PIETRO VERRI — Pensieri sullo spirito della letteratura d’Italia. Le idee e le opinioni degli uomini si cangiano con maggiore velocità di quello che non si cangino le lingue; forse perché ogni mutazione di un segno esteriore compare una real mutazione agli occhi d’ognuno; laddove le successioni delle diverse idee ed opinioni, facendosi per gradi insensibili, non vengono conosciute che da quei pochi pensatori sparsi nella massa del genere umano, i quali constituiscono una minima porzione della nostra specie. Sono più secoli dacché si usano le voci uomo dotto e uomo filosofo, e quasi in ogni secolo queste voci hanno rappresentato cose diverse, ed opposte talvolta l’una all’altra.
Al rinascimento delle lettere in Italia, mentre i Medici accolsero i Greci rifugiati dopo la presa di Costantinopoli, eragran filosofo colui il quale aveva letto Platone e che sapeva ridirne a mente alcuna definizione, avesse ella o non avesse significato. Chiunque sapeva leggere allora qualche pezzo dell’Iliade o dell’Ulissea, era un uomo dotto; chi poi giungeva a scrivere qualche servile imitazione di que’ antichi originali era dottissimo e talora divino per pubblica acclamazione. La poesia era allora sovranamente onorata in Italia, e ciò doveva fisicamente accadere per la singolare sensibilità che abbiamo all’armonia e per la vivacità della immaginazione, più popolare in Italia che forse in altra parte d’Europa, qualità entrambi immediatamente dipendenti, anzi che dall’educazione, dal grado di latitudine sotto cui siamo riposti. Un uomo dotto nel secolo decimo quinto doveva intendere il greco ed il latino; doveva credere agl’influssi delle stelle, e formarsene un sistema con cui predire gli avvenimenti, e dare la spiegazione de’ fenomeni. Tutte le idee chimeriche della magia contribuivano pure alla composizione dell’uomo dotto. Era poi onorato col titolo di filosofo allora colui che sapeva ben a mente le categorie d’Aristotele, che sapeva disputare sull’universale a parte rei, sulle quiddità, sul blictri e su altre sì fatte gravissime innezie e deliri dell’umana debolezza, la quale, gonfia di tante barbare parole, con ispido sopracciglio e con sucida dimenticanza della persona cercava di carpire dal volgo i suffragi ed acquistarsi un dispotico impero sulle menti degli uomini.
A queste opinioni altre ne successero nel secolo decimo sesto, e fu allora che tutti quasi gl’Italiani capaci di coltivar le lettere si slanciarono disperatamente o nel platonico mare dei sonetti e delle canzoni amorose, ovvero nello studio della grammatica italiana e della latina eloquenza. Non v’è quasi terra in Italia in cui non si sia composto un canzoniere, e non si siano lodate le trecce bionde di madonna, l’angelico viso o il castissimo e soavissimo sguardo di lei. Romanzi in ottava rima pieni di stregheria, di palagi incantanti, di cavalli volanti, di cavalieri che con una lancia scompigliavano un intero esercito, cose tutte in somma seducenti all’immaginazione, ma nemiche giurate del buon senso, piovettero allora da ogni parte; frattanto che i freddissimi e numerosi pedanti coniugando, declinando, compassando ogni frase, ogni parola, ogni periodo costringevano gl’ingegni a sacrificar la cura delle cose per quella dei segni che le rappresentano, ed a limitarsi a quelle idee sole che potevano esporsi con que’ torni di frase delle quali permettevano che si facesse uso. Uomo dotto significò dunque allora un’altra cosa, cioè significò un uomo che sapeva scrivere all’occasione una lettera o orazione latina con una lingua che chiamavano del secol d’oro, e che per lo più altro non recava all’animo che un armonioso suono di ben disposte voci. Vero è che alcuni osarono scrivere da uomini pensatori anche in que’ tempi; ma furono essi appunto i meno riputati, e taluni atrocemente esposti alle persecuzioni de’ loro contemporanei, per tal modo che anche al dì d’oggi non è possibile prudentemente il rendere l’onore che si vorrebbe al loro nome; né alcuni pochissimi in un secolo sono quelli da’ quali debba la storia prendere l’indole e la fisonomia, dirò così, d’un secolo intero.
