Roberto Michels: Su qualche concetto preliminare di classe sociale e di classe politica

Villa Kochmann
Nella foto: part. del dipinto di Ludwig Meidner, Villa Kochmann (Dresda) 1913

ROBERTO MICHELS – La parola borghesia ha molti significati, messi in evidenza da molti autori. Ha: 1° un significato storico: la borghesia come Terzo Stato che comprendeva tutte le classi della società («le peuple»), senza distinzione di ogni particolare livello economico o culturale, con la sola eccezione del clero e della nobiltà. Questo concetto perdura in parte tuttora nei ceti dei titolati, ma solo in parte; perché in bocca dei nobili il termine borghesia non comprende tutto il popolo, ma solo i ceti ricchi non nobili, venuti su cogli affari, colle università e cogli impieghi pubblici (quel che in Francia fu detto anticamente la roture); 2° un significato giuridico: borghesia come insieme dei cittadini di una città, le bourgeois de Paris, oppure l’abitante avente diritto al voto in un cantone svizzero (le bourgeois de Genève); 3° uno sociale: a) borghese è il ricco che vive di rendita ed anche il padrone di mezzi di produzione o di scambio, in antitesi al nullatenente; nei socialisti questo termine assume un significato peggiorativo d’ordine morale, nel senso di ozioso (le bourgeois c’est l’homme oisif [Enfantin]) o di sfruttatore; oppure: b) borghesia come espressione di ceti medi, l’assieme dei piccoli impiegati, negozianti, capi-artigiani; così si parla in Germania di Bürgerkreise, gut bügerliche Küche (cucina casalinga); quel che nella lingua occidentale vien designato piuttosto con le parole petite bourgeoisiepetty bourgeoisie, piccola borghesia. Quest’ultimo concetto implica una contrapposizione alla nobiltà ed alla gente chic in genere, per cui la parola «borghese» equivale talora quasi a «meschino». Dalle fusioni di a) e b) insieme scaturisce ancora un altro significato, quello di c) borghese come espressione di non-valore estetico; gli artisti chiamano borghese il villano rifatto, il cliente ignorantone, ricco ma avaro, e sopratutto di pessimo gusto.

Per classe media intendesi il ceto appunto intermedio per ricchezza, massime i piccoli negozianti e gli artigiani. L’antico criterio discriminatore di questa classe stava nell’esistenza di una, sia pur modesta, indipendenza economica. Tuttavia l’indipendenza di un gran numero di artigiani è diventata al giorno d’oggi fittizia, non lavorando essi più direttamente per il consumatore, ma per il fabbricante o l’intermediario che forniscono loro la materia prima oppure i prodotti semilavorati da rifinire. Oltracciò gli artigiani non sono spesso che rivenditori dei prodotti dati loro in commissione dal fabbricante o dall’intermediario. In alcuni paesi, il vecchio ceto artigianesco va scomparendo, soccombendo le piccole industrie in genere alla concorrenza, capitalistica e tecnica, della grande azienda. Non scompare però il ceto medio, perché è sorta intanto una nuova classe media, avendo la grande industria creato il bisogno di elementi tecnici amministrativi impiegati di fabbrica, la cui condizione economica corrisponde ad un dipresso a quella dell’antico artigianato, pur essendo la loro istruzione di gran lunga superiore.

La classe antitetica alla borghesia sarebbe quella proletaria. Senonché, la classe dei nullatenenti (parola che va intesa naturalmente cum grano salis) si divide in classe operaia o proletaria propriamente detta e suddivisa a sua volta: a) in lavoratori non redditieri (operai salariati) ed in «non redditieri non lavoratori» (Loria), i quali ultimi cioè accidentalmente, per cause contingenti, trovansi tra due periodi di lavoro (i disoccupati), e b) in quell’altra categoria di poveri cui il lavoro ripugna (i mendicanti e vagabondi, leclasses dangereuses del Frégier, o vagrants e hobos americani, il mob inglese, il Lumpenproletariat dei tedeschi, ecc.). Tecnicamente poi, la classe operaia industriale va divisa in operai skilled (qualificati) edunskilled (non qualificati); i primi riconnettentisi, in qualche maniera, agli artigiani, gli altri per lo più immigrati di recente dalla campagna (braccianti), e rimanenti avventizi.

