuguaglianza di fortune. È sua l’asserzione che negli Stati dell’Ovest un ricco si può cavare il capriccio di ammazzare impunemente un povero. Lo stesso autore nel “Protection and free trade” (London, 1886) accenna continuamente all’influenza dei grandi industriali nelle decisioni del Congresso.)).

Anche nella China fino a qualche anno fa, il Governo, sebbene non avesse accolto il principio dell’elezione popolare, era fondato sopra una base essenzialmente egalitaria; si sa che i gradi accademici aprivano l’accesso alle pubbliche cariche e che questi gradi si conferivano per esame senza apparente riguardo alla nascita od alla ricchezza((Secondo qualche autore solo i barbieri e certe categorie di battellieri sarebbero stati esclusi, insieme ai loro figli, dal diritto di concorrere ai vari gradi del mandarinato. Rousset, A travers la Chine. Paris, 1878, Hachette.)). Ma benché la classe doviziosa sia in China meno numerosa, meno ricca, meno strapotente che negli Stati Uniti d’America, non è men vero che essa aveva saputo notevolmente intaccare la leale applicazione di questo sistema. Non solo si comprava spesso a forza di danaro l’indulgenza degli esaminatori, ma il Governo stesso talora per danaro vendeva i diversi gradi accademici e permetteva che arrivassero agli impieghi persone ignoranti, che qualche volta erano venute su dagli ultimi strati sociali((Sinibaldo de Mas, Chine et puissances chrétiennes, pag. 332-34; Huc. L’Empire Chinois.)).

Prima di lasciare quest’argomento dobbiamo poi rammentare che, in tutti i paesi del mondo, altri mezzi d’influenza sociale, quali sarebbero la notorietà, la grande cultura, le cognizioni speciali, i gradi elevati nelle gerarchie ecclesiastiche, amministrative e militari, si acquistano sempre più facilmente dai ricchi anziché dai poveri. I primi per arrivare devono sempre percorrere una via notevolmente più breve di quella dei secondi, senza contare che il tratto di strada, che ai ricchi viene risparmiato, è spessissimo il più aspro e difficile.

VI. Le credenze religiose e la cultura scientifica. Nelle società nelle quali le credenze religiose hanno molta forza ed i ministri del culto formano una classe speciale si costituisce quasi sempre un’aristocrazia sacerdotale, che ottiene una parte più o meno grande della ricchezza e del potere politico. Abbiamo esempi cospicui di questo fatto in certe epoche dell’antico Egitto, nell’India braminica e nell’Europa del Medio Evo. Spesso i sacerdoti, oltre che adempire agli uffici religiosi, hanno avuto anche cognizioni giuridiche e scientifiche e hanno rappresentato la classe intellettualmente più elevata. Coscientemente o incoscientemente però, nelle gerarchie sacerdotali si è manifestata di frequente la tendenza a monopolizzare le cognizioni accennate e ad ostacolare la diffusione dei metodi e dei procedimenti, che rendono possibile e facile l’apprenderle. Si può invero sospettare che a questa tendenza sia, almeno in parte, dovuta la lentissima diffusione che ebbe nell’Egitto antico l’alfabeto demotico, infinitamente più semplice e facile della scrittura geroglifica. In Gallia i Druidi, sebbene avessero conoscenza dell’alfabeto greco, non permettevano che la copiosa raccolta della loro letteratura sacra fosse scritta ed obbligavano i loro allievi a cacciarla con molta fatica a memoria. Allo stesso scopo può essere attribuito l’uso tenace e frequente delle lingue morte, che troviamo nell’antica Caldea, nell’India e nell’Europa del Medio Evo. Qualche volta, infine, come è appunto accaduto nell’India, si è proibito formalmente alle classi inferiori di aver conoscenza dei libri sacri.

Le nozioni speciali e la vera cultura scientifica, spoglie di qualunque carattere sacro e religioso, diventano una forza politica importante solo in uno stadio molto avanzato di civiltà; ed è allora soltanto che esse possono a coloro che le posseggono aprire l’adito della classe governante. Ma, anche in questo caso, è da tener presente che ciò che ha un valore politico non è tanto la scienza in se stessa quanto le applicazioni pratiche che se ne possono fare a vantaggio del pubblico, ovvero dello Stato. Qualche volta non si richiede che il possesso dei soli procedimenti meccanici indispensabili per acquistare una coltura superiore, forse perché è più facile constatare e misurare la perizia, che in essi il candidato ha potuto acquistare. Così, in certe epoche dell’antico Egitto, la professione di scriba conduceva alle cariche pubbliche ed al potere, forse anche perché l’apprendere la scrittura geroglifica richiedeva lunghi e pazienti studi; come pure, nella China moderna, la conoscenza dei numerosissimi caratteri della scrittura cinese ha formato la base della cultura dei mandarini((Almeno così era fino a pochi anni fa, quando gli esami dei mandarini versavano soltanto sulle discipline letterarie e storiche alla maniera, ben inteso, come queste discipline erano comprese dai Cinesi.)). Nell’Europa presente ed in America la classe, che applica alla guerra, all’amministrazione pubblica, alle opere ed alla sanità pubblica i ritrovati della scienza moderna, occupa una posizione socialmente e politicamente ragguardevole: e, negli stessi paesi, come nella Roma antica, privilegiata assolutamente è la condizione dei giurisperiti, che conoscono la complicata legislazione comune a tutti i popoli di antica civiltà, massime se alle nozioni giuridiche accoppiano quel genere di eloquenza, che più incontra il gusto dei propri contemporanei. Non mancano esempi nei quali vediamo che, nella frazione più elevata della classe politica, la lunga pratica nel dirigere l’organizzazione militare e civile della comunità fa nascere e sviluppare una vera arte di governo superiore al gretto empirismo ed a tutto ciò che può suggerire la sola esperienza individuale. E allora che si costituiscono quelle aristocrazie di funzionari, come il Senato romano, il veneto e, fino ad un certo punto la stessa aristocrazia inglese, che formavano l’ammirazione dello Stuart Mill e che certo hanno dato alcuni dei Governi, che più si sono distinti per maturità nei loro disegni e costanza ed avvedutezza nel metterli in esecuzione. Quest’arte non è certo la Scienza politica, ma ha precorso senza dubbio l’applicazione di alcuni suoi postulati; però, se essa si è in qualche modo affermata in certe classi di persone da lungo tempo in possesso delle funzioni politiche, crediamo che la sua conoscenza non abbia servito mai come criterio ordinario per aprirne l’accesso a coloro, che dalla loro posizione sociale ne restavano esclusi((Ci pare del resto che quest’arte di governo, meno casi eccezionali, sia una qualità molto difficile a constatare in individui, che ancora non hanno fornito la prova pratica di possederla.)).

VII. Influenza dell’eredità nella classe politica. In certi paesi troviamo le caste ereditarie; la classe governante è perciò definitivamente ristretta ad un dato numero di famiglie e la nascita è l’unico criterio, che determina l’entrata nella detta classe o l’esclusione da essa. Gli esempi di queste aristocrazie ereditarie sono comunissimi e non vi è quasi paese di antica civiltà, che, in una data epoca della sua storia, non ne abbia avuto. Una nobiltà ereditaria troviamo infatti in certi periodi nella China e nell’Egitto antico, nell’India, nella Grecia anteriore alle guerre mediche, in Roma antica, tra gli Slavi, tra i Latini e Germani del Medio Evo, nel Messico all’epoca della scoperta dell’America e nel Giappone fino a pochi anni fa.

Su questo proposito dobbiamo premettere due osservazioni: la prima è che tutte le classi politiche hanno la tendenza a diventare di fatto, se non di diritto, ereditarie. Infatti tutte le forze politiche hanno quella qualità, che in fisica si chiama forza di inerzia, cioè la tendenza a restare nel punto e nello stato in cui si trovano. Il valor militare e la ricchezza facilmente per tradizione morale e per effetto dell’eredità si mantengono in certe famiglie; e la pratica delle grandi cariche, l’abitudine e quasi l’attitudine a trattare gli affari di importanza si acquistano molto più facilmente quando da piccoli si è avuta con essi una certa famigliarità. Anche quando i gradi accademici, la coltura scientifica, le attitudini speciali provate per mezzo di esami e di concorsi aprono l’adito alle cariche pubbliche, non si distrugge quel vantaggio speciale a favore di taluni, che i Francesi definiscono il vantaggio delle posizioni già prese. Ed in realtà, per quanto esami e concorsi siano teoricamente aperti a tutti, alla maggioranza manca sempre l’agiatezza necessaria per sopperire alle spese di una lunga preparazione, ed a molti altri fanno difetto le relazioni e le parentele, per le quali un individuo è messo subito sulla via buona e si evitano i tentennamenti e gli sbagli inevitabili quando si entra in un ambiente sconosciuto, nel quale non si hanno guide ed appoggi((Il principio democratico della elezione a suffragio molto largo parrebbe a prima vista in contraddizione con questa tendenza alla stabilità della classe politica, che abbiamo accennato. Ma bisogna osservare che riescono quasi sempre eletti coloro che posseggono le forze politiche, che abbiamo già enumerato e che spessissimo sono ereditarie. Difatti nel Parlamento inglese ed anche in quelli francese ed italiano vediamo frequentemente sedere i figli, i fratelli, i nipoti e i generi di deputati ed ex-deputati.)).

La seconda osservazione consiste in ciò: che, quando vediamo in un paese stabilita una casta ereditaria che monopolizza il potere politico, si può esser sicuri che un simile stato di diritto fu preceduto dallo stato di fatto. Prima di affermare il loro diritto esclusivo ed ereditario al potere, le famiglie o le caste potenti dovettero tenere ben saldo nelle loro mani il bastone del comando, dovettero monopolizzare assolutamente tutte le forze politiche di quell’epoca e di quel popolo in cui si affermarono; altrimenti una pretesa di questo genere avrebbe suscitato proteste e lotte acerbissime.

Dopo ciò diremo come le aristocrazie ereditarie spesso hanno vantato una origine soprannaturale o almeno diversa e superiore a quella delle classi governate; tale pretesa si spiega con un fatto sociale importantissimo, del quale dovremo lungamente parlare nel seguente capitolo, e che fa sì che ogni classe governante tende a giustificare il suo potere di fatto appoggiandolo ad un principio morale d’ordine generale. Recentemente però la stessa pretesa si è presentata con l’appoggio di un corredo scientifico. Qualche scrittore, sviluppando ed ampliando le teorie del Darwin, crede che le classi superiori rappresentino un grado più elevato dell’evoluzione sociale e che esse quindi siano per costituzione organica migliori di quelle inferiori; il Grumplowicz, già citato, va più avanti e sostiene nettamente il concetto che la divisione dei popoli in classi professionali è fondata, nei paesi di moderna civiltà, sopra una eterogeneità etnica((Op. cit. Questo concetto si ricava da tutto lo spirito del lavoro, ma è nettamente affermato nel libro 2°, cap. XXXIII.)).

Or sono notissime nella storia le qualità come anche i difetti speciali, le une e gli altri molto accentuati, che hanno mostrato quelle aristocrazie, che sono rimaste perfettamente chiuse, oppure che hanno reso molto difficile l’accesso nella loro classe. L’antico patriziato romano e la moderna nobiltà inglese e tedesca danno subito l’idea del tipo che accenniamo. Senonché, di fronte a questo fatto ed alle teorie che tendono ad esagerarne la portata, si può fare sempre la stessa obiezione: che gli individui appartenenti a queste aristocrazie debbono le loro qualità speciali non tanto al sangue, che loro scorre nelle vene, quanto alla particolarissima educazione che hanno ricevuto, e che ha sviluppato in loro certe tendenze intellettuali e morali a preferenza di altre((Sembra anzi accertato che, fra tutti i coefficienti di superiorità sociale, quello nel quale l’eredità si afferma con minore efficacia sia la superiorità intellettuale, poiché i figli degli uomini di mente più elevata spesso hanno intelletto mediocre; ed è perciò che le aristocrazie ereditarie non si sono mai fondate sulla sola superiorità intellettuale, ma piuttosto su quella del carattere e della ricchezza.)).

Si dice che ciò può esser sufficiente a spiegare le superiorità nelle attitudini puramente intellettuali, ma non le differenze di carattere morale, come sarebbero la forza di volontà, il coraggio, l’orgoglio, l’energia. Ma la verità è che la posizione sociale, le tradizioni di famiglia, le abitudini della classe in cui viviamo, contribuiscono al maggiore o minore sviluppo delle qualità accennate più di quanto comunemente si crede. Se infatti osserviamo attentamente gli individui che cambiano di posizione sociale, o in meglio o in peggio, e che entrano in conseguenza in un ambiente diverso da quello al quale erano abituati, possiamo facilmente accertarci che le loro attitudini intellettuali si modificano molto meno sensibilmente di quelle morali, astrazion facendo della maggiore larghezza di vedute, che lo studio e le cognizioni danno a chiunque non sia assolutamente uno stupido, ogni individuo, resti semplice segretario o diventi ministro, arrivi al grado di sergente od a quello di generale, sia milionario o pezzente, si mantiene immancabilmente a quel livello intellettuale, che la natura gli ha dato. Mentre, col cambiare del grado sociale e della ricchezza, possiamo benissimo vedere l’orgoglioso diventare umile e la servilità cambiarsi in tracotanza; un carattere franco e fiero, costretto da necessità, imparare a mentire o quanto meno a dissimulare; e chi si è piegato lungamente a simulare e mentire rifarsene poi adottando una sedicente franchezza ed inflessibilità di carattere. È pure vero che chi dall’alto viene abbassato spesso acquista forza di rassegnazione, di sacrificio e d’iniziativa, come pure che chi dal basso viene innalzato qualche volta guadagna riguardo al sentimento della giustizia e dell’equità. Insomma, si muti in bene o in male, deve essere eccezionalmente temprato quell’individuo, che, cambiando notevolmente di posizione sociale, conserva inalterato il proprio carattere((Scrisse Mirabeau che, per qualunque uomo, una grande elevazione nella scala sociale produce una crisi, che guarisce i mali che ha e glie ne crea alcuni, che prima non aveva. Vedi Correspondance entre le comte de Mirabeau et le comfe de La Marek, vol. II, pag. 228. Paris, 1851. Librairie Le Normant.)).

