Poeti romaneschi: Cesare Pascarella

di Dino Mantovani – Basta il nome di Cesare Pascarella a chiamare un PASCARELLA7edxK RIDsorriso sulle labbra della gente, la quale, udendolo, pensa subito a qualche cosa di spiritoso, di bizzarro, di saporitamente comico. E pure non c’è al mondo uomo più serio né artista meno spensierato di lui. Parla con voce bassa e grave; ha la guardatura lenta e assorta; cammina con passo fermo, regolare, di cui nulla vale a turbare il ritmo esatto, con quel passo infaticabile con cui egli traversa mezza Italia per monti e per piani. Il pioppino, la pipetta, lo scialle, che resero famosa la sua figura nella prima gioventù, e ch’egli stesso si divertì tante volte a ritrarre nelle sue proprie caricature senza naso, sono ora scomparsi; ma, anche quando facevano parte integrante della sua bassa e quadra persona, erano cose ch’egli aveva lungamente meditate e che portava con una serietà quasi solenne. E non pare un uomo contento. Per trionfi che goda, un artista suo pari non può essere contentabile.

Ingegno di attitudini molteplici, egli ha nel capo infinitamente più che non abbia dato fuori, e non seppe mai chiudersi nel cerchio di un’arte sola, in cui esercitarsi fino a primeggiare. Probabilmente le sue bizzarrie, anche quelle che sembrano più ricercate, non sono altro che il segno di un bisogno d’originalità, tanto più difficile a soddisfare in lui quanto più la sua mente è tormentata dall’interno rodio dell’analisi e della critica.

Probabilmente non si conoscerà mai nella sua vastità quest’ingegno straordinario, perché, come tanti altri moderni, esso si sarà un po’ sperduto nel mondo, avrà pensato troppe cose, avrà osservato e fantasticato troppo per produrre quanto avrebbe potuto. Tutto ciò ch’egli ha fatto sinora (e, quanto alla mole, è poco) sembra l’opera di un dilettante che comunica agli amici, quasi per diporto, qualche fiore della sua fantasia; ma chi conosce il Pascarella sa che pochi artisti hanno un intelletto più ricco, più nutrito, più laborioso del suo.

Laborioso non è l’uomo. Semplice, buono, assai devoto alla famiglia e agli amici, egli è vissuto nel pieno della società intellettuale, tra artisti e scrittori, senza sentire mai lo stimolo di quella che una volta si chiamava emulazione ed oggi si chiama concorrenza. Quel che ha fatto, ha fatto da sé, senza punto occuparsi degli altri, sentendo nella solitudine spirituale una difesa alla sua originalità gelosa.

Cominciò pittore, pittore di somari, e il suo capolavoro fu una testa d’asino in bronzo. La gente rideva, ma non c’era di che. Quei suoi ciuchi erano perfetti. Poi conobbe addentro l’irrequieto mondo intellettuale di Roma, nel quale spiccò subito come una delle figure più singolari; viaggiò, studiò, scrisse qualche bozzetto, qualche ricordo de’ suoi viaggi, qualche conferenza rimasta famosa, come Il Manichino; disseminò qua e là pupazzetti e schizzi in penna; passò per umorista geniale, e nulla più. La gente rideva, credendo sempre che Pascarella fosse nato appunto per farla ridere.

Non rideva però Pietro Cossa, quando, uditi alcuni sonetti romaneschi del Pascarella ancora adolescente, annunciò in lui il legittimo erede di Gioachino Belli. Ora che quei sonetti giovanili e tutti gli altri finora pubblicati si possono leggere raccolti in un volume solo, appare chiaramente la via che il poeta ha seguito e la ragione della celebrità ch’egli ha acquistata in ogni angolo d’Italia.

