David Hume, Amor proprio e dignità umana

collezione di spade antiche

FABRIZIO PINNA – I.1. Scrivendo l’Avvertenza introduttiva alla raccolta di alcuni suoi “Essays, Moral and Political” (1741-42, 1777), Hume tenne fin dalla prima edizione a sottolineare che «Il lettore non deve cercare nessuna connessione tra questi saggi ma deve considerare ognuno di essi come un lavoro a parte»: «Questa è un’indulgenza — diceva — che è concessa a tutti i saggisti; e, forse, questo discontinuo metodo di scrittura è di uguale sollievo per l’autore e il lettore, liberando entrambi da ogni tedioso prolungamento dell’attenzione e applicazione» (1).

In realtà — com’è noto dall’ormai sterminata bibliografia critica sul filosofo scozzese e, soprattutto, come è naturale che sia così per ogni scrittore — sono molte le connessioni, con alcune discordanze, che si possono trovare tra i vari testi di David Hume. Ma, messe da parte le questioni esegetiche e filologiche, qui la citazione viene ripresa a modo di sfacciata captatio benevolentiae e come autorizzazione d’autore, per così dire, a giustificazione della scelta — all’apparenza antologicamente estemporanea — di proporre ai lettori, in traduzione e in lingua originale, solo alcuni dei suoi saggi e scritti che comunque, pur richiamandosi tra loro, conservano, appunto, indubbiamente una loro sicura autonomia (2).


«I cannot but consider myself as a kind of resident or ambassador from the dominions of learning to those of conversation: and shall think it my constant duty to promote a good correspondence betwist these two states, which have so great a dependence on each other» (David Hume, Of Essay-Writing, 1742)

Al centro dei due testi “esemplari” tradotti, sono la natura umana e l’etica, intese qui come valore e fondamento laico della società, dei rapporti tra gli uomini (e gli animali) e della convivenza civile, in un senso ormai molto distante dalle suggestioni teologiche e platonizzanti, non solo cristiane, ancora tipiche della trattatistica rinascimentale (3) e spesso riproposte, aggiornate o travestite, fino ai giorni nostri attraverso più o meno sofisticate speculazioni propugnate da molta metafisica (religiosa), teologia, teosofia e antroposofia. Insomma, semplificando un po’, i saggi di Hume aprono gli orizzonti di un’antropologia filosofica — già prima di Darwin, che del resto apprezzò il suo pensiero — pienamente naturalistica e modernamente scientifica (4). Infatti, come non molti anni fa era ancora costretto a ribadire Eugenio Lecaldano (5) (1991), «Con Hume entra in crisi un modo tradizionale — tutt’ora duro a morire — di considerare l’ordine tra i diversi rami del sapere. […] La ricostruzione della natura umana fatta da Hume non comporta il privilegiamento di una parte che è fondante rispetto alle altre. La filosofia di Hume è del tutto estranea al quadro tradizionale — ripreso nel nostro secolo dalle filosofie idealistiche, spiritualistiche, materialistiche e scientistiche — che considera ontologia, gnoseologia e logica come primarie e fondanti rispetto al resto della filosofia e in particolare rispetto all’etica. Per Hume, come si è visto, è casomai la “scienza dell’uomo” nel suo complesso che fonda le diverse discipline ed applicazioni ed in questa scienza dell’uomo rientrano paritariamente l’analisi dell’intelletto, delle passioni e della morale».

Ad ogni modo, ritornando più direttamente all’epoca di Hume e al suo saggio, tutt’altro che scolastico, Of the Dignity or Meanness of Human Nature (1741), ciò che più di tanti lunghi discorsi può rendere meglio evidente oggi al lettore la difficoltà, anche psicologica, di affrontare con mente davvero libera questo tòpos della meditazione filosofica, lo si trova espresso limpidamente in una lettera privata scritta nel 1775 da uno dei suoi primi intransigenti “critici”, il filosofo (religioso), anch’egli scozzese, Thomas Reid: «Io detesto tutti i sistemi che svalutano la natura umana. Se è un’illusione l’esistenza di qualcosa nella costituzione dell’uomo che sia venerabile e degna del suo autore, lasciatemi vivere e morire in tale illusione, piuttosto che farmi aprire gli occhi per vedere la mia specie in una luce umiliante e disgustosa. Ogni brava persona sente la sua indignazione levarsi contro coloro che screditano i suoi parenti o la sua patria; perché non dovrebbe levarsi anche contro coloro che disprezzano la sua specie?» (6).


I.2. Le ormai classiche argomentazioni di Hume non presentano, a un qualsiasi lettore attento, particolari asperità insormontabili, ma qualche ulteriore annotazione di chiarimento è però forse necessaria per L’Amore di Sé, scritto che — con il titolo Of Self-love — apparve come Appendice II a una delle sue opere maggiori, An Enquiry concerning the Principles of Morals (1751). “Amor proprio” è uno dei concetti il cui significato — grosso modo a partire dal XVI secolo, con l’avvio della rivoluzione scientifica (7)— andrà via via ridefinendosi in senso eticamente neutro rispetto alle tradizionali censure religiose, sganciando l’antropologia e la psicologia (8) da miti e dogmi teologici irriflessi o sottratti, quasi manu militari, alla critica pubblica (9). Come ha recentemente ricordato Barbara Carnevali (10), “A Hobbes [1588-1679] si attribuisce, giustamente, la prima problematizzazione moderna del problema sociale: non stupisce che la sua antropologia sia anche il più importante laboratorio di filosofia del riconoscimento prima di Rousseau. Ne è centro la definizione della glory, l’insaziabile pretesa di superiorità sulle altre coscienze o desiderio di eccellenza riconosciuta. […] L’influenza di queste idee sul pensiero successivo è stata profonda. Grazie alla popolare traduzione francese (1649) del Cittadino, da parte di Samuel Sorbiére — che rendeva la nozione di glory con il termine amour-propre —, la psicologia hobbesiana si innesta su quella agostiniana: il desiderio di essere considerati e ammirati, che a sua volta è il sintomo del conato individuale all’autoaffermazione, diventa il cardine della disincantata antropologia moralistica, acquisendo una fenomenologia sempre più sottile e raffinata”.

Con più di un equivoco, la tradizione francese si andrà poi intrecciando anche nel secolo successivo con quella britannica e la filosofia scozzese del “moral sense”. Com’è noto, nel Settecento è a Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) che si deve una delle più accolte — ancora oggi — distinzioni tra amour-propre e amour de soi (11), mentre Hume (1711-1776), contemporaneamente, insisterà invece molto sulla non riducibilità dei comportamenti al solo self-love (equivalente all’amour-propre) e selfishness (egoism) fissando — contra Hobbes e ondeggiando intorno al concetto di self-liking elaborato dal medico e filosofo olandese Bernard de Mandeville (1670-1733) — uno dei cardini della “virtù sociale” nella benevolence, un sentimento di benevolenza originario e distinto proprio sia della natura umana sia di quella di altri animali (con qualche variazione, nel tempo, intorno al concetto di sympathy, rispetto a quanto aveva scritto in A Treatise of Human Nature, 1738/1740).

Del resto, alcuni di questi slittamenti e sovrapposizioni semantiche generatrici di molti equivoci li notava lo stesso Hume, il quale in una nota al saggio Su alcune dispute verbali (1751: Of some Verbal Disputes, che in inglese si può leggere qui integralmente tra i testi inclusi in Appendice), oltre a rilevare nei discorsi una tipica confusione fra talenti/difetti e virtù/vizi, scriveva: «Il termine orgoglio è comunemente preso con accezione negativa (in a bad sense), ma questo sentimento sembra indifferente e può essere buono o cattivo, a seconda che sia bene o male fondato, e a seconda di altre circostanze che lo accompagnano. Il francese esprime questo sentimento con il termine amour propre, ma siccome con lo stesso termine esprimono anche l’amore di sé (self-love) così come la vanità, nasce per questo una gran confusione in Rochefoucault e in molti dei loro scrittori di morale» (12).