Il coraggio guerresco, l’energia nell’attacco, la longanimità nella resistenza sono qualità, che spesso e lungamente sono state credute monopolio delle classi superiori. Certo grande può essere la differenza naturale e, diremo cosi, innata che su queste qualità può correre fra un individuo ed un altro; a mantenerle però alte o basse, in media, in una categoria d’uomini numerosa, concorrono sopratutto le tradizioni e le abitudini dell’ambiente. Generalmente ci familiarizziamo col pericolo, o meglio ancora con un dato pericolo, quando le persone con cui siamo usi a vivere ne parlano con indifferenza e rimangono calme ed imperturbabili davanti ad esso. Infatti, sebbene molti ce ne siano naturalmente timidi, i montanari affrontano impavidi i pericoli degli abissi ed i marinari quelli del mare, ed allo stesso modo le popolazioni e le classi abituate alla guerra mantengono in sommo grado le virtù militari.

E ciò è tanto vero che, anche popolazioni e classi sociali ordinariamente disusate dalle armi, acquistano rapidamente le dette virtù, purché gl’individui da esse provenienti vengano incorporati in certi nuclei, dove il coraggio e l’ardire siano tradizionali; purché siano, ci si passi la metafora, gettati in crogioli umani fortemente imbevuti di quei sentimenti, che ad essi si vogliono trasmettere. Con fanciulli principalmente rubati fra gl’infiacchiti Greci di Bisanzio Maometto II reclutava i suoi terribili giannizzeri; il tanto disprezzato fellah egiziano, da lunghi secoli disabituato dalle armi ed avvezzo a ricevere umile ed imbelle le bastonate di tutti gli oppressori, mescolato ai Turchi ed Albanesi di Mehemet-Alì diventava un buon soldato. La nobiltà francese ha goduto sempre gran fama per il suo brillante valore, ma, fino alla fine del secolo decimottavo, questa qualità non era ugualmente attribuita alla borghesia dello stesso paese; le guerre della repubblica e dell’impero dimostrarono ampiamente che la natura era stata ugualmente prodiga di coraggio per tutti gli abitanti della Francia, e che plebe e borghesia potevano fornire non solo buoni soldati, ma anche, che ciò si credeva privilegio esclusivo dei nobili, eccellenti ufficiali((Del resto l’asserzione del Gumplowicz che la differenziazione delle classi sociali dipenda massimamente dalle varietà etniche meriterebbe almeno di essere provata; di contro a quest’asserzione si possono addurre facilmente molti fatti, e fra gli altri quello, tanto ovvio, che spessissimo i rami della stessa famiglia appartengono a classi sociali molto differenti.)).

VIII. Periodi di stabilità e di rinnovamento della classe politica. Infine, stando all’idea di coloro che sostengono la forza esclusiva del principio ereditario nella classe politica, si verrebbe ad una conseguenza consimile a quella che abbiamo accennato nella prima parte del nostro lavoro: la storia politica della umanità dovrebbe essere molto più semplice di quella che è. Se veramente la classe politica appartenesse ad una razza differente o se le sue qualità dominatrici si trasmettessero principalmente per mezzo della eredità organica, non si capirebbe il perché, formata una volta questa classe, essa debba decadere e perdere il potere. È ammesso comunemente che le qualità proprie di una razza sono molto tenaci e, stando alla teoria dell’evoluzione, le attitudini acquisite nei padri sono innate nei figli e col succedersi delle generazioni si vanno sempre più affinando. Sicché i discendenti dei dominatori dovrebbero diventare sempre più atti a dominare, e le altre classi dovrebbero mano mano vedere allontanata la possibilità di misurarsi con loro e di sostituirli. Or la più volgare esperienza basta a farci sicuri che le cose non vanno precisamente così.

Noi vediamo che, appena si spostano le forze politiche, se si fa sentire il bisogno che attitudini diverse di quelle antiche si affermino nella direzione dello Stato e se le antiche quindi non conservano la loro importanza, o se avvengono dei cambiamenti nella loro distribuzione, muta anche la maniera come la classe politica è formata. Se in una società si forma un nuovo cespite di ricchezza, se cresce l’importanza pratica del sapere, se l’antica religione decade od una nuova ne nasce, se una nuova corrente di idee si diffonde, contemporaneamente avvengono forti spostamenti nella classe dirigente. Si può dire anzi che tutta la storia dell’umanità civile si riassume nella lotta fra la tendenza, che hanno gli elementi dominatori a monopolizzare le forze politiche ed a trasmetterne ereditariamente il possesso ai loro figli, e la tendenza, che pure esiste, verso lo spostamento di queste forze e l’affermazione di forze nuove, la quale produce un continuo lavorio di endosmosi ed esosmosi fra la classe alta e alcune frazioni di quelle basse. Decadono poi immancabilmente le classi politiche ogni qualvolta non possono più esercitare le qualità per le quali arrivarono al potere, o quando non possono rendere più il servizio sociale che rendevano o le loro qualità ed i servizi che rendono perdono ogni importanza nell’ambiente sociale in cui vivono: cosi decadde l’aristocrazia romana quando non fornì più esclusivamente gli alti ufficiali dell’esercito, gli amministratori della repubblica, i governatori delle Provincie; cosi decadde la veneta quando i suoi patrizi non comandarono più le galere e non passarono più gran parte della loro vita navigando, commerciando e combattendo.

