Ugo Ojetti: Noi giornalisti

UGO OJETTI – Non dimentico mai, caro Luigi Lodi, d’avere avuto la fortuna d’incontrare lei, al primo principio della mia vita di scrittore; né dimentico la cordiale fiducia con cui ella accolse nella Nuova Rassegna i miei scritti, e i consigli che mi dette, e l’ospitalità in quelle stanze agli Uffici del Vicario dove nel tardo pomeriggio o dopo il teatro si raccoglieva il meglio delle lettere d’allora e, dal vicino Montecitorio, quei pochi del Parlamento i quali stimavano o mostravano di stimare anche i giornalisti che non scrivevano di politica; e allora, in una parentesi tra il Don Chisciotte e il Giorno, anche lei, direttore della Nuova Rassegna, poco se ne occupava. Non dico che da parte nostra, vecchi e giovani, la stima di quei parlamentari fosse sempre ricambiata, ma anche negli epigrammi la forma era salva.

Adesso, leggendo il suo libro Giornalisti [Roma-Bari: Laterza, 1930], pel quale una sola critica le farei, d’averci dipinto tutti con troppa benevolenza, quei tempi mi sono tornati così vivi alla memoria che mi sembra, finché il libro mi sta aperto davanti agli occhi, di ringiovanire. Carducci, D’Annunzio, Martini, Pascarella, Yorick, Turco, Vassallo, Vamba, Boutet, Carletta e, da Napoli, Matilde Serao, Scarfoglio, Di Giacomo, Bracco e, da Milano, Giacosa, Praga, Rovetta e, da Bologna, Panzacchi e Guerrini; lasciando ultimi Febea e Morello soltanto per dire che non mi so dar pace a vederli, sani e vegeti come sono, chiusi nel silenzio: tutti sono passati allora per quelle stanze e sono adesso affettuosamente ricordati in queste sue pagine. Ad aver tempo scriverei nei margini, accanto ai ricordi e ai giudizi suoi, i giudizi e ricordi miei. Ma non sono ancora arrivato al placido distacco che è il premio della sua età, e non vedrei, a cominciare da me stesso, tutto in roseo come ella vede.

Cominciavo allora a collaborare alla Tribuna. Seguii Vincenzo Morello quando fondò il Giornale. Tornai con lui quando ella creò il Giorno e vi iniziai una rubrica intitolata Cose viste. Ma ormai avevo cominciato a mandare articoli al Corriere della sera, e presto, dopo un anno o due nel nuovo Giornale d’Italia, m’allontanai purtroppo per sempre dal giornalismo romano.

A Roma i giornali lombardi erano ancora, verso il 1895, più stimati che ammirati: giornali di provincia, pensavamo, e imprese industriali prima che fogli vivi, e scritti male, si diceva anche prima di leggerli. Scarfoglio invece e Morello, per non dir dei minori, ci rappresentavano con lei i giornalisti d’assalto e di critica, scintillanti di brio, e di trovate quando erano all’opposizione, svogliati ed opachi appena dovevano difendere un ministro o un ministero; e tutti e tre, anche se condannati all’articolo quotidiano, orgogliosi della propria cultura letteraria, delle proprie amicizie e predilezioni letterarie. Immaginare un articolo loro sulla prima colonna del Corriere della sera era come immaginare la fontana di Piazza Navona, tutta scrosci, brilli e capricci, in piazza della Scala davanti alla compassata fabbrica del Piermarini. Lei poi era, per noi giovani, l’amico devoto di Giosuè Carducci, quello che poteva avvicinarlo quando voleva, che conosceva i piccoli segreti della sua vita, pronto a sposare non solo gli odi di lui ma anche le antipatie. E che ella, taciturno com’è sempre stato, quasi mai ce ne parlasse, questo aumentava il nostro rispetto per quella sua fedeltà. Noi, s’intende, s’era per Gabriele d’Annunzio, ma a dannunzieggiare sui giornali presto ci s’accorse ch’era come indossar la marsina per andare a vogar giù nel Tevere. Così ci si tagliava in due: nelle novelle e nei romanzi, si mirava al D’Annunzio; negli articoli, quando si poteva, al Carducci e, i più cauti, al Martini; insomma, scrittori a fette. Chi mi guarì, fu proprio lei, con una pazienza inesauribile. Quando l’articolo era tutto da rifare, la messaggera era Febea la quale, per merito dei capelli bianchi fin d’allora o incipriati, ci parlava maternamente: Non v’inalberate. Gigi assicura che le stesse cose le potete dire in una colonna invece che in due. La massima del Carducci, adesso tema d’esame anche nei ginnasi, che chi dice in venti parole quel che può dire in dieci, è un uomo capace di male azioni, allora era nuova e, ai nostri stomachi dilatati dagli aggettivi dei dannunziani, indigesta.

