Pascarella e “La scoperta dell’America”, un piccolo capolavoro

Colombo incontra i Taínos

FABRIZIO PINNA – Un “petit chef-d’œuvre”, un piccolo capolavoro, come giustamente scrisse Henri Montecorboli (1) presentando ai lettori francesi quello che in Italia fu il caso letterario dell’anno 1894, il poemetto di Cesare Pascarella (1858-1940) che in una incantevole e coerente sequenza di cinquanta sonetti racconta in romanesco La scoperta de l’America (2); o meglio: la sua storia magistralmente riletta e narrata in un’osteria, tra la bevuta di un bicchiere e un altro di vino, da un “Romano de Roma” in un misto, rimasto inconfondibile, di erudizione sui generis e di ironica, sagace e malinconica fantasia popolare (3).


 «Eppure... sotto a tutto quer celeste,
Ma, dico, dimme un po', chi lo direbbe
Che ce cóveno sotto le tempeste?» (XV)

«Cosi, riunendo la precisione della forma metrica alla precisione del linguaggio, io ho potuto fare un’opera che è stata intesa parte a parte (e io lo so, perché recitando i miei sonetti vedo in volto i miei uditori) a Napoli come a Roma, e sarà intesa parte a parte a Milano come a Venezia» (1894)


In questo Pascarella seguiva la sua mai sconfessata poetica, con arte nel tempo affinata dalle prime prove giovanili degli esordi di un decennio prima nel vivace clima culturale della Roma umbertina (4): «Ora, vedi – chiariva lui stesso in un’intervista rilasciata in quei mesi a Ugo Ojetti (5) -, uno dei canoni fondamentali per far della poesia dialettale, secondo me, è quello di far parlare il popolano; altrimenti la naturalezza, la verosimiglianza, che è la prima condizione di vita di quella poesia, manca. E questo dico sopra tutto per i poeti romaneschi, che a Roma, fuori del popolo, non si parla in dialetto, ma in una lingua incerta, ingannevole, letterariamente falsa. Il popolano, il popolano deve parlare; lui, in prima persona! Deve descrivere, deve narrare, deve commovere ma con le parole sue, con i pensieri suoi, con i gesti suoi, parlando a’ suoi pari. E io non ho mai in un sol sonetto sconfessata questa regola».

Partito alla ricerca di un linguaggio poetico (6) più concreto e diretto rispetto anche alla lingua letteraria italiana del suo tempo, puntando su una specifica metrica a lui congeniale (“Io credo che il sonetto sia la forma strofica più corrispondente – anche in una serie di molti componimenti simili – a quella precisa chiarezza della lingua”), Pascarella si dedicò a un lungo, meticoloso lavoro sulle espressioni e lo stile (“su la Scoperta de l’America ho lavorato quasi otto anni!”) che, con un uso molto più sfumato dei cliché tipici e spesso scurrili del genere (7), lo porterà agli esiti felici del poemetto, ma anche alle difficoltà poi incontrate nel portare a termine la sua ultima opera poetica, il poema romanesco più vasto che ideò Pascarella in quegli stessi anni, la Storia nostra, rimasto infatti solo incompiuto e frammentario (fu pubblicato postumo nel 1941; doveva essere formato da 350 sonetti, ma si conservano manoscritti 267 testi, alcuni solo abbozzati).


Asinello e poesia di Pascarella 1899

Sarebbe futile ritornare oggi sulla querelle avviata nel primo Novecento intorno al carattere dell’epos popolare proposto da Pascarella, da alcuni “critici” interpretato invece – anche per polemica anti-carducciana – come mera cronaca tradotta in un vernacolo linguisticamente un po’ annacquato. Come già a suo tempo rilevò Dino Mantovani, «Pascarella è poeta non soltanto romano ma italiano, perché il suo dialetto riesce chiarissimo, piacevole, efficace a qualunque abitante della penisola: e se non è la lingua, poco ci corre. Il dialetto romano potrebbe essere lingua nazionale al pari del toscano. Se gli scrittori del Trecento, dice l’Ascoli nella classica introduzione del suo Archivio glottologico, invece di esser toscani fossero stati romani, la nostra lingua letteraria, di cui essi posero i fondamenti, si sarebbe atteggiata su l’uso di Roma anziché su quello di Firenze»; semplicemente, ha ben riassunto più di recente Maria Letizia Manegatti (8), ne La scoperta de l’America «La scelta del romanesco, con l’irruzione degli elementi naturalistici, non è piegata nella direzione di una letteratura municipale: la tematica affrontata, la grandezza dell’ingegno italiano, fonda una sorta di dignità epica costruita dal basso. I modi dialettali, i riferimenti a luoghi romani, l’uso di anacronismi o di storpiature risultano comunque attenuati rispetto al grande modello belliano».