Uomo filosofo fu anche in que’ tempi quasi lo stesso che nel secolo precedente, se non che le scoperte che s’erano poco prima fatte sul globo che abitiamo, la navigazione resa più industriosa e più ardita eccitava in alcuni delle idee della storia naturale, della figura della terra, delle osservazioni celesti, e con esse alcune elementari idee della geometria. Venne sul fine di questo secolo il gran Galileo, l’onore della patria nostra, il gran precursore di Newton, quello di cui sarà glorioso il nome insin che gli uomini conserveranno l’usanza di pensare, quello perfine le di cui sventure saranno una macchia ed un obbrobrio eterno per il secolo in cui visse. Scosse egli il primo il giogo di quella scienza di vocaboli che tiranneggiava le menti degli uomini, e che senza né amare né cercare il vero ammantavasi del titolo di filosofia. Egli additò non solo, ma percorse gran parte di quella strada, che è la sola per cui le limitate facoltà degli uomini possono giungere a contemplare qualche parte degli arcani di natura. Il sistema planetario, le leggi della gravità, quelle de’ fluidi, la teoria della resistenza de’ solidi, una serie di verità geometriche, le leggi del moto, la perfezione degli stromenti ottici, l’arte d’interrogar la natura con una industriosa sperienza, sono tutti doni che da quella grand’anima furono o interamente o in parte fatti non dirò all’Italia od al suo secolo, ma all’uman genere ed alla posterità più rimota. Ma iSimplicii, ch’egli introduce ne’ suoi dialoghi erano tanti a’ suoi tempi, e tale era la possanza di essi, che per una quasi universale sedizione le luminose vie di questo grand’uomo furono dichiarate assurde, e pochi e paurosamente celati furono quelli che seguirono l’additato sentiero.
Nel secolo decimo settimo poi gl’Italiani, costanti alle parole e pur troppo sino all’ora trascuranti le idee, dopo avere per due secoli coniugate, declinate, e poste in tondi armoniosi giri le parole, passarono a riporre ogni loro attenzione principalmente sulla loro combinazione e sulla corrispondenza d’una coll’altra; da qui ne nacquero gl’infiniti freddurai che provavano che la donna è un danno, la moglie un maglio, la sposa una spesa; ed in que’ tempi si applaudiva a quei versi famosi:
Mi sferza e sforza ognor lo amaro amore
A servire, a servare a infida fede;
Miei danni donna cruda non mi crede,
Mi fere e fura, e di cure empie il core.
Lima chi l’ama, e chi la mira more;
Vuol ch’oltre agli altri vada chi non vede
Per merto a morte, e con un chiodo chiede
Darla a me, ch’ell’amò qual fiera un fiore.
E questa mecanica e puerile occupazione dilatò il suo impero per modo d’imbrattare la poesia non solo, ma le più gravi orazioni e politiche e sacre, le familiari lettere degli amici, e persino ogni socievole conversazione dove si volesse far pompa di non volgare talento. Allora gli acrostici, i bistici, gli equivoci, gli anagrammi diedero una gotica forma alla letteratura d’Italia; allora gl’Italiani capaci di qualche coltura si divisero in accademie, le quali si attribuirono le più strane divise, e ciascuno degli accademici volle diventare confratello de’ cavalli da maneggio, e come il Leggiadro galoppa, lo Spiritoso raddoppia, l’Ardente corvetta, l’Agile fa il passo-salto, il Superbo passeggia, così un altro Leggiadro recitava sonetti, un altro Spiritoso era eccellente nelle sestine, un altro Ardente si distingueva nelle terze rime, un altro Agile era professore di ottave, un altro Superbo faceva anacreontiche da far languire di dolcezza. Il titolo d’un letterato mediocremente conosciuto occupava una buona mezza pagina, cioè il signor Tal de’ Tali, fra gl’Indotti il Sottile, fra gli Affamati il Disinvolto, fra gli Spensierati l’Ottuso, e così avanti in infinito quante erano le patenti d’accademia che facevano il corredo delle lettere di que’ tempi; fanciullaggini che seriamente prendevansi da taluni, ma che erano l’oggetto della compassione dei pochi uomini veramente illuminati, e della disistima in cui le lettere d’Italia allora vennero tenute dall’estere nazioni.
S’introdusse poscia poco a poco lo spirito della filosofia nell’Europa; il gran Lord Verulam aveva eccitati gl’Inglesi a scuotere il giogo; l’immortale Galileo nella nostra Italia non minore spinta aveva data agl’ingegni; il primo aveva fatto il disegno, l’altro in parte aveva innalzato l’edificio. Comparve alla fine Des-Cartes, sublime e benemerito genio, di cui gli errori stessi sono degni di venerazione, tanto è l’ingegno e l’industria che dovunque trovansi nelle opere sue. Poco anch’egli fu felice nella sua patria, né potrebbe la Francia liberarsi dalla macchia d’aver lasciato profugo e inonorato morire fra i ghiacci di Svezia quest’illustre ristoratore della filosofia, se le generazioni che vennero dappoi non avessero cercato con ogni sforzo di riparare la vergognosa dimenticanza de’ loro antenati. Le vite de’ grand’uomini nati in secoli o fra nazioni incolte sono composte d’una successione di sventure: l’invidia, la gelosia, la cabala, la malignità, la detrazione, tutte gli attaccano da mille parti; ma gli scritti loro rimangono, e i germi di luminosa verità col tempo si schiudono, sinché comunicandosi per tradizione d’uno in un altro il loro genio, cresce il numero degli uomini illuminati, e cresce a segno di sforzar gl’ignoranti ostinati al silenzio, e di riparare con una fama tarda sì, ma sicura, ai torti che in prima furono fatti al merito.
Così avvenne de’ scritti di quest’uomini nati per l’ammaestramento degli altri: nuovo aspetto prese la filosofia in tutta l’Europa, e sebbene il numero delle verità che in questo cambiamento si scopersero non sia molto vasto, il metodo di ragionare che s’introdusse fu la cagione de’ scoprimenti che si fecero dappoi e che si vanno facendo tuttavia. Si sostituirono allora, a dir vero, nuovi errori ai vecchi; ma gli errori vecchi avevano per base l’antica autorità, che più si avvanza e più cresce; e i nuovi errori avevano per base la ragione, la quale col proseguire ad esercitarsi li discopre. Ostinatissima guerra fecero le scuole a questo nuovo genere di filosofare, ma la ragione finalmente la vinse, e allora si chiamò filosofo un uomo il quale credeva di spiegare tutt’i fenomeni dell’universo coi soli due principii di materia e di moto. Si credette allora co’ vortici di aver trovata la cagione de’ moti de’ corpi celesti, colla materia sottile di spiegar la cagione della gravità, dell’ago magnetico e della luce; non restò un solo angolo delle cose naturali che un filosofo allora non credesse d’intendere e di potere altrui spiegare.
Verso que’ tempi medesimi altra idea si unì colle parole uomo dotto, e di tale ebbe il nome colui che molto fosse versato nella cronologia, nelle medaglie, nelle cronache, nelle pergamene antiche e nelle iscrizioni; e allora ad illustrare una lampade sepolcrale, ad illustrare un piedestallo, un tripode, una patera o simile oggetto si spesero anni e lustri, e si pubblicarono grossi tomi, i quali certamente non contribuirono molto all’avvanzamento delle cognizioni umane o alla gloria della patria nostra.
Ai dì nostri non può negarsi che molto non siasi migliorata la condizione degl’ingegni e nell’Italia e in tutta l’Europa. Il gran Newton ha svelato dimostrativamente il sistema nostro planetario; egli ha fatto conoscere una nuova forza, compagna indivisibile della materia, per cui reciprocamente s’attrae; egli ha scomposta la luce ne’ suoi principii, e ne ha dimostrate le proprietà; egli in somma ha aggiunto alla ragione, che Des-Cartes aveva già portata nella filosofia, l’analisi, sua fida scorta, per cui va ogni giorno più dilatando la sfera delle umane cognizioni. Cosicché al giorno d’oggi filosofo è colui che fa precedere l’esame all’opinione, che pesa gli oggetti indipendentemente dal sentimento altrui. Se a questo filosofo domandi cosa è materia, egli dubita di non aver dati per definirla, ed è tanto cauto nel determinarsi quanto erano corrivi a farlo quei che chiamavansi filosofi cinquant’anni sono.