Il casellamento sociale quale scaturisce dalla distribuzione avvenuta del reddito nazionale del lavoro, dimostra, a seconda dei criteri particolari adottati, l’esistenza di una grande varietà di classi, ben classificate, specialmente dagli economisti tedeschi. Sono queste le classi divise per patrimonio (Vermögensklassen); per guadagno professionale, salari, stipendi, gratificazioni, profitti, ecc. (Erwerbsklassen); per introiti indifferenziati, interessi del patrimonio più reddito del lavoro (Einkommensklasse); e quelle le cui gradazioni interessano la finanza pubblica, le classi dei censiti (Steuerklassen). Alla stratificazione di queste classi economiche, corrispondono, approssimativamente, altre classi divise da criteri di convivenza sociale, come le classi professionali (Berufsklassen) o le classi divise per l’altezza dei fitti d’alloggio (Wohnungsklassen) e quelle per grado d’istruzione e di cultura (Bildungsklassen).

È però da notarsi che tutte queste classi presentano infinite gradazioni e sfumature intermedie, e che, quantunque i gradi superiori di ciascuna di esse appartengano alla cosidetta classe abbiente (o borghese nel senso più ampio del termine), esse sono tuttavia per se stanti tra di loro inconfrontabili e incommensurabili. Gli è che la medesimezza di mezzi disponibili non implica affatto una medesimezza di vita vissuta, anche perché vi si oppongono le disparità psicologiche. Il tenor di vita (standard of living) di una persona tirata o anche solo economa varia assai, anche a parità di condizione economica, da quello di uno spendereccio, quello di un malato da quello di una persona sana. Il ceto più elevato degli stipendiati può essere sprovvisto di patrimonio, le più laute entrate potendo venir assorbite dal consumo, in maniera da ostacolare ogni formazione di capitale.

Esempio tipico per la differenziazione del tenor di vita come mero effetto psicologico è fornito  anche dalla composizione della clientela delle varie «classi ferroviarie», la quale non si forma soltanto in base alla naturale ripartizione degli averi, ma anche secondo la varietà dei concetti sociali, per cui a parità di condizioni economiche gli uni, in cui è maggiormente sviluppato l’orgoglio e lo snobismo, vanno in seconda od in prima, gli altri, più portati all’economia o all’avarizia, preferiscono la seconda o la terza. Dimodoché le classi ferroviarie non presentano che una corrispondenza molto imperfetta delle classi sociali.

Né i più forti redditieri appartengono sempre alla classe più alta per cultura; certo, non allorquando essi sono di ricchezza recente (les nouveaux riches, il pescecanismo); e spesso neppure negli altri casi. La definizione empirica adottata dalla C. I. T. I. (Collaboration Internationale des Travailleurs Intellectuels) dice: «Lavoratore intellettuale è colui che trae i mezzi di sussistenza da un lavoro in cui lo sforzo mentale presenta una preponderanza sullo sforzo fisico, con quel che implica di iniziativa e di personalità». Il tipo del lavoratore intellettuale non è però che un solo tipo intellettuale, né è sufficiente come criterio il conseguimento di una laurea o di un diploma, giacché, anche prescindendo dal valore assai vario degli esami sostenuti nei vari paesi, non basta il cumulo di cognizioni per saperne profittare in egual misura. Infatti, gli intellettuali formavano una specie di classe solo nella Russia dell’anteguerra (la «intelligentia»). In genere la categoria degli intellettuali non è contraddistinta da alcuna comunanza di livello eco nomico. Quantunque la maggioranza degli intellettuali appartenga alle classi benestanti o medie, non fa difetto il proletariato intellettuale degli spostati e degli avvocati e medici «sopraprodotti», pronti a capeggiare qualunque partito politico e qualunque rivoluzione. Negli stessi paesi nordici, tra i concorrenti per i posti più umili (come per es. quello del portinaio) trovasi sempre un copioso numero di laureati.

Marx non ha dato una definizione definitiva e attendibile del concetto di classe. Nel terzo volume del Capitale egli ci ha tuttavia fornito un buon frammento di definizione, secondo il quale la classe sociale contiene elementi «d’identità di introiti e di fonti (provenienza) dei medesimi» («Dieselbigkeit der Einkommen und der Einkommensduellen»; Karl Marx, Das Kapital, vol. III, 2, p. 422 della 3° ed. Amburgo, Meissner, 1911). I marxisti, invece, politicizzati e quindi meno fini, su questo punto, del maestro, hanno semplificati i rapporli, assumendo a criterio distintivo del concetto di classe il solo rapporto di proprietà o di indipendenza dei singoli dai mezzi di scambio o di produzione (danaro, macchine, terra, case, ecc.). Di qui la fallace designazione di datori di lavoro e di prestatori di lavoro o salariati. Alla stregua di siffatto criterio andrebbero accomunati in una identica classe i direttori «stipendiati» della nostra più gigantesca impresa industriale e l’umile proletario che presta il suo lavoro nella stessa fabbrica e, d’altra parte, il latifondista e il contadino minuscolo, perché amendue «padroni» del proprio campo. Né il tentativo di dividere le classi sociali in servi e padroni tien conto del fatto che in ceti abbastanza numerosi si riscontrano cicli stagionali di appartenenza alternata a classi diverse. Esempio tipico: il mezzadro emiliano e il piccolo proprietario biellese, obbligati, nel periodo della vendemmia, ad assoldare operai salariati, ma costretti per il rimanente dell’anno a mandare i propri figli nel Novarese per la mondatura del riso, come salariati.