Nella natura inorganica troviamo l’esempio dell’aria, nella quale la tendenza all’immobilità, prodotta dalla forza d’inerzia, è continuamente combattuta dalla tendenza allo spostamento, conseguenza delle ineguaglianze nella distribuzione del calorico. Le due tendenze, prevalendo a vicenda nelle diverse parti del nostro pianeta, vi producono or la calma, or il vento e la tempesta. Senza voler trovare alcuna analogia sostanziale fra questo esempio ed i fenomeni sociali, e solo citandolo perché ci fa comodo come paragone formale, osserviamo che, nelle società umane, prevale ora la tendenza che produce la chiusura, l’immobilità, la cristallizzazione, per dir così, della classe politica, ora quella che ha per conseguenza il suo più o meno rapido rinnovamento.

Le società dell’Oriente, che noi giudichiamo immobili, in realtà non lo sono sempre state, perché altrimenti, come abbiamo già accennato, non avrebbero potuto fare quei progressi di cui ci lasciarono le irrecusabili testimonianze. È molto più esatto il dire che noi le abbiamo conosciute quando erano in un periodo di cristallizzazione delle loro forze e classi politiche. Lo stesso avviene in quelle società, che comunemente si chiamano invecchiate, nelle quali le credenze religiose, la cultura scientifica, i modi di produrre e distribuire la ricchezza non hanno subito da lunghi secoli alcun radicale cambiamento, e che non sono state turbate nel loro ordinario andamento da infiltrazioni materiali od intellettuali di elementi stranieri. In queste società, le forze politiche essendo sempre le stesse, la classe che le possiede mantiene indisputato il potere, che si perpetua per ciò in certe famiglie e l’inclinazione verso la immobilità si generalizza anche in tutti gli strati sociali.

È così che nell’India vediamo il regime delle caste stabilirsi rigorosamente dopo che vi fu soffocato il Buddismo. Così vediamo pure che nell’antico Egitto i Greci trovarono le caste ereditarie, mentre sappiamo che nei periodi di splendore e rinnovamento della civiltà egiziana la ereditarietà degli uffici e delle condizioni sociali non esisteva((Lenormant, Maspero, Brugsh, opere citate. Durante il periodo della cacciata degli Hiqsos abbiamo il resoconto della carriera di un alto ufficiale, che aveva cominciato la carriera da semplice soldato. Frequentissimi erano poi i casi in cui lo stesso individuo serviva successivamente nella milizia, nell’amministrazione civile e nel sacerdozio.)). Ma l’esempio più noto e forse più importante di una società che tende a cristallizzarsi l’abbiamo in quel periodo della storia romana che si dice il basso impero, nel quale, dopo alcuni secoli di un’immobilità sociale quasi completa, vediamo farsi sempre più netta la separazione fra due classi: l’una di grandi proprietari e funzionari importanti, l’altra di servi, di coloni, di plebe; e cosa anche più notevole, stabilita prima dal costume che dalla legge, l’eredità degli uffici e delle condizioni sociali si andò in quell’epoca rapidamente generalizzando((Mommsen e Marquardt, Manuel des antiquités romaines. Trad. Humbert, Ed. Thoria, Paris, 1887; Fustel de Coulanges, Nouvelles recherches sur quelques problèmes d’histoire. Paris, 1891, Hachette.)).

Ma può avvenire al contrario, e avviene qualche volta nella storia delle nazioni, che il commercio con genti estranee, la necessità di emigrare, le scoperte, le guerre, creino nuova povertà e ricchezza nuova, diffondano cognizioni fin allora sconosciute, producano l’infiltrazione di nuove correnti morali, intellettuali e religiose. Può accadere che, per lenta elaborazione interna o per effetto di queste infiltrazioni, o per ambo le cause, sorga una scienza nuova, o tornino in onore i risultati di quella antica, che era stata obliata, e che le nuove idee e le nuove credenze scuotano le abitudini intellettuali sulle quali si fondava l’obbedienza delle masse. La classe politica può anche essere vinta e distrutta in tutto od in parte da invasioni straniere e, quando si producono le circostanze dianzi rammentate, può anche essere sbalzata di seggio da nuovi strati sociali forti di nuove forze politiche. È naturale che ci sia allora un periodo di rinnovamento, o, se si vuole definirlo così, di rivoluzione, durante il quale le energie individuali hanno buon gioco ed alcuni fra gl’individui più passionati, più attivi, più scaltri ed arditi possono dal basso della scala sociale aprirsi la via fino ai gradi più elevati.