A scrivere versi nel suo dialetto nativo il Pascarella si mosse per inclinazione spontanea; a scegliere la forma del sonetto e a farne un piccolo quadro di carattere o di costume fu indotto certo dall’esempio del Belli. E da principio tenne fede alla maniera del maestro. I suoi sonetti spicciolati son tante piccole pitture di vita popolare romana. Ma pochissimi sono in persona dell’autore: i più son detti da una persona plebea, di cui l’autore vuol rendere direttamente il pensiero e la parlata.

In questo genere di poesia, l’uso del dialetto è necessario. Non s’ha qui innanzi un poeta scrivente, ma un autore quasi drammatico o comico, il quale fa parlare i popolani della sua città, e, naturalmente, nel loro linguaggio genuino. Così fece spesso, ma non sempre, il gran Porta; così non fecero tanti poeti venuti su dal Settecento, il Meli siciliano, il Lamberti e il Buratti veneziani, i quali adoperano il vernacolo nei modi e nelle forme della lingua illustre, da letterati benigni, che consentono a usare l’idioma del popolo, a patto che esso si snaturi alquanto per innalzarsi alla nobiltà dell’arte loro.

Oggi non è nemmeno concepibile una poesia dialettale, se non sia trattata come espressione schietta di ciò che sente e pensa chi parla il dialetto. Per ciò, la poesia del Belli, del Fucini, del Pascarella ha esistenza legittima. Ma il Pascarella doveva passare tutti gli altri, assorgendo a una forma di arte assolutamente nuova.

I sonetti in cui, facendo parlare uomini e donne del volgo di Roma, egli ne rendeva con pochi tocchi felici il carattere municipale e individuale, gli riuscivano efficaci a meraviglia; e nessuno che li abbia letti può dimenticare Li principii, Li giornalisti, Er terno, capolavori di naturalezza e di spirito, non diversi però da quelli del Belli e del Fucini. A poco a poco, il pensiero del Pascarella andò più oltre. L’esercizio dell’osservazione su l’anima popolare lo condusse a studiare a fondo la psicologia del popolano romano: non più di questo o di quello, del lustrascarpe, del venditore di giornali o d’empiastri per i calli, ma del tipo medio dell’uomo di plebe, e del suo caratteristico modo di vedere, di sentire, d’intendere le cose e di collegare le idee. È il Pascarella si trasferì, direi, stabilmente nella persona morale del popolano, e per sua bocca si mise a raccontare. Che cosa? Cose nuove, cose serie. Non più robetta da ridere: ammazzamenti, tragedie, truci scene in cui protagonista è, povera Italia!, il coltello. Nel Morto de campagna, nella Serenata, si avverte già un che di tragico e di grandioso, un soffio di poesia superiore che fa fremere e scattare lo stile pur sempre impresso della più schietta naturalezza. Da queste corone di sonetti a Villa Gloria il passo è ormai breve; ma chi mai aveva arrischiato un tal passo? Far raccontare a un popolano, vecchio garibaldino, l’episodio eroico di Villa Gloria: e non intromettersi nelle sue parole, ma lasciarlo dire secondo che la memoria e il cuore gli detta; compiere col proprio cervello l’opera della fantasia popolare, ricreando quasi l’epopea spontanea, quale cominciò a formarsi nelle remote età eroiche; mettere il dialetto alle prove del poema e della tragedia fu ardimento nuovo, e tutti sanno con che stupenda fortuna il Pascarella l’abbia tentato.

Quando Villa Gloria, che, detta dal Pascarella stesso, fece sobbalzare e piangere Benedetto Cairoli, fu data alle stampe, il Carducci ne scrisse parole memorande: «… dalle concitazioni del duro e muscoloso linguaggio la linea epica si solleva e si distende per i venticinque sonetti monumentali. Non mai poesia di dialetto italiano era salita a quest’altezza. Grandissima l’arte e la potenza del Porta e del Belli, ma in una poesia che nega, deride, distrugge: classica quanto si vuole l’arte del Meli, ma fuor della vita, in una Arcadia superiore. Scolpire la idealità eroica degli italiani che muoiono per la patria, con la commozione d’un gran cuore di popolo, con la sincerità d’un uomo d’azione, in poesia di dialetto, nessuno l’aveva pensato, nessuno aveva sognato si potesse».