Limitandosi solo ancora a qualche accenno, va comunque ricordato che ulteriori complicazioni nel Settecento nascono anche per la sovrapposizione operata tra amor proprio e interesse personale nei decenni in cui l’economia politica iniziava a definirsi come ambito autonomo di ricerca, continuando però a mantenere il suo vincolo con l’etica laica (13).

Si vanno così delineando in senso moderno alcune coppie concettuali rimaste costanti e dibattute sino ai giorni nostri, quali interesse / disinteressealtruismo / egoismoindividuo / società, e altre simili parziali, vere o presunte, antinomie. In un complicato intreccio di rimandi, a volte un po’ confuso, da autore ad autore molte delle ambiguità terminologiche — e, soprattutto, concettuali — finiranno poi nell’Ottocento per dare origine anche all’infinita querelle sull’individualismo, talvolta ridotto arbitrariamente a sinonimo di egoismo, come in molta polemica politica sia laico/collettivista sia religiosa tradizionalista, dogmatica e/o reazionaria stile Ancien Régime, che peraltro prosegue ancora oggi, a volte mascherata — intenzionalmente e consapevolmente oppure no, il risultato non cambia — per opera di alcuni ideologi del cosiddetto comunitarismo.

È questo, grosso modo, il contesto in cui si inserisce il saggio di Hume L’Amore di Sé, che dunque ha continuato e continua a conservare la sua vitalità e forza argomentativa. Fabrizio Pinna, 10 novembre 2015

**Questo scritto – comprese le note/digressioni successive – ripropone senza variazioni una premessa ad un piccolo omaggio bilingue a Hume (1711-1776) pubblicato qualche anno fa come e-Book (D. H., L’Amore di Sé. Dignità o miseria della natura umana?, Pieffe Edizioni 2015 | ISBN 978-88-99508-04-3). effe

Note

1 “The Reader must not look for any Connexion among these Essays, but must consider each of them as a Work apart. This is an Indulgence that is given to all Essay-Writers; and, perhaps, such a desultory Method of Writing, is an equal Ease both to Author and Reader, by freeing them from any tiresome Stretch of Attention and Application” (Advertisement, 1742).

2 Per chi legge anche in inglese, in Appendice, oltre ai testi originali dei saggi qui tradotti, si sono aggiunti alcuni altri scritti significativi di Hume.

3 Superfluo il richiamo al celebre scritto di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), Oratio de hominis dignitate (1486); per un sintetico sguardo d’insieme: Charles Trinkaus, Renaissance Idea of the Dignity of Man, in «Dictionary of the History of Ideas» (a cura di Philip P. Wiener, 1973-74), vol IV, pp. 136-147 (URL:http://xtf.lib.virginia.edu/xtf/view?docId=DicHist/uvaGenText/tei/DicHist4.xml ) e i saggi in Eugenio Garin (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1988 (I ed., più volte ristampato).