Dopo il crescente successo nazionale e internazionale, presso il cosiddetto grande pubblico la fama di Pascarella iniziò ad affievolirsi nel periodo della Grande Guerra, quando per l’acuirsi della sua sordità dismise del tutto le letture pubbliche e la partecipazione ai circoli letterari, sebbene nelle cronache culturali continuasse spesso a essere richiamato come contrappunto – o antagonista ideale – del più giovane Trilussa, temperamento poetico romanesco in fondo molto diverso (9). Nel secondo Novecento ad offuscare entrambi è stato poi il prevalere a lungo per la poesia dialettale di un riduttivo paradigma sostenuto, pro domo sua, da Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – e passivamente accolto sino a pochi anni fa, prima che si inaugurasse una nuova storiografia letteraria meno naif e più seria, persino da molti accademici – che vedeva nell’espressione lirica la sola e unica via legittimamente praticabile nella modernità, relegando quindi arbitrariamente ai margini tradizioni di segno realistico-narrative, ora invece più correttamente riconosciute nel loro autonomo, e spesso alto, valore poetico, seppure apparentemente meno praticate o eclatanti (10). In questo senso è dunque oggi forse più facile ritornare ad apprezzare pienamente anche un poeta come Pascarella, il quale nella sua opera – peraltro quantitativamente esigua – ha comunque raggiunto esiti di eccellenza difficilmente discutibili, come appunto avviene con il poema, qui riproposto alle lettrici e ai lettori, de La Scoperta de l’America. |Fabrizio Pinna, 22 ottobre 2015

**Questo scritto – comprese le note/digressioni successive – ripropone senza variazioni una premessa ad un e-book pubblicato qualche anno fa: Cesare Pascarella, La scoperta dell’America. L’antico Caffé Greco di Roma. Villa Gloria (Pieffe Edizioni 2015 | ISBN 978-88-99508-02-9). effe 19/11/2019


Note

(1)  Id., Un poème italienne sur la découverte de l’Amérique, «La Nouvelle Revue», T. 88, Mai-Juin 1894, pp. 424-430, in cui si leggono le prime traduzioni in francese di alcuni sonetti di Pascarella. Henri (Enrico) Montecorboli, letterato italo francese, drammaturgo; nato a Livorno nel 1839, la famiglia migrò a Marsiglia dove Henri si formò culturalmente fin da bambino, mantenendo però stretti rapporti con l’Italia, di cui scrisse come giornalista culturale in collaborazioni a varie riviste francesi; morì nel 1916. Merita ancora di essere letto anche il primo studio complessivo pubblicato in Francia, che si deve, qualche anno dopo, a Émile Haguenin (1872-1924), Les Romains et leur poète: Cesare Pascarella, «Revue des deux Mondes», T. CLIV, 15 Juillet, 1899, pp. 420-440 (volendo, le due riviste sono anche consultabili in riproduzione digitale in Gallica, il sevizio online della Biblioteca Nazionale di Francia: http://gallica.bnf.fr/). Sulla «RddM» come rivista di “mediazione” culturale franco-italiana in quell’epoca, benché in alcuni punti da rettificare in base alla storiografia più recente rimane tuttavia importante lo studio di Luisa Mangoni (1942-2014), Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Torino, Einaudi, 1985 (I ed.). Da questo particolare angolo di visuale si possono leggere anche François Livi, Tra avanguardia e classicismo. La letteratura italiana nelle riviste parigine all’inizio del Novecento (1900-1915), in Massimo Rizzante e Carla Gubert (a cura di), Le riviste dell’Europa letteraria, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 2002, pp. 23-48 e Roberta Trice, Lo spirito europeo e la letteratura italiana. Con Benjamin Cremieux tra il 1910 e il 1943, Ventimiglia, Philobiblon, 2005.

(2)  Dopo il fortunato lancio editoriale a Roma con la prima lettura pubblica tenuta nella primavera del 1894 al Circolo degli Artisti, «Il successo del poema fu tale da sancire la fama di Pascarella su scala nazionale, complici anche le sue doti di fine dicitore, abile nel volgere con naturalezza fra toni drammatici e comici. La scoperta de l’America fu declamata alla Scala di Milano, quindi in Veneto, in Austria (dove alcuni sonetti furono tagliati dalla censura) e al Comune di Bologna (accompagnata da lusinghiera presentazione di Carducci) nell’aprile 1895» (Scalessa: 2014). Oltre ai testi inclusi in questo e-book nella sezione “Letture critiche”, per un profilo aggiornato della vita e delle principali opere dello scrittore si trova online la voce curata da Gabriele Scalessa, Pascarella Cesare, in «Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 81» (Treccani, 2014):http://www.treccani.it/enciclopedia/cesare-pascarella_(Dizionario_Biografico)/. È solo da poco che tutto l’archivio documentario disponibile a Roma è stato accuratamente censito e catalogato: Daniela Armocida, Il Fondo di Cesare Pascarella: storia e documenti, in «Atti dell`Accademia nazionale dei Lincei» 407, vol. 21, n. 1-2/2010, pp. 323-348.