Poi venne La scoperta dell’America. Il popolano parla di cose storiche, quali le ha nella sua povera mente, quali le sente nell’anima ingenua. Egli ha il buon senso arguto del leggendario Bertoldo, il buon cuore dell’uomo, cui ogni ingiustizia offende ed ogni grandezza esalta, e l’entusiasmo del romano, figlio di un vecchio popolo glorioso, il quale ha nella sua ignoranza il sentimento d’essere nato nel più gran paese del mondo. Che cosa diventi nella sua testa la storia di Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America; che idea egli si sia fatta della navigazione e delle esplorazioni e dei popoli selvaggi; quali considerazioni, quali giudizi e motti ne tragga, dice il poema dei cinquanta sonetti che oggi mezza Italia sa a memoria. E poi verrà Roma. Arturo Graf scrisse due volumi su Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo; il Pascarella dirà in cento sonetti (la progressione numerica seconda il crescere di vastità degli argomenti) che cosa sia Roma e la sua storia nella mente di un popolano di Trastevere, nella coscienza oscura dei plebei romani d’oggi. Sarà anche questo un saggio d’epopea leggendaria spontanea, formato artificialmente dall’artista che sa così potentemente trasferirsi in altrui, obiettivare il suo pensiero, ridare con l’arte sua al dialetto l’ufficio ch’esso ebbe nelle remote origini della letteratura.

In tale lavoro il Pascarella è poeta non soltanto romano ma italiano, perché il suo dialetto riesce chiarissimo, piacevole, efficace a qualunque abitante della penisola: e se non è la lingua, poco ci corre. Il dialetto romano potrebbe essere lingua nazionale al pari del toscano. Se gli scrittori del Trecento, dice l’Ascoli nella classica introduzione del suo Archivio glottologico, invece di esser toscani fossero stati romani, la nostra lingua letteraria, di cui essi posero i fondamenti, si sarebbe atteggiata su l’uso di Roma anziché su quello di Firenze.

Chiaro dunque il linguaggio; chiaro, per natura e per sua arte, lo scrittore; straordinariamente espressivo il dicitore. Se la poesia del Pascarella ha così sicuro effetto su qualunque lettore, detta da lui medesimo riesce irresistibile. Egli non ha mai quell’aria istrionica che inevitabilmente assume chi recita versi al pubblico; ma s’immedesima talmente nel popolano a cui presta la sua voce e la sua parola, da non lasciar mai cogliere dall’uditore il divario che corre tra il personaggio e il poeta. E dice con naturalezza incomparabile: senza uno scoppio di voce, senza un gesto studiato, guardando bene in faccia l’uditorio e accompagnando l’andare dei versi coi moti del viso, col fissar degli occhi or lampeggianti or severi. È un pince-sans rire: dà l’idea di uno che fa ridere perché conosce la saggezza profonda che è nel riso e nell’ironia. È estremamente divertente, ma lascia in chi l’ha udito l’impressione di aver goduto di una cosa seria. Il pubblico lo adora; i lettori, anche i più dotti e difficili, lo ammirano: perché, col fare disinvolto e bonario d’un uomo che conversa briosamente, egli offre allo stanco gusto odierno il diletto d’una poesia nuova, in cui la penetrante intuizione psicologica dei tempi moderni rinnova gli accenti di passione, di arguzia e di estro immaginoso ch’ebbe già la letteratura popolare nel Trecento e nel Quattrocento, nei secoli fortunati in cui si poteva ancora essere per sincerità originali.

(**) Tratto da Cesare Pascarella, La Scoperta de l’America – L’Antico Caffè PASCARELLA7edxK RIDGreco di Roma, a cura di Fabrizio Pinna, Pieffe Edizioni, 2015. 

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