4 In realtà l’antropologia, non meno di tutte le altre cosiddette scienze umane (o sociali), ha vissuto e vive ancora oggi di cicliche crisi di identità; come alcuni lettori ricorderanno, a riaprire il dibattito è stato, di recente, il filosofo e antropologo Philippe Descola (Par-delà nature et culture, Paris, Gallimard, 2005; Id., Diversité des natures, diversité des cultures, Paris, Bayard, 2010; Id., L’écologie des autres. L’anthropologie et la question de la nature, Paris, Éditions Quae, 2011; alcuni suoi libri sono stati tradotti anche in italiano, il primo con molto ritardo solo nel 2014. E si veda anche: Héran François, Vers une sociologie des relations avec la nature, in «Revue française de sociologie», 4/2007, Vol. 48, p. 795-806 – URL: www.cairn.info/revue-francaise-de-sociologie-12007-4-page-795.htm). In Italia hanno affrontato la questione Roberto Marchesini e Sabrina Tonutti, Manuale di zooantropologia, Roma, Meltemi, 2007 e Alessandro Lutri, Alberto Acerbi, Sabrina Tonutti, «Umano troppo umano». Riflessione sull’opposizione natura/cultura in antropologia, Firenze, Seid, 2010. Per un riepilogo dei dibattiti precedenti si può leggere online Francesco Remotti,Natura e cultura, in «Enciclopedia delle scienze sociali» (Treccani, 1996):http://www.treccani.it/enciclopedia/natura-e-cultura_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali)/. È invece merito di uno studioso italiano avere riaperto il dibattito su un altro interrogativo cruciale: Francesco Ferretti, Alle origini del linguaggio umano. Il punto di vista evoluzionistico, Roma-Bari, Laterza, 2010; Francesco Ferretti – Ines Adornetti, Dalla comunicazione al linguaggio. Scimmie, ominidi e umani in una prospettiva darwiniana, Milano, Mondadori Università, 2012; Francesco Ferretti – Ines Adornetti (a cura di), Origin and Evolution of Language, numero speciale di «Humana.Mente – Journal of Philosophical Studies», Vol. 27, 2014 (in riproduzione digitale: http://www.humanamente.eu/index.php/HM/issue/view/27); Francesco Ferretti, La facoltà di linguaggio. Determinanti biologiche e variabilità culturale, Roma, Carocci, 2015. Sulla psicologia, cfr. invece le note 7 e 8.

5 Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1991, cit. pp. 50-51. Per altri riferimenti, cfr. più avanti la “Nota bibliografica: una mappa degli studi”.

6 Cito la lettera di Thomas Reid (1710-1796), indirizzata al suo amico lord Kames, nella traduzione che si trova nel bel libro di Chiara Giuntini, La chimica della mente. Associazione di idee e scienza della natura umana da Locke a Spencer, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 140-141.

7 Dal XVI e XVII secolo alla Repubblica delle Lettere inizia ad affiancarsi la Repubblica della Scienza e, dalla fine del ‘600, con le critiche all’antropocentrismo si andò peraltro «lentamente formando [anche] un’immagine “lucreziana” dell’universo che costituirà per almeno un secolo (fino al barone d’Holbach e oltre) la grande alternativa al deismo e all’immagine del mondo costruita da Newton e dai newtoniani. […] Era nata un’immagine nuova della natura e del posto dell’uomo nella natura. Essa, così come la nozione di un universo infinito, poteva essere variamente utilizzata: poteva servire come fondamento alla religiosità profonda di Pascal come al determinismo dei grandi materialisti del Settecento» (Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 184-185). Fu un intricato processo lungo di secoli e, per evitare anacronismi, vale forse la pena ricordare che ancora «all’inizio del XVII sec. non esisteva una categoria intellettuale che corrispondesse esattamente a quella cui oggi si dà il nome di scienza» (Daniel Garber, La Rivoluzione scientifica. Introduzione, in «Storia della Scienza» (Treccani, 2002): http://www.treccani.it/enciclopedia/la-rivoluzione-scientifica-introduzione_(Storia-della-Scienza)/. Della psicologia si dirà più oltre, nella nota 8, ma sulla sua complessa e lenta emancipazione dalla filosofia è emblematico il fatto che ancora nel 1902 un articolo dall’eloquente titolo “L’attuale conflitto della scienza e della filosofia nella psicologia” si aprisse con questa constatazione: «Che cosa è la psicologia? Qual è, esattamente, l’oggetto proprio del suo studio? A questa domanda è oggi molto difficile rispondere. La psicologia, in effetti, se non tale come la concepiscono perlomeno come la trattano gli autori contemporanei, attraversa un periodo di crisi: essa non è più una scienza filosofica; essa non è ancora una scienza positiva» («Qu’est-ce que la psychologie? Quel est, au juste, l’objet propre de son étude? A cette question, il est aujurd’hui très difficile de répondre. La psychologie, en effet, sinon telle que la conçoivent du moins telle que la traitent les auteurs contemporains, traverse une période de crise: elle n’est plus une science philosophique; elle n’est pas encore une science positive», J. Chazottes, Le conflit actuel de la science et de la philosophie dans la psychologie, in «Revue Philosophique», LIV, luglio-dicembre 1902, pp. 249-259).