«L’anima di lui era sempre affettuosamente aperta alla giovinezza», ella dice del Carducci: ai giovani, s’intende, che possedessero qualche altra qualità oltre quella, involontaria, della giovinezza. Questa dote è stata anche sua, caro Lodi, e a me è venuta da lei, ché i direttori di giornali o di riviste impazienti o sdegnosi davanti ai nomi nuovi mi sembrano simili ai nuovi ricchi che vogliono fabbricarsi in un mese un parco annoso trapiantandovi a qualunque prezzo alberi vecchi: ogni mattina nei filari si trovano un morto e un vuoto.

Ho detto che allora il miglior giornalismo di Roma e di Napoli era d’assalto e di critica. A leggere adesso nel suo libro con quanto poche migliaia di lire si fondava, in due stanze e con due redattori, un giornale, e a pensare al grande foglio in cui ho avuto per tanti anni la fortuna di lavorare al sicuro, m’avvedo che nei loro giornali era ancora un riflesso di quelli del Risorgimento fatti per un uomo o per un’idea e pronti per essi a morire. Certo tanta abnegazione, poiché l’unità era raggiunta e ci si era seduti in Roma, era giù di moda, e la lotta politica ridotta alla gara parlamentare; ma il tono era ancora quello, ché da Crispi a Zanardelli, da Minghetti a Fortis, da Imbriani a Nicotera, molti dei capi superstiti erano usciti dai tempi eroici delle guerre e delle congiure, ancora cogli stessi fulmini e lampi d’ira e d’odio che il giornalismo rifletteva alla meglio.

Ma intanto, proprio in quelli anni stanchi, noi giovani vivendo accanto a loro anziani abbiamo imparato ad avere l’orgoglio e la fede della nostra professione e a non stimare coloro che se ne giovano pei loro fini particolari: questo per diventar deputato o consigliere; quello per aumentare la sua clientela d’avvocato; quell’altro, nella chiusa carriera di professore, per essere temuto dai colleghi e dai superiori. È d’allora la massima che il giornalismo porta a tutto, a patto d’uscirne. No, per noi fu giornalista soltanto lo scrittore capace di anteporre all’interesse proprio, alla propria tranquillità e alla propria rinomanza, la fama e la fortuna del giornale in cui scrive; di amare più di sé stesso i propri lettori; di scrivere per loro, e non per i colleghi; di vivere giorno per giorno, ora per ora, con l’intelligenza, gli occhi, gli orecchi tesi a cogliere l’attimo che passa; di far consistere, se è un cronista, la propria felicità nello scoprire ogni mattina qualche cosa di nuovo e d’inedito, di presentarlo nel modo più rapido e colorito e, davanti a un morto prima di piangere, nel pieno d’una festa prima di divertirsi, capace di pensare a quel che ne dovrà subito scrivere, per fare il giorno dopo piangere o ridere i suoi lettori; capace d’avere ogni giorno, se è un direttore, un’idea migliore di quella del giorno avanti, migliore anche per la semplice ragione che quella di ieri è ormai inutile; se è un critico, ascoltando una commedia, guardando un quadro, leggendo un libro, capace di badare solo ai propri affetti e al proprio giudizio e a quello dei commediografi, dei pittori, degli scrittori, ma anche agli affetti e al giudizio del pubblico attorno a lui, e non solo per correggere o per approvare questo giudizio ma anche per fare la cronaca e la storia del gusto, cronaca e storia ignorate dai critici e dai professori che scrivono solo nei libri; capace infine, se è uno scrittore d’articoli, di far dimenticare ogni giorno l’articolo che ha scritto il giorno prima o la settimana prima, scrivendone un altro più nuovo e più vivo e attuale perché non ha animo di giornalista chi s’affida al suo articolo di ieri. Molti adesso hanno giustamente rivendicato all’articolo di giornale la dignità letteraria: tra i più recenti rivendicatori, e con più diritto di altri, Antonio Baldini. Se ben ricordo, fin, nel Petrarca delle Epistole egli è andato a trovarci un antenato, e ha ragione perché anche lì spesso si tratta dei «fatti del giorno».