Questo movimento, una volta iniziato, non si può tutto ad un tratto fermare; l’esempio di contemporanei, che, partiti dal nulla sono arrivati a posizioni cospicue, stimola nuove ambizioni, nuove cupidigie, nuove energie, ed il rinnovamento molecolare della classe politica si mantiene attivo finché un lungo periodo di stabilità sociale non lo va di nuovo rallentando((Non citeremo esempi di popoli, che si trovano in periodi di rinnovamento perché nel nostro secolo sarebbero superflui. Rammentiamo soltanto che, nei paesi di recente colonizzazione, il fenomeno del rapido rinnovarsi della classe politica si presenta più di frequente e più spiccato. Dappoiché, quando comincia la vita sociale nei detti paesi, non esiste una classe dirigente bella e formata e, durante il periodo in cui si costituisce, è naturale che il suo ingresso resti più accessibile. Inoltre il monopolio della terra e di altri mezzi di produzione vi è, se non del tutto impossibile, certo più difficile che altrove. È perciò che le colonie greche offrirono, almeno fino ad una certa epoca, un largo sbocco a tutti i caratteri energici ed intraprendenti dell’Ellade, e che negli Stati-Uniti d’America, dove la colonizzazione di nuove terre ha durato per tutto il secolo decimonono e nuove industrie sono continuamente sorte, gli uomini che dal nulla arrivano alla notorietà ed alla ricchezza sono ancora frequenti, ciò che contribuisce a mantenervi l’illusione che la democrazia sia una realtà.)). Allora, mano mano che dallo stato febbrile una società va passando a quello di calma, siccome le tendenze psicologiche dell’uomo sono sempre le stesse, coloro che fanno parte della classe politica vanno acquistando lo spirito di corpo e di esclusivismo ed imparano l’arte di monopolizzare a loro vantaggio le qualità e le attitudini necessarie per arrivare al potere e per mantenerlo: infine, col tempo, si forma la forza conservatrice per eccellenza, quella dell’abitudine, per la quale molti si rassegnano a stare in basso, ed i membri di certe famiglie o classi privilegiate acquistano la convinzione che per loro è quasi un diritto assoluto lo stare in alto ed il comandare.

Ad un filantropo verrebbe certo la voglia di indagare se l’umanità sia più felice o meno tribolata quando si trova in un periodo di calma e cristallizzazione sociale, in cui ognuno deve quasi fatalmente restare in quel gradino della gerarchia sociale nel quale è nato, ovvero quando traversa il periodo perfettamente opposto di rinnovamento e rivoluzione, che permette a tutti di aspirare ai gradi più eccelsi ed a qualcheduno di arrivarvi. Una simile indagine sarebbe difficile, e si dovrebbe tener conto nella risposta di molte condizioni ed eccezioni e forse essa sarebbe sempre influenzata dal gusto individuale dell’osservatore. Perciò noi ci guarderemo bene dal darla; molto più che, se anche potessimo ottenere un risultato indiscutibile e sicuro, esso sarebbe sempre di una scarsissima utilità pratica: attesoché ciò che filosofi e teologi chiamano il libero arbitrio, cioè la scelta spontanea degli individui, ha avuto finora, e forse avrà sempre, pochissima o quasi nessuna influenza nell’affrettare la fine od il principio di uno dei periodi storici accennati.

  • Tratto da Gaetano Mosca, La Classe Politica, Pieffe Edizioni 2018 [a cura di Fabrizio Pinna; ebook Collana MiniMix n. 11; ISBN 978-88-99508-22-7]. Ed. Originale: “La classe politica”, Cap II di Gaetano Mosca (1858-1941), Elementi di scienza politica (I edizione: Roma, F.lli Bocca, 1896; II ed.: Torino, F.lli Bocca, 1923).

NOTE A MARGINE (di effe). I. «[…] La forme est agréable. La clarté de la pensée passe dans la phrase, souple, étoffée, harmonieuse, qui retombe adroitement sur une conclusion solide. La méthode consiste dans l’application de l’observation historique à la recherche des grandes lois psychologiques qui régissent les sociétés humaines. La politique ne deviendra réellement rationnelle que lorsqu’elle sera fondée sur une science positive. Nous n’en sommes pas là. En attendant, étudions attentivement l’histoire et critiquons à sa lumière les systèmes et les doctrines qui nous sont proposés. […]
Il a son idée. Cette idée n’est point un système, où l’on sente l’auteur prisonnier, et soi-même avec lui. C’est une conception de l’homme, de l’histoire, de la politique, prise d’assez haut pour laisser les vues très libres. Voici ce que, placé près de l’auteur, on aperçoit de son poste d’observation: L’homme est un être faible, plein de passions, de contradictions et d’inconséquences. L’histoire nous le montre, à cet égard, partout le même, et en tout temps. L’individu, considéré isolement, est de peu d’intérêt, de vertu médiocre, de valeur sociale à peu près nulle. Il ne vaut que par l’instinct social et les groupements que celui-ci lui fait constituer et qui sont, du reste, si bien dans sa nature qu’on ne peut l’en isoler que par un effort d’abstraction sans valeur scientifique. […]» [Maurice Caudel (1871-1950), Un philosophe politique italien: Gaetano Mosca. In: « Revue des sciences politiques », a. XXXVIII, 1923*]

[*I.bis. È una estesa recensione / profilo di Gaetano Mosca pubblicata in occasione della seconda edizione degli Elementi di Scienza politica, in cui l’autore proponeva anche un interessante confronto tra Mosca « et le grand observateur anglosaxon des mêmes phénomènes » James Bryce (1838-1922). Studioso francese di cui oggi si è molto sbiadita la memoria persino in Francia, Maurice Caudel (1871-1950) oltre ad essere un collaborare della “Revue des sciences politiques” fu per quasi quarant’anni professore di Storia Costituzionale alla École des sciences politiques (1901-1940) – oggi più abitualmente Sciences Po – dove fu a lungo anche bibliotecario (1910-1919). Vedi più sotto VI.]