A rigore di logica non è applicabile neppure, come criterio di classe sociale, la formula sostenuta da Carl Menger, per cui l’umanità si divide in due categorie: a) quella vivente di un reddito proveniente dal lavoro di chi lo percepisce (lavoro proprio); b) quella vivente di rendita non proveniente dal lavoro di chi la percepisce (lavoro altrui,arbeitsloses Einkommen); perché se quest’ultima definizione colpisce il capitalista, colpisce altrettanto quel ceto di operai e di piccoli borghesi che posseggono delle azioni di società anonime (la polverizzazione del capitale). «I possessori del capitale di una azienda, attraverso il possesso delle azioni, sono spesso innumerevoli».

Altro criterio, forse più attendibile, per la formazione di una classe sociale è quello della durata a vita (Lebenslänglichkeit). L’inesistenza della possibilità, per l’individuo, di passare da una classe inferiore ad una superiore (o la cessazione della medesima), e, quindi, la coincidenza del principio e del termine della vita entro l’ambito della medesima classe, irrigidisce il concetto di classe e conferisce ai suoi componenti un contenuto psicologico tutto speciale che oscilla tra il fatalismo e la ribellione morale e politica. È questo il caso del proletariato industriale moderno, impossibilitato qual è di assurgere al ceto capitalista. Il tipo del self-made man, frequente agli inizi dell’èra capitalista, può dirsi, dato il dislivello tra il massimo di economie accumulabili col salario e l’ammontare altissimo delle spese d’impianto richieste dalla grande industria bene attrezzata, oggi pressocché estinto.

In America, la facilità della vita economica, la smisuratezza delle risorse completata dalla psicologia della popolazione stessa che, nel suo ottimismo, rifugge dalla pigra rassegnazione, ha creato una immensa fluttuazione nelle professioni ed una estrema facilità di salire o di discendere, a volta a volta, la scala della fortuna. In nessun altro continente il concetto di classe riveste quindi tanta elasticità e così scarsa consistenza psicologica.

Accenneremo ancora ai tentativi fatti per fissare la classe sociale col mezzo della statistica, sia creando un sistema di classi alla stregua della proprietà quantitativa, sia misurando le imprese alla stregua del numero dei salariati impiegati. Così, per dividere per esempio statisticamente le classi rurali in Germania, si è contato che i proprietari di non più di 5 ettari di terreno formano la classe dei piccoli proprietari e contadini; chi possiede tra 5 e 100 ettari appartiene alla proprietà media o dei grossi contadini (Grossbauern), mentre chi possiede di più appartiene al Grossgrundbesitz (grande proprietà fondiaria). Tali distinzioni peccano però di inesatezza, perché l’estensione della proprietà nulla dice sul grado della sua rendibilità economica (cultura, fertilità del suolo, tecnica, metodo ed attrezzamento di lavoro) e quindi sul provento.

Per distinguere le varie classi, vi sono inoltre criteri sociologici. Uno di questi criteri consiste nella nuzialità; la più parte dei matrimoni avviene entro la stessa classe sociale; chi si sposa con persona inferiore al proprio ceto si sclassifica (mésalliance); d’altra parte, il matrimonio costituisce però anche un mezzo potente di fusione tra una vecchia classe ed un nuovo ceto che, cresciuto di ricchezza, sta crescendo di autorità e tende ad immedesimarsi cogli antichi detentori.

Altro criterio è la commensalità; appartengono ad una data classe sociale coloro che prendono i pasti insieme (am Tische scheiden sich die Klassen).

Nella moderna sociologia americana è sorta la cosidetta dottrina distanziale, i cui criteri consistono nell’atteggiamento (behavior) dei ceti di fronte al problema dell’ammissione, o meno, di altre persone nel proprio seno famigliare (nozze), nella propria socievolezza (club), nella vicinanza (casa attigua), nella comunanza statale (concittadinanza) e nella convivenza locale (autorizzazione di residenza).