8 Dell’antropologia si è brevemente detto nella nota 4, ma — trascurando il caso simile della sociologia per non finire ulteriormente a divagare de omni re scibili et quibusdam aliis — è d’obbligo almeno qualche indicazione meno cursoria sulla psicologia, oltre ai cenni della nota 7. Per evitare l’egocentrismo generazionale che spesso tende ad eclissare, si passi l’espressione, la continuità delle discontinuità, per il lungo periodo vale in generale quanto ricordato da Paolo Rossi (1923-2012): «L’uomo di scienza attraversa alla fine del Settecento una vera e propria “crisi di identità”» che «non avrà certo termine con la fine del Settecento. Si riproporrà con forza ancora maggiore nelle mutate situazioni storiche dei secoli successivi» (p. XI, Prefazione a Vincenzo Ferrone – Paolo Rossi, Lo scienziato nell’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994). Senza ritornare a quanto scritto da Vilfredo Pareto (1848-1923) nel suo grande Trattato di sociologia generale (1916) o alla giustamente celebre conferenza di Max Weber (1864-1920) La scienza come professione (1917), si può almeno osservare che molti dei nodi segnalati ormai quasi mezzo secolo fa da Jean Piaget (1896-1980) in Le scienze dell’uomo (1970; I ed. in italiano: Roma-Bari, Laterza, 1973) non hanno ancora mai trovato soddisfacenti soluzioni che possano considerarsi “stabili” anche solo in senso storicamente blando, tanto che le (fin troppe) teorie proposte non sono in grado di reggere nemmeno poche decine d’anni. Circoscrivendo il discorso all’attuale “crisi” della psicologia, disciplina che attiene più da vicino alcune questioni affrontate da Hume anche nei saggi qui proposti, a semplice titolo indicativo si possono vedere: Luciano Mecacci, Psicologia moderna e postmoderna, Roma-Bari, Laterza, 1999; Id., Fondamenti di psicologia, Roma-Bari, Laterza, 2010; Id., Psicologia, psichiatria e psicoanalisi, in «Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Scienze», (Treccani, 2013): http://www.treccani.it/enciclopedia/psichiatria-e-psicoanalisi-psicologia_(Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Scienze)/. Cfr. inoltre Riccardo Luccio, Dall’anima alla mente. Breve storia della psicologia, Roma-Bari, Laterza, 2014, secondo il quale a partire dalla metà del Novecento si sarebbe addirittura «imposto il pensiero unico del cognitivismo», oggi però insidiato dalla «nuova svolta, dettata dai progressi delle neuroscienze, con un’esasperata spinta verso la localizzazione dei processi cognitivi, specie a livello neurologico (e si è parlato di “nuova frenologia”), ma anche a livello corporeo e ambientale».