II. Dopo la seconda edizione accresciuta, il libro fu in seguito ripubblicato più volte, anche durante il regime fascista, dall’editore Laterza (1939; 1947; 1953) con prefazione di Benedetto Croce, e nel 1939 uscì negli USA in prima edizione inglese; a fine guerra, in Italia dopo la nascita della Repubblica democratica già a partire dagli anni ’50 e ’60 Norberto Bobbio (1909-2004) contribuì molto a riaprire il dibattito su Mosca, l’elitismo e la questione della “classe politica” (*I.bis), peraltro sollecitato appunto anche dalla ricezione e mediazione statunitense poiché, come ha ben documentato in tempi più recenti Mario Grynszpan, “c’est aux États-Unis que l’élitisme a conquis son droit de citoyenneté dans la science politique contemporaine”, è negli Stati Uniti che l’elitismo ha conquistato il suo diritto di cittadinanza nella scienza politica contemporanea.

[*II.bis. Ai Lincei Bobbio dedicò il discorso inaugurale dell’anno accademico 1959-60 a “Gaetano Mosca e la scienza politica”; la questione delle élites fu dibattuta al IV Congresso internazionale di sociologia (Milano-Stresa, 8-15 settembre 1959; gli Atti furono editi in 4 voll. da Laterza, 1959-1964) e un paio d’anni dopo sulla rivista trimestrale della Banca Nazionale del Lavoro Bobbio pubblicò lo studio Gaetano Mosca e la teoria della classe politica (“Moneta e credito”, n. 57, marzo 1962, pp. 3-22), uscito subito come estratto anche in inglese e tedesco; nel 1966 curò, inoltre, per Laterza il volume Gaetano Mosca, La classe politica, con numerose ristampe nei decenni successivi, fino ad arrivare all’ultima che risale al 1994. Gli studi di Norberto Bobbio su Mosca e Pareto sono raccolti nel suo libro Saggi sulla scienza politica in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2005 (II ed.).]

III. Gaetano Mosca, The Ruling Class, New York-London, McGraw-Hill Book Company Inc., 1939. La traduzione di Hannah D. Kahn era stata revisionata dal curatore dell’edizione, Arthur Livingston (1883-1944), il quale nel 1935 aveva già pubblicato – stesso editore, in 4 volumi con il titolo di The Mind and Society – anche il Trattato di sociologia generale di Vilfredo Pareto (Firenze, Barbera, 1916; 1923). Livingston nella sua Introduzione al libro ricordava che “This translation edition of the Elements of Mosca was planned in 1923 as part of an enterprise for making the monuments of Italian Machiavellian thought available to English-speaking scholars”; ritardata per via della crisi economica del ’29, usciva comunque in un periodo in cui era in corso una delle ricorrenti contrapposizioni Mosca / Pareto: “we find ourselves confronted today with polemics which are echoes of polemics of thirty years ago; and there is already a line of Italian or Italo-American writers who, somewhat tardily to tell the truth, discover Mosca in order to diminish Pareto, while there are again a few who disparage Mosca for the greater glory of Pareto” (p. XXXIV, Introduction, IX. Mosca and Pareto).

IV. “Nothing appears more surprizing to those, who consider human affairs with a philosophical eye, than the easiness with which the many are governed by the few; and the implicit submission, with which men resign their own sentiments and passions to those of their rulers. When we enquire by what means this wonder is effected, we shall find, that, as Force is always on the side of the governed, the governors have nothing to support them but opinion. It is therefore, on opinion only that government is founded; and this maxim extends to the most despotic and most military governments, as well as to the most free and most popular” (1741, Of the First Principles of Government, in David Hume (1711-1776), Essays – Moral, Political, and Literary, a cura di T. H. Green e T. H. Grose, London: Longmans, Green and Co., 1889, vol. I, pp. 109-110).

V. Domanda antica, e in fondo polisemica, come e perché accada sempre che nonostante il mutare dei regimi “the many are governed by the few” è, come si sa, la questione rimasta al centro di tutta la riflessione politologica di Gaetano Mosca (1858-1941) e che lo porterà a formulare la sua teoria della “classe politica” alla quale, come riassumeva Norberto Bobbio nel 1962, lo studioso “rimase fedele tutta la vita: la enunciò nella prima opera d’impegno scritta a ventisei anni, Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare (1884); vi diede più completa elaborazione nell’opera della maturità, gli Elementi di scienza politica (1896); la corresse e integrò nella Parte seconda, aggiunta agli Elementi nella seconda edizione (1923); ne espose una rapida ed efficace sintesi nell’ultima opera conclusiva, la Storia delle dottrine politiche (1937)”.

