Sieurac: Stirner e Palante

SIEURAC (J.-P.) — Oggi vorrei fissare in qualche parola le differenze profonde e i punti di somiglianza che esistono fra questi due filosofi e indicare [quali ne sono], secondo me, i motivi.

A mio avviso, il solo e «unico» punto somiglianza, e mai questo termine è stato più appropriato, risiede in questo:

Stirner e Palante sono convinti, l’uno e l’altro, dell’unicità dell’essere, ma mentre in Stirner questa unicità risulta biologicamente da una concezione monadica dell’individuo considerato come una monade, la monade senza finestre di Leibnitz, per Palante, al contrario, l’unicità poggia interamente sulla sensibilità. Per lui, in effetti, l’individualismo è innanzitutto «una posizione del sentimento», un «personale modo di sentire». Secondo lui, e io sono molto del suo avviso, non esistono al mondo due esseri che possiedano la stessa sensibilità.

Ed è qui che per Palante incomincia il dramma; e quando scrivo il dramma, la parola non è eccessiva, perché io lo suppongo alla base – se non totale, perlomeno parziale – della fatale determinazione che ha abbreviato la sua vita. Se Palante «sente» con forza questo carattere unico dell’individuo, egli sente anche con non meno forza la necessità per lui di integrarsi all’ambiente sociale

Ma, così come per Schopenhauer ogni sforzo di pensiero è doloroso, per Palante ogni sforzo di integrazione resta profondamente penoso e la sua sensibilità ne resta dolorosamente ferita. Perché nell’istante in cui prova ad associarsi, la sua sensibilità unicista (unicitaire) si scontra con altri unici, e che sia sul piano puramente sentimentale, professionale, familiare, sociale, o semplicemente amicale, ogni tentativo resta infruttuoso e senza effetto e si traduce in una sofferenza intollerabile.

Paradosso dei paradossi, Palante che ha affermato a differenti riprese con forza che la società non può vivere e svilupparsi se non sbriciolando gli individui, così come questi non possono vivere integralmente se non erodendo progressivamente gli assetti di quello che costituisce l’ordine sociale attuale, Palante, dico, non arriva a fissare la sua scelta, sia nell’integrarvisi a forza, come Stirner, sia nell’adattarvisi. Da questa impotenza, risulta il suo pessimismo.

Stirner, al contrario, rompendo le anguste cornici nelle quali la società tenta di chiuderlo in ogni momento, limitando i diritti dell’ «ego». Stirner prova con tutti i mezzi in suo potere a dispiegare ampiamente la sua personalità.

Forte della sua conoscenza e della sua sola volontà, non si aspetta niente se non da se stesso, e se talvolta si associa, questa associazione è dovuta al fatto che esistono degli ostacoli che Stirner non saprebbe distruggere da solo. Questa associazione resta sempre limitata allo scopo da raggiungere per poi dopo scomparire.

Stirner può dunque dire, a giusta ragione, che egli non ha basato la sua causa su nulla, su nulla al di fuori di se stesso.

Sbagliando Palante nel non aver potuto superare la concezione societaria classica, il suo pensiero è e resta, secondo me, quello che il mio amico, il dr. Estève, un giorno ha designato con una metafora che ha avuto l’approvazione dello stesso Palante, con la quale egli comparava il pensiero palantiano a uno «zampillo d’acqua» (« svelte jet d’eau ») che opponeva alla potente cascata stirneriana. Ecco, secondo me, il segreto del dramma intimo in Palante.

Ricordo di passaggio che Palante è forse, a mia conoscenza, il solo individualista, a parte forse poi gli esistenzialisti, a reclamare per l’individuo il diritto al suicidio. Respingendo tanto la morale religiosa — che, con il fallace pretesto che Dio abbia donato la vita all’uomo, [sostiene che] egli solo ha il diritto di riprendersi quello che gli ha donato —, quanto la morale sociologica di un Durkheim — che, in nome del dovere sociale, interdice il suicidio perché l’individuo distruggendosi «diserta» il suo dovere —. Palante afferma il diritto dell’individuo di disporre della propria esistenza, e ben si sa l’uso che lui stesso ne ha fatto.

Peraltro, ora vorrei esaminare un ultimo aspetto del pensiero palantiano. Palante, che rimprovera a Stirner la sua aridità e la sua mancanza di ideale, va egli ad assimilarsi a quest’ultima forma dell’individualismo moderno che si chiama individualismo spettacolare? Ahimè, neppure.