Io qui non so contenermi che non faccia una breve, ma importante uscita dal mio soggetto, e sia per coloro i quali malignamente abusando del nome sacro di filosofo, credono di dimostrarsi tali manifestando non curanza e talvolta persino discredito delle più sublimi verità rivelatrici dell’Eterna Sapienza, verità le quali sono d’un primo ordine superiore ad ogni altra classe di cose, verità le quali vuole il dovere, l’interesse e la ragione egualmente che sieno da noi venerate. So che un sì grave argomento dev’essere trattato con quella maestà ch’io non so darvi, e che non si comporta colla natura d’un ameno foglio periodico, di cui lo scopo è soltanto di fomentare la curiosità per la lettura e indicare qua e là alcune verità del second’ordine; pure è bene avvertir di passaggio que’ tali, se ve ne sono, ch’essi col loro modo di parlare danno una prova di essere lontani dalla filosofia, cioè dall’amor del sapere, più assai di quello che non lo sia un perfetto ignorante, poiché un errore, ed un errore fondamentale quale è questo, è una quantità negativa del sapere. Chiunque poi ad ogni nuova proposizione, per sana ed ingenua ch’ella sia, cerca di trovarvi una nascosta incredulità, e proccura di denigrare il buon nome degli uomini illuminati con falso zelo di pietà e con una vera e reale invidia che lo rode nel fondo del cuore, quegli non è certamente né filosofo, né buon cristiano, né uomo d’onore.
Ma ritorniamo sulla strada, ed osserviamo che il titolo di uomo dotto realmente costa al dì d’oggi assai più di quello che non lo costava per l’addietro; onde la maggior parte di coloro che l’ottennero ne’ tempi trascorsi molto dovrebbero sudare ai dì nostri per ottenerlo di nuovo. Lo spirito filosofico s’è dilatato oltre i confini della fisica, egli regge ed anima l’eloquenza, la poesia, la storia, le bell’arti tutte in somma; il cuore umano ed i principii della sensibilità sono alfine più conosciuti di quello che in prima non lo erano, ed il senso della maggior parte degli Europei è reso molto più squisito e dilicato di quello che da lungo tempo non lo sia stato giammai.
Nell’Italia nostra però vi sono tuttavia gli aristotelici delle lettere, come vi furono della filosofia, e sono quei tenaci adoratori delle parole, i quali fissano tutti i loro sguardi sul conio d’una moneta, senza mai valutare la bontà intrinseca del metallo; e corron dietro, e preferiscono nel loro commercio un pezzo d’inutile rame ben improntato e liscio a un pezzo d’oro perfettissimo di cui l’impronto sia fatto con minor cura. Immergeteli in un mare di parole, sebben anche elleno non v’annunzino che idee inutili o volgarissime; ma sieno le parole ad una ad una trascelte e tutte insieme armoniosamente collocate ne’ loro periodi, sono essi al colmo della loro gioia. Mostrate loro una catena ben tessuta di ragionamenti utili, nuovi, ingegnosi, grandi ancora: se una voce, se un vocabolo, una sconciatura risuona al loro piccolissimo organo, ve la ributtano come cosa degna di nulla. Sono que’ tali come quel raccoglitore dei libri, il quale gli sceglieva sulla eleganza della rilegatura, rare volte osservandone il titolo, non che l’opera; e così preferiva le opere del celebre Gomez rilegate in vitello alla storia del presidente du Thou legata in pergamena.
Questi inesorabili parolai sono il più forte ostacolo che incontrano anche al dì d’oggi in Italia i talenti che sarebbero dalla natura altronde felicemente disposti per le lettere; essi co’ loro rigidi precetti impiccoliscono ed estinguono il genio de’ giovani nell’età appunto più atta a svilupparsi; essi colle eterne loro dicerie intimoriscono talmente i loro disgraziati alunni, che in vece di sollevarsi con un felice ardimento, scrivendo a quell’altezza a cui giunger possono le loro forze, con mano tremante servilmente si piegano alla scrupolosa imitazione di chi fa testo di lingua; e quel pittore, il quale nelle prime opere sue, se fosse stato libero, avrebbe prodotte molte bellezze e alcuni difetti, per migliorare poi sempre colla propria sperienza, s’agghiaccia colla pedanteria dell’imbecille e venerato suo maestro, e per troppo temere i difetti, non produce più né difetti né bellezze proprie, ma oscure e dispregevoli copie non mai capaci di dar un nome all’autore.