Ma il Petrarca si sceglieva gli argomenti; e in questo, almeno in questo, egli non era giornalista, perché al giornalista l’argomento è imposto dalla cronaca, e in un giornale ben fatto nemmeno in «terza pagina» una riga dovrebbe apparire che non fosse legata a un fatto recente e recentissimo, magari a un fatto che il giornale e il giornalista preferirebbero di tacere ai lettori.

Collaboravo già da qualche mese al Corriere della sera quando conobbi Eugenio Torelli Viollier. S’era, credo, nel 1899. Il Torelli era venuto a Roma per convincere Domenico Oliva, deputato al Parlamento e direttore politico del Corriere, a parlare alla Camera contro il disegno di legge del generale Pelloux sulla stampa. L’Oliva per disciplina di partito non acconsentì, e Torelli nominò direttore anche politico del Corriere Luigi Albertini che da più d’un anno era l’anima del giornale. Quel giorno in un salotto del vecchio «Albergo di Roma» a San Carlo al Corso, dai mobili di legno nero coperti di velluto rosso come nelle sale d’aspetto di prima classe, Eugenio Torelli Viollier, adirato per quel rifiuto, s’aprì a me giovane giornalista con un calore che non gli vidi più nei pochi mesi che ancora visse. Egli non riusciva a capire che il direttore d’un grande giornale potesse avere anche la minore ambizione di sedere in Parlamento e la modestia d’ubbidire alle deliberazioni d’un gruppo parlamentare. Non ricordo più come venisse a quest’altro argomento, ma mi ricordo, nel vano d’una finestra, il volto di lui fine e nervoso dentro la barba a ventaglio, e gli occhi scintillanti dietro le lenti:

— Sa lei in che cosa si distingue un grande giornale da un piccolo giornale? La tiratura non conta, l’abbondanza e prontezza dei servizi non contano. È un grande giornale quello soltanto che pubblica anche le notizie che gli fanno dispiacere; è un piccolo giornale quello che le tace. Si fermò si passò la mano nella barba, mi venne più vicino, sorrise:
— S’intende: la notizia che ci dispiace, la si commenta nel modo che più ci piace —.
Per la verità debbo dire che il giornalismo romano di allora, giornalismo tutto di parte, non aveva, caro Lodi, l’abitudine di rispettare sempre quella massima. Mi fermo. Non vorrei, proprio scrivendo a lei per ringraziarla d’un bel libro su noi o sulla nostra professione, far quei commenti in margine ai quali accennavo poc’anzi, a rovesciare su queste pagine i miei ricordi e le mie convinzioni di scrittore di giornali. Se un giorno lo farò, auguro a me stesso d’avere la sua lucida memoria e la sua serenità superiore ormai agli uomini e ai partiti.

Creda al mio memore affetto.
Ugo Ojetti

**da Ugo Ojetti, Venti lettere, Milano: Treves, 1931; la lettera era stata precedentemente pubblicata nel numero del giugno 1930 di «Pegaso», “Rassegna di lettere e arti”, una rivista mensile fondata e diretta dallo stesso Ojetti (Roma: Editore Treves, Treccani & Tuminelli, gennaio 1929 – giugno 1933). Ugo Ojetti (1871-1946), conservatore ma connivente con il regime fascista (e abbondantemente ripagato durante il ventennio con lustrini e cariche nelle maggiori istituzioni culturali dell’epoca), dopo la liberazione di Roma, nel 1944, venne radiato dall’Albo dei giornalisti, il quale del resto – ironia o meno – era stato istituito per la prima volta in Italia proprio all’inizio del regime, nel 1925 [su Ojetti si può leggere online l’aggiornato profilo a cura di Laura Cerasi nel «Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 79» (Treccani, 2013): http://www.treccani.it/enciclopedia/ugo-ojetti_(Dizionario-Biografico)/] (effe)