La complessità estrema del meccanismo sociale della civiltà nostra è andata intricandosi a tal segno da creare spesso una appartenenza simultanea degli individui a diverse classi sociali. Gli è che nell’uomo vari circoli sociali si intersecano (Simmel), non correndo tra i rispettivi livelli delle diverse posizioni gerarchiche contemporaneamente occupate dalla stessa persona in diversi gruppi nessun rapporto necessario d’interdipendenza omogenea; così possono presentarsi delle combinazioni bizzarre, come, a mo’ d’esempio, quella che si verifica nei paesi ove vige il servizio militare obbligatorio, quando una persona che per educazione e per studio appartiene ai ceti superiori è richiamata sotto le armi come soldato semplice, correndo gran rischio di sottostare agli ordini di un caporale socialmente ed intellettualmente a lui inferiore. Havvi pure uno squilibrio tra i valori pecuniari e quelli tradizionali, quale si verifica nei paesi di vecchia struttura aristocratica, ove le persone più danarose, qualora non facciano parte dell’antico ceto nobiliare, si vedono precluso l’accesso ai salotti delle famiglie titolate, anche se sprovviste di mezzi. Da tali e simili appartenenze multiple del singolo scaturiscono degli antagonismi gerarchici, i quali tuttavia, in ultima analisi, tendono sempre verso il pareggio e la fusione.

Sulla classe politica

La classe politica è costituita da una trinità inseparabile, indivisibile, le cui qualità sono logicamente aprioristiche, anche se le quantità dei coefficienti possano alquanto variare, come possono variare quindi e differenziarsi, entro la compagine, le dominanti. Siccome la potenza è volontà, e la volontà tende verso la potenza, della quale l’alta coltura e la ricchezza sono cause, mezzi, e, quanto alla ricchezza, anche effetto. Ond’è che le tre categorie si fondono, tendenzialmente, in una unità conoscitiva, mentre, nella praxis storica, le singole componenti solo di rado si rintracciano come facenti parte di una sola delle tre categorie esclusivamente. Come in tutta la fenomenologia, la prevalenza spetta, anche in questo settore, non ai tipi puri, ma alle sfumature.

Urge ancora un’altra osservazione preliminare. La classe politica non è, come taluni crederebbero, l’assieme dei politicanti, o mestieranti, ché non possono, o potrebbero, essere partecipi di una gerarchia degna di tale nome. Né potrebbe confondersi la classe politica senz’altro colla classe dominante (quantunque spesso ci si serve di questa nomenclatura), se non in un determinato senso; perché la classe dominante non è classe politica che allorquando aspira a continuare di farne parte ed abbia conservato la trina qualità della sua sostanzialità originaria. Cos’è poi della parte politica vinta e allontanata, dai vincitori, dall’esercizio della pubblica cosa? Ha essa cessato di far parte della classe politica? Posto in tal modo il problema, risulta chiara la differenza tra classe politica e classe dominante, perché mentre gli elementi suddetti evidentemente non fanno più parte della classe politicamente dominante, essi possono,sub specie aeternitatis, essere rimasti materia viva, sia pure latente, della classe politica, massime se non si estraniano, nel periodo negativo, della problematica scottante dei loro tempi: giacché possono riacquistare la totalitarietà della loro appartenenza alla classe politica, o per la forza delle armi loro, o delle armi altrui, o (in tema di democrazia) coi suffragi popolari, oppure per ben altre vie: per atti di sottomissione e di adesione tardiva alla classe politica vittoriosa; adesione fatta o per opportunismo, o anche coll’entusiasmo di nuovi lumi intanto acquistati o del riconoscimento delle benemerenze sociali o nazionali dei loro trionfatori.

**Roberto Michels (1876-1936); i testi risalgono al 1936, anno di pubblicazione dei “Nuovi studi sulla classe politica. Saggio sugli spostamenti sociali ed intellettuali del dopoguerra” (Milano-Genova-Roma-Napoli, S. a. ed. Dante Alighieri); qui sono ripresi dal libro Roberto Michels, La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia. Saggi sulla classe politica, a cura di Fabrizio Pinna, Pieffe Edizioni, 2020 [e-book Collana MiniMix, n. 12: ISBN 978-88-99508-23-4; disponibile anche in edizione a stampa nei circuiti di distribuzione Amazon (CLICCA QUI): ISBN 9781659502022]