Questa disgrazia dell’Italia è provenuta, cred’io, da ciò che nell’Italia, quasi appena dopo il risorgimento delle lettere, si pretese di aver fissata la lingua, e si pretese di più di averla fissata con confini sì immobili che la lingua italiana della scrittura avrebbe dovuto avere tutta la rigidezza delle lingue morte, perdendo quel naturale tornio e quella pieghevolezza all’idee di ciascuno scrittore che forma il primario genio delle lingue vive. Io non pretendo già che debba esser lecito ad un pulito e colto scrittore il far uso di que’ vocaboli che sono talmente municipali d’una parte d’Italia, sì che nell’universale lingua italiana non sieno conosciuti; io non pretendo neppure che un pulito e colto scrittore ignori la grammatica della lingua in cui scrive, e macchi i suoi discorsi con frequenti errori o barbarismi; nemmeno pretendo che sia lodevole un perfetto libertinaggio di lingua, introducendo senza ragione ne’ scritti delle frasi o de’ modi di dire ignobili o forestieri al genio della lingua; io dico bensì che il merito della lingua è un puro merito secondario, ch’egli è un puro abbellimento del discorso; né può essere mai risguardato come un merito primario, se non se da coloro i quali non sanno far uso della miglior parte dell’uomo. Dico di più, che quando si sono voluti stabilire per cardini della lingua i Giambullari, i Capponi, i Montemagni, i Firenzuola, i Borghini, i Rossi, i Monaldi, i Cavalcanti, i Gelli, i Fazi degli Uberti, i Sacchetti, i Marignolli, i Cinoni, i Bronzini, gli Stradini e sì fatti oscurissimi scrittori, de’ quali l’Europa colta non legge neppur un solo, allora dico che s’è preteso di fare una risoluzione alquanto immatura, e che la lingua non si potrà mai chiamare stabilita sodamente insino a tanto che vari e vari valentuomini non l’abbiano piegata alle diverse loro idee, e resa versatile e maneggevole a ben dipingere e rappresentare tutt’i diversi oggetti che possono affacciarsi alla immaginazione d’un uomo superiore al volgo. Non credo di far torto a quei che non nomino, nominando due scrittori che abbiamo per sventura dell’Italia perduti, cioè il signor dottore Antonio Cocchi ed il signor conte Francesco Algarotti, i quali con diverso stile bensì, ma con un medesimo spirito di filosofia hanno arricchita la nostra lingua colle loro opere, e ci hanno lasciati libri pieni di idee grandi e nobili, adornate da uno stile che le rende ancor più leggiadre. Allor quando la nostra Italia in vari generi ne avrà prodotti altri ancora di simili, allora i nostri posteri avran ragione di vantarsi che la loro lingua abbia ricevuta una stabile forma.
Quando Orazio, l’incomparabile Orazio, onorava la lingua di Roma co’ suoi versi immortali, una turba di pedanti fremeva contro il nuovo autore, ed erano appunto costoro quella greggia servile d’imitatori che ad Orazio tanto sovente movevano ora il riso, ora la noia. Lo storico Livio accusavano essi di padovaneggiare nel suo stile; in ogni paese, al cominciare che fece il buon secolo, s’incontrarono tali ostacoli, ove più ed ove meno; e il gran Cornelio, il gran Moliere, che fecero ammirare le produzioni dell’ingegno umano sul teatro, innalzate forse al dissopra di quanto gli uomini avevan mai veduto prima d’essi, il gran Cornelio, il gran Moliere, essi pure hanno sparsi nelle loro opere dei difetti, o vogliam dire degli errori di lingua, né perciò son essi meno illustri o nella loro patria, o dovunque vi sia senso per la tragedia o per la commedia.