(3)  Con le parole di uno scrittore e colto studioso suo quasi coetaneo, Dino Mantovani (1862-1913), «Il popolano parla di cose storiche, quali le ha nella sua povera mente, quali le sente nell’anima ingenua. Egli ha il buon senso arguto del leggendario Bertoldo, il buon cuore dell’uomo, cui ogni ingiustizia offende ed ogni grandezza esalta, e l’entusiasmo del romano, figlio di un vecchio popolo glorioso, il quale ha nella sua ignoranza il sentimento d’essere nato nel più gran paese del mondo. Che cosa diventi nella sua testa la storia di Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America; che idea egli si sia fatta della navigazione e delle esplorazioni e dei popoli selvaggi; quali considerazioni, quali giudizi e motti ne tragga, dice il poema dei cinquanta sonetti che oggi mezza Italia sa a memoria» (1900; la recensione si può leggere integralmente qui, inclusa nella breve sezione delle “Letture critiche” insieme ai contributi di Ojetti e Montecorboli; su Mantovani, oggi a torto raramente ricordato persino dagli italianisti, si può vedere la voce curata da Antonio Carrannante nel «Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 69» (Treccani, 2007): http://www.treccani.it/enciclopedia/dino-mantovani_(Dizionario-Biografico)/). Ma su questo aspetto del poema, che forse oggi potrebbe lasciare perplesso qualche lettrice e lettore, è ancora Montecorboli ad avere ben colto il punto: «Non bisogna stupirsi troppo dell’erudizione degli uomini del popolo di Roma. È innanzitutto un’erudizione relativa e tutta a modo loro, secondo il punto di vista in cui si pongono; inoltre il romano è un grande lettore di piccoli giornali e di romanzi illustrati in brochure. Infine, ha sempre l’immaginazione molto vivace e ha un’alta idea della sua importanza di cittadino romano, che tutto ha visto e al quale il mondo è stato sottomesso. Civis romanus sum, o, come dice oggi, Romano de Roma. L’uomo del popolo a Roma, visto da Pascarella, è un composto di ignoranza e di erudizione, di entusiasmo e di ironia; ma è soprattutto sincero, assolutamente sincero. Queste qualità non si smentiscono mai nella sequenza dei cinquanta sonetti. L’uomo racconta, ma di tempo in tempo si ferma, commosso, e prorompe con le sue osservazioni, la sua riflessione personale, la manifestazione delle sue idee» («Il ne faut pas trop s’étonner de l’érudition des hommes du peuple de Rome. C’est d’abord une érudition relative et tout à leur façon, selon le point de vue auquel ils se placent; ensuite, le Romain est un grand liseur de petits journaux et de romans illustrés en brochure. Enfin, il a toujours eu l’imagination très vive et il a une haute idée de son importance de citoyen romain, qui a tout vu et auquel le monde a été soumis.Civis romanus sum, ou, comme il dit aujourd’hui, Romano de Roma. L’homme du peuple à Rome, vu par M. Pascarella, est un composé d’ignorance et d’érudition, d’enthousiasme et d’ironie; mais il est surtout sincère, absolument sincère. Ces qualités ne se démentent jamais pendant les cinquante sonnets. L’homme raconte, mais de temps à autre il s’arrête, ému, et lance son observation à lui, sa réflexion personnelle, la manifestation de ses idées»).

(4)  Oltre a Villa Gloria (1886), Er morto de campagna (1881), La serenata (1883), Er fattaccio (1884), Cose der monno (1887), inclusi in questo e-book, insieme ai Sonetti sparsi, nella sezione delle “Opere giovanili”.

(5)  Su Ojetti (1871-1946) cfr. il profilo a cura di Laura Cerasi nel «Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 79» (Treccani, 2013):http://www.treccani.it/enciclopedia/ugo-ojetti_(Dizionario-Biografico)/

(6)  Su questo concetto cardine in letteratura è consultabile online la precisa e agile sintesi di Vittorio Coletti, Lingua poetica, in «Enciclopedia dell’Italiano» (Treccani, 2010): http://www.treccani.it/enciclopedia/lingua-poetica_(Enciclopedia_dell’Italiano)/ . Per uno sguardo di lungo periodo, di Coletti si può leggere anche Id., Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi, 1993 (I ed.).

(7)  Pascarella cercò sempre di evitare il plebeismo più elementare e convenzionale: «di questo popolano nostro non si devono scegliere le passioni più rozze e più brute col pretesto che esse sono in lui più caratteristiche. L’oscenità sembra divenuta regola nella poesia romanesca; e questo è falso, nel fatto speciale perché il nostro popolano ha belle e forti e nobili qualità, e nel principio estetico generale perché solo le opere d’arte che sono sane e franche e nobili rimangono».

(8)  Cit. in «Dizionario delle Opere della letteratura italiana», (diretta da Alberto Asor Rosa), Torino, Einaudi, 2000/2008, ad vocem. Del resto, a parte studi letterari di carattere più tecnico-formale e filologico, nulla di veramente significativo ha aggiunto la critica degli ultimi decