Errico Malatesta: L’individualismo nell’anarchismo (2)

ERRICO MALATESTA – Dicemmo nel numero passato che l’armonismo – la fede in una legge naturale in forza della quale tutte le cose s’accomoderebbero da loro stesse per il meglio – stava in fondo delle idee degli individualisti, e solo poteva conciliare il loro desiderio caldo e sincero del bene di tutti col loro ideale di una società in cui ciascuno godesse libertà assoluta senza bisogno di stringer patti e di venire a transazione con gli altri.

A dir vero, un fondo di armonismo, o come potrebbe altrimenti dirsi, fatalismo ottimista, lo si ritrova in quasi tutti gli anarchici e forse in tutti socialisti moderni delle più diverse scuole. Ciò dipende da varie ed opposte cause: un po’ la sopravvivenza delle Idee religiose secondo le quali il mondo era stato creato ed ordinato per il bene degli uomini; un po’ l’influenza degli economisti che tentarono di giustificare con una pretesa armonia di interessi i privilegi della borghesia; un po’ il favore quasi esclusivo in cui eran venute le scienze naturali; e poi il desiderio di far le cose belle e facili a scopo di propaganda, e la comodità di saltare a piè pari le difficoltà senza darsi la pena di affrontarle e risolverle. E gli individualisti non hanno che la colpa, o il merito, di aver tirate le conseguenze logiche dell’errore di tutti.

Ma l’avere errato più o meno tutti non è una ragione per perseverare nell’errore. La cosiddetta armonia che esiste nella natura non significa che questo: se un fatto esiste, vuol dire che si sono verificate le condizioni necessarie e sufficienti alla sua esistenza.

Ma la natura non ha finalità o, in tutti i casi, non ha le finalità umane: per essa la morte, i dolori, le stragi degli esseri vivi sono indifferenti o possono essere elementi della sua “armonia”. Il fatto che il gatto mangia il topo è un fatto naturale o quindi perfettamente in armonia coll’ordine cosmico; ma se potessimo interrogare i topi, troveremmo forse che quest’armonia è per loro eccessivamente stonata.

È legge naturale che gli esseri vivi debbono nutrirsi e che quindi il numero e la forza del viventi è limitata dalla quantità di alimenti adatti per ciascuna specie; ma la natura mantiene il limite, indifferentemente, colle stragi, le morti di fame, le degenerazioni, E gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito.

Carlo Fourier, per dire di quanto la natura è superiore all’arte si serve di un curioso paragone divenuto classico a forza di esser ripetuto. “Mettete in un vaso tanti sassolini di vario colore, agitateli, poi versateli sopra un tavolo ed avrete una combinazione di colori cosi bella che nessun pittore sarebbe riuscito a trovarla”. E può anche darsi… Ma una madonna del Tiziano non l’avrete di certo: non avrete quello che vorreste voi, fosse anche una cosa brutta: e questo è l’essenziale.

La verità è che questa legge misteriosa per la quale la natura, provvidenza benefica, dovrebbe accomodar le cose a grado degli uomini, è un assurdo che è contraddetto da tutti i fatti e non resiste un momento all’esame. Si può ancora concepire il fatalismo, per quanto esso contraddica a tutti i moventi che ci fanno agire; ma il fatalismo ottimista, un fato intelligente che si sia preoccupato della felicita delle generazioni umane, è una cosa addirittura inconcepibile!

E perché mai questa legge di armonia avrebbe aspettato tante miriadi di secoli, per entrare poi in azione proprio quando noi avremo proclamata l’anarchia?

Lo Stato e la Proprietà individuale sono certamente la causa oggi del più gravi antagonismi sociali; ma quelle istituzioni non possono essere state prodotte,da una miracolosa sospensione delle leggi di natura, e bisogna che sieno l’effetto di antagonismi preesistenti. Distrutte, si riprodurrebbero se gli uomini non provvedessero a comporre altrimenti quei conflitti che già le produssero una volta.

E conflitti di interessi e di passioni esistono ed esisteranno sempre; poiché, anche se si potessero eliminare quelli esistenti, al punto da conseguire l’accordo automatico fra gli nomini, altri se ne presenterebbero ad ogni nuova idea che germogliasse in un cervello umano. Infatti, come mai si può immaginare che al prodursi in un uomo di un nuovo desiderio, i cervelli degli altri nomini abbiano a modificarsi immediatamente ed in modo da disporli ad accogliere favorevolmente quel desiderio? Come credere che ogni nuova idea sia subito accolta da tutti? E saran poi giuste tutte le idee nuove? Spropositi non se ne faranno più? Oppure ai immagina che l’ambiente diventerà talmente uniforme da sopprimere ogni differenza iniziale fra gli uomini e far sì che tutti si svilupperanno sincronicamente con matematica eguaglianza?

E ancora, bisognerebbe sempre che questa uniformità di morte fosse l’opera voluta degli uomini, poiché la natura abbandonata a sé stessa produce sempre nuove varietà!

Non bisogna contentarsi di vane parole. Quando si dice che “la libertà dell’uno non trova il limite ma il complemento nella libertà degli altri” si esprime in forma affermativa un ideale sublime, il più perfetto forse che possa assegnarsi all’evoluzione sociale: ma se si intende affermare un fatto positivo, attuale, o che sarebbe attuato col solo distruggere le istituzioni presenti, si scambia semplicemente la realtà obbiettiva con le concezioni ideali del nostro cervello. Lasciando da parte l’oppressione che sopportiamo come proletari e come governati, quante mai cose avremmo voglia di fare, e non le facciamo per non dispiacere o non incomodare gli altri! Possiamo astenerci volontariamente ed anche trovare del piacere nel sacrificarci alla comunità; ma saremmo più contenti se gli altri avessero gusti e bisogni diversi che ci permettessero di fare quelle che vorremmo far noi: e ciò prova che la nostra libertà molte e molte volte trova bene un limite nella libertà degli altri.

E non intendiamo parlare soltanto di “gusti e fantasie” rispettabili certo, ma secondari. I conflitti si producono naturalmente anche nella soddisfazione dei bisogni essenziali, e spetta agli uomini di eliminarli o comporli per il maggior bene di tutti. Uno può aver voglia o bisogno di mangiare un cibo che non si può avere se non privandone un altro, di occupare un posto che è già occupato da un altro, ecc., ecc. Si potrà provvedere perché ogni specie di cibo possa esser messa a disposizione di tutti, perché ognuno trovi da accomodarsi, ma bisogna provvedere.

Dire che naturalmente, senza patti, si produrrà proprio quella roba che è desiderata ed i luoghi si troveranno pronti come uno li desidera, significa prepararci disillusioni terribili: significa in pratica rinunziare a fare, e quindi mettersi in posizione da dover subire quello che faranno gli altri.

Così è del lavoro in genere. Si dice che tutti lavoreranno perché il lavoro è esercizio igienico, e bisogno organico di esplicate le proprie facoltà: ed è vero. Ma quello che non è vero si è che questo bisogno di esercizio corrisponderà esattamente al bisogno di prodotti che hanno gli uomini, e si adatterà spontaneamente alle condizioni imposte dallo strumento di produzione. Se ognuno fosse convinto che facendo quel che meglio gli aggrada, fa tutto quello che deve perché tutto andrà bene lo stesso, certamente molti lavori necessari non sarebbero fatti perché non aggradano a nessuno, e molti altri non si potrebbero fare perché per farli è necessario che un certo numero di uomini si accordino e rispettino gli accordi presi.

È vero che la terra può nutrire abbondantemente i suoi abitanti e che il lavoro può organizzarsi in modo che sia un piacere, o, alla peggio, un lieve sforzo che tutti farebbero volentieri: ma bisogna organizzarlo. Credere che, lavorando ognuno a caso, quando gli pare, come gli pare, senza tener conto di quello che fanno gli altri e senza coordinare e subordinare l’attività propria a quella collettiva, si debba poi trovare che alla fin dell’anno si è prodotto tanto grano e tante macchine, tante scarpe e tanti carciofi quanti ne occorrono per soddisfare ai desideri di tutti… è come rimettersi nelle mani di Dio.

In conclusione: l’uomo ha bisogno di vivere in società e per vivervi ha bisogno di accordarsi con gli altri e cooperare con loro. O questa cooperazione sarà raggiunta volontariamente, per liberi patti, e sarà a vantaggio di tutti; o sarà raggiunta per forza, per l’imposizione di alcuni, e sarà sfruttata a profitto particolare di coloro che l’avranno imposta.

La cooperazione libera, volontaria, a beneficio di tutti e l’Anarchia; la cooperazione forzata, a beneficio principale di certe date classi è il regime autoritario.

Ancora dell’individualismo, nel numero unico de “L’Agitatore” di Ancona, 25 aprile 1897. Per la nota al testo vedi il precedente «Errico Malatesta: L’individualismo nell’anarchismo (1)»