Un’altra cosa pure fa molto torto alla letteratura d’Italia, ed è il modo con cui fra gli scrittori si trattano le dispute letterarie. Chiunque osa scrivere dovrebbe mostrarsi uomo d’un ingegno e d’una coltura al dissopra del comune livello degli uomini; il mestiere d’un autore è d’illuminare la moltitudine, di comunicargli co’ suoi scritti le utili verità, di rendere gli uomini più saggi, più felici e più virtuosi, tre cose le quali realmente sono una cosa sola. Quale stima o quale deferenza dovranno avere gli uomini comuni per le lettere, se chi s’intrude in questa nobile professione la avvilisce con canaglieschi modi, e coll’usare delle più basse e facchinesche ingiurie, le quali appena meritano scusa qualora se ne ascolti uscire il suono da una bettola ripiena d’ubbriachi? Eppure cotesto è un vizio nostro ereditato; e dal tempo del Castelvetro a questa parte, rare volte son passati dieci anni in Italia senza che siasi dato alla ciurma de’ lettori l’obbrobrioso spettacolo di due, che usurpandosi il luminoso carattere di letterati, si prendono villanamente l’un l’altro pe’ capelli, e si rimescolano nel fango fralle fischiate e gli urli e lo schiammazzo d’un ozioso gregge d’insensati partigiani. Nell’Inghilterra, la parte che qui fanno cotali disonori delle lettere la fanno i galli, ed a quegli animali conviene assai più che non ad uomini il pungersi e lacerarsi l’un l’altro per divertimento degli spettatori.
Non mancarono a due insigni nostri letterati, al signor Lodovico Antonio Muratori ed al signor marchese Scipione Maffei, di simili scrittori frenetici, i quali se gli avventarono colle più vili e plebee contumelie, ma que’ geni superiori non interruppero per ciò il placido e maestoso corso della loro carriera, né vollero mai far l’onore ad una schiatta d’uomini tanto da loro distante di discendere e far rientrare quegl’insetti nella pozzanghera d’onde pretendevano alzarsi; gli uomini di lettere non farebbero mai nulla di grande, se si lasciassero distorre da’ loro oggetti ad ogni ragghio che ascoltano.
Quando però la disputa sia una urbana e pacifica ricerca della verità, la quale s’eserciti in modo da non far nascere cattiva opinione o della morale o della educazione di chi la sostiene; se il soggetto di essa è degno d’essere rischiarato, allora la disputa diventa una parte rispettabile della letteratura e contribuisce al progresso delle cognizioni degli uomini. Il signor La Motte così trattò la disputa con madama Dacier, ed il monarca autore del Philosophe bienfaisant così disputò col cittadino di Genevra. Il signor d’Alembert, nella disputa sul teatro, ha sostenuta pure la sua causa con quella nobile decenza che era degna di lui. La contumelia e il fiele scolastico sono uno sfogo di que’ sventurati scrittori i quali risvegliano alla mente la favola del serpente che rosica la lima. L’uomo di merito non odia che il vizio, disprezza i vili e compassiona quegli infelici, i quali amareggiati nel fondo del cuore per la non curanza in cui vengono tenuti, non hanno la forza di celare ne’ loro scritti il crudele sentimento che gli avvelena.
Da queste due cancrene, cioè dalla pedanteria de’ parolai e dalla scurrilità de’ spaventacchi dell’infima letteratura, sembra che a grandi passi vada liberandosi la nostra Italia: ogni giorno più va diminuendo il numero de’ loro fautori, e gli estremi loro sforzi sono una prova che lo spirito filosofico va facendo progressi grandi sulle ingiuste loro possessioni. A misura che saranno discreditati questi nemici degl’ingegni, l’Italia andrà distinguendosi fra le nazioni colte, e per poco che il Cielo le conceda pacifici giorni, tornerà forse un’altra volta a far rivolgere verso di lei lo sguardo ammiratore dell’Europa.
***Titolo originale: “Pensieri sullo spirito della letteratura d’Italia”. Questo divertente e impietoso saggio “militante” che misura angustie, vezzi e malcostumi coltivati e cresciuti nell’hortus conclusus delle lettere italiane fino all’Illuminismo, fu pubblicato da Pietro Verri nel suo “Il Caffè” (1764). Mettendo da parte il ritratto moraleggiante dell’honnête homme di lettere sognato da Verri, quanto ai “caratteri nazionali” tipici delle dispute è facile a tutti intuire – fuori dalla letteratura – dove trovarne ancora oggi più di una traccia. Per i curiosi: la poesia citata da Verri è un “Bisticcio” del drammaturgo e verseggiatore Luigi Groto (1541-1585). effe