Egli non può, sempre per la stessa ragione, assimilarsi all’individualismo spettacolare di un Vigny, per esempio, che, altero e sdegnoso, si chiude nella sua torre d’avorio e che, credente e credente sincero, finisce per giungere a quello che Palante chiama «un ateismo morale e sociale», che egli ha esacerbato nella sua magnifica conclusione della bella poesia «Cristo nel Giardino degli Ulivi» del quale non posso impedirmi di riprodurre qui la perorazione:

S’il est vrai qu’au jardin sacré des écritures
Le fils de l’homme ait dit ce qu’on voit rapporté,
Muet, aveugle et sourd aux cris des créatures,
Si le ciel nous laissa tel un monde avorté,
Le juste opposera le dédain à l’absence
Et ne répondra plus que par un froid silence
Au silence éternel de la divinité.

[Se è vero che nel giardino sacro delle scritture / il figlio dell’uomo ha detto quello che si vede riportato / muto cieco e sordo al grido delle creature, / se il cielo ci lascia un tale mondo abortito / il giusto opporrà lo sdegno all’assenza / e non risponderà più che per un freddo silenzio / al silenzio eterno della divinità]

e che trae la conclusione filosofica ne «La Morte del Lupo» nella quale ci propone, dopo questa rinuncia, ad elevarci:

Jusqu’à ce haut degré de sublime fierté
Où naissant dans les bois je suis toujours resté.
Gémir, pleurer, prier est également lâche,
Fais énergiquement ta lourde et rude tâche
Dans la vie où le sort a voulu t’appeler,
Puis après comme moi souffre et meurs sans parler.

[Fino a a questo alto grado di sublime fierezza / dove nascendo nei boschi sono sempre rimasto. / Gemere, piangere, pregare è ugualmente vile / fa energicamente il tuo pesante e rude compito / nella vita dove la sorte ha voluto chiamarti, / poi seguendomi soffre e muore senza parlare]

Non più Palante può praticare l’individualismo spettacolare di un Jules de Gaultier per il quale tutto si risolve in una visione estetica della vita, nella quale lo spettatore si trattiene «sulle rive del divenire, al bordo del fiume dove le barche cariche di maschere e di valori inventati dalla follia di Maia, continuano a discendere le correnti attraverso tutti i rumori della vita».

Ancora meno, infine, egli accede a quest’altra forma di individualismo spettacolare che è quello di Anatole France, con la pietà come sfogo e come arma l’ironia.

Si mescola, ci dice Georges Palante, nel pensiero di Anatole France, troppa dolcezza epicurea per esprimere mai un sentimento di ribellione diretta contro la vita e contro la società. E questo è vero. Si sente in effetti nell’autore di Thais la voluttà di esprimere in frasi graziose e ben costruite, di uno stile raciniano, la pietà e talvolta anche la ribellione che sembrano ispirargli le sofferenze degli umili e l’ingiustizia della società.

Questa pietà si risolve in definitiva in un nichilismo del pensiero e si potrebbe dire di lui, se questo giudizio non sembrasse un po’ troppo brutale, quello che egli stesso ha detto dell’Abate Jerome Coignard, che gli rassomiglia per molti aspetti: «Egli disprezzava gli uomini con tenerezza».

E infine Palante aggiunge: nel pessimista l’ironia è sempre amara. E Palante è terribilmente, spaventosamente pessimista, di un pessimismo che nulla può guarire perché gli viene dalla sua impossibilità di risolvere questa equazione: Individuo e Società.

Per concludere, io credo che si potrebbe, fatta ogni proporzione, applicare a Palante le parole con le quali Han Ryner terminava un magistrale studio consacrato a Tolstoj, apparso una ventina d’anni fa.

Esaminando il pensiero di Tolstoj diceva che esso non riusciva a modellare il pensiero doloroso. Gli faceva maledire le sue catene senza dargli la forza di romperle.

Armonioso e puro, concludeva, il pensiero di Tolstoj (o di Palante) seduce per il suo fascino, ma esso non è come Epiteto o Socrate (e io aggiungo: come il pensiero Stirneriano) una filosofia in azione.

**Traduzione 2017/2018: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati. Testo Francese: Sieurac (J.-P.), « Stirner et Palante », L’Unique, n°11, juin 1946 [online, URL: http://www.la-presse-anarchiste.net/spip.php?article2638]. (*) L’anno precedente Sieurac aveva proposto — in un breve saggio in due parti apparso sempre ne L’Unique (1945 à 1956), rivista fondata da E. Armand a ripresa del suo L’En-dehors (1922-1939) chiuso nel periodo della guerra — una sua rilettura di Stirner: Sieurac (J.-P.), « En relisant Stirner », L’Unique, n° 4, octobre 1945 [online, URL: http://www.la-presse-anarchiste.net/spip.php?article176] e Sieurac (J.-P.), « En relisant Stirner (2) », L’Unique n° 5, novembre 1945 [online, URL: http://www.la-presse-anarchiste.net/spip.php?article323]