Premesso che della vexata quaestio del riduzionismo, sia in generale sia in particolare per la psicologia alle neuroscienze, si discute in realtà da decenni (dava un dettagliato resoconto aggiornato dei problemi già trent’anni fa William Bechtel in Filosofia della scienza e scienza cognitiva, 1988: I ed. italiana nella traduzione di Massimo Marraffa: Roma-Bari, Laterza, 1995), contra quest’ultima visione di Riccardo Luccio eccessivamente banalizzante e caricaturale delle ricerche in corso, si può vedere Georg Northoff – Marina Farinelli – Rabih Chattat – Franco Baldoni (a cura di), La plasticità del Sé. Un approccio neuropsicodinamico, Bologna, Il Mulino, 2014. Del resto, esiste da alcuni anni una più che attiva Società Italiana di Neuropsicologia, fondata nel 1998, che terrà il suo Congresso annuale a Padova giusto a fine novembre (SINP: http://www.sinp-web.org/); il dibattito scientifico è, insomma, molto aperto e, se non altro, rispetto a una sorta di viscerale pamphlet precedente (2009) che stigmatizzava una presunta “neuro-mania” dilagante, oggi hanno meglio raffinato e argomentato le loro critiche anche Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, Perché abbiamo bisogno dell’anima. Cervello e dualismo mente-corpo, Bologna, Il Mulino, 2014. Non semplice “documento” contingente, conserva ancora molti argomenti di riflessione anche Giovanni Jervis (1933-2009), Presenza e identità. L’io e la sua centralità tra conoscenza scientifica, riflessione filosofica e psicologia, Milano, Garzanti, 1984 (II ed., più volte ristampato), mentre da un punto di vista più strettamente filosofico, oltre agli studi di Laudisa e altri citati più avanti nella “Nota bibliografica: una mappa degli studi”, cfr. John Searle (n. 1932), Seeing Things as They Are. A Theory of Perception, Oxford University Press, 2015, quasi una summa della sua cinquantennale riflessione filosofica [per chi ama le etichette e le battaglieculturali, Searle è stato incluso tra i “nuovi realisti”: cfr. Mario De Caro – Maurizio Ferraris (a cura di), Bentornata realtà: il nuovo realismo in discussione, Torino, Einaudi, 2012; esiste anche un “sito ufficiale della rassegna nuovo realismo – progetto del LabOnt – Laboratorio di Ontologia – dell’Università degli Studi di Torino”: https://nuovorealismo.wordpress.com/].

9 In Gianni Paganini e Edoardo Tortarolo (a cura di), Illuminismo. Un vademecum, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, il saggio di Fabienne Brugère e Antony McKenna, “Amor proprio e virtù sociale” (pp. 19-32) sinteticamente riassume questo punto nei dibattiti filosofici del tempo (anche se trascura Hume).

10 “Società e riconoscimento”, ivi, pp. 278-292; cit. a p. 287 e 288.

11 Cfr. i saggi nel volume a cura di Giulio M. Chiodi – Vittorio Gatti, La filosofia politica di Rousseau, Milano, F. Angeli, 2012. In questo senso è significativo che uno dei più stimati filosofi spagnoli contemporanei, Fernando Savater, abbia fatto dell’amor proprio uno dei cardini della sua meditazione teoretica, riprendendo l’assunto sin dal titolo di un suo fortunato libro: Ética como amor proprio (I ed. 1988, con varie ristampe successive; nel 1994 fu tradotto anche in italiano per Laterza).

12 «The term, pride, is commonly taken in a bad sense; but this sentiment seems indifferent, and may be good or bad, according as it is well or ill founded, and according to the other circumstances which accompany it. The French express this sentiment by the term, amour propre, but as they also express self-love as well as vanity, by the same term, there arises thence a great confusion in Rochefoucault, and many of their moral writers».

13 Cfr. Albert Schatz, L’individualisme économique et sociale. Ses origines, son évolution, ses formes contemporaines, Paris, Armand Colin, 1907; Pierre Force, Self-Interest before Adam Smith. A Genealogy of Economic Science, Cambridge University Press, 2003; pregevoli anche il numero monograficoRationalité et émotions: un examen critique della «Revue européenne des sciences sociales», XLVII-144 | 2009 – URL: http://ress.revues.org/56 e Amy M. Schmitter (2010), 17th and 18th Century Theories of Emotions, in «Stanford Encyclopedia of Philosophy»: http://plato.stanford.edu/entries/emotions-17th18th/