VI. Secondo Gaetano Mosca, «[…] Les sociétés humaines sont fondées sur des types sociaux qui tendent vers des formes politiques déterminées. C’est ce que l’auteur appelle la formule politique. Il entend par là la base juridique et morale sur laquelle, dans toute société, est fondé le pouvoir de la classe politique dominante. Et voici maintenant le point essentiel, qui va dominer tout le reste. Dans toute société, il y a une classe qui organise l’ensemble du corps social, lui donne sa forme, lui impose une discipline, modèle et dirige la politique. Cette classe est toujours une minorité. Mais cette minorité organisée, disciplinée et intelligente impose ses volontés à la majorité ignorante, fluide et inerte. La prospérité de la société tout entière dépend de la solidité et de l’équilibre de cette classe. Si elle vient à défaillir, elle peut entraîner tout le reste dans sa ruine.
Cette classe peut prendre, suivant le milieu ou le moment, des apparences très différentes. L’auteur distingue deux types d’organismes politiques: le type féodal, dans lequel une aristocratie fortement attachée au sol préside au fonctionnement d’un régime politique très primitif et très décentralisé, et le type bureaucratique, dans lequel un corps de fonctionnaires soigneusement hiérarchisés administre un État centralisé. La transition de l’un à l’autre type est marquée par une série de nuances multiples. L’État bureaucratique parfait est un absolutisme que les siècles passés ont bien connu, mais depuis longtemps déjà cet absolutisme a fait place, dans les pays civilisés, à un régime plus complexe et plus policé, sous l’influence de ce que l’auteur appelle la «défense juridique».
Il entend par là les moyens, de plus en plus nombreux et perfectionnés, dont les classes élevées ont su se servir dans les États modernes pour tenir en respect l’absolutisme. Grâce à eux, la classe dirigeante n’est plus constituée seulement par un personnel administratif dévoué au prince, mais par tous ceux qui sont parvenus à une condition sociale qui leur permet de jouer un rôle politique. C’est de cet équilibre des influences qu’est sorti le Parlementarisme moderne.
M. Mosca juge ce dernier avec sévérité. Il l’a vu fonctionner de près. Il lui trouve de très grands défauts : omnipotence de l’Assemblée populaire, fiction trompeuse de la représentation nationale, le député n’étant point élu par la majorité, mais choisi par une minorité, collusion des fonctionnaires et des élus, gouvernement de parti au profit du petit nombre et aux dépens des intérêts généraux les plus pressants. Nous retrouvons ici des critiques que nous connaissons bien, qui ont été déjà cent fois faites chez nous, et qui sont intéressantes surtout par leur véhémence et leur exacte conformité avec ce que nous savions déjà. […]» [Maurice Caudel (1871-1950), Un philosophe politique italien: Gaetano Mosca. In: « Revue des sciences politiques », a. XXXVIII, 1923. Vedi più sopra *I.bis]

VII. Qualche riferimento di prima lettura tra i più facilmente consultabili:

Norberto Bobbio, Gaetano Mosca e la teoria della classe politica. In: “Moneta e credito” (rivista trimestrale della Banca Nazionale del Lavoro), n. 57, marzo 1962, pp. 3-22 (online, lettura libera)

Giorgio Sola, “Elites, teoria delle”. Voce in: Enciclopedia delle scienze sociali (Treccani, 1993) (online, lettura libera)

Mario Grynszpan (trad. Marie Hautbergue), « La théorie des élites aux États-Unis: conditions sociales de réception et d’appropriation ». In: Genèses, 37, 1999. Sciences du politique. pp. 27-43. doi : 10.3406/genes.1999.1593 (online, lettura libera)

Robertino Ghiringhelli, « La représentation politique dans la crise de l’État libéral : Mosca et Pareto ». In: Le concept de représentation dans la pensée politique. Aix-en-Provence : Presses universitaires d’Aix-Marseille, 2003, pp. 361-370 (online, lettura libera: <http://books.openedition.org/puam/187>).

Claudio Martinelli, L’organizzazione del potere nel pensiero di Gaetano Mosca. In: «Journal of Constitutional History / Giornale di Storia Costituzionale», n. 17, 2009, pp. 177-205 (online, lettura libera)

Claudio Martinelli, Gaetano Mosca’s Political Theories: a Key to Interpret the Dynamics of the Power. In: «Italian Journal Of Public Law», 1/2009, pp. 1-44 (online, lettura libera)

Claudio Martinelli, “Gaetano Mosca”. In: Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Politica (Treccani, 2013) (online, lettura libera)

Pierpaolo Portinaro, “Gaetano Mosca”. In: Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (Treccani, 2012) (online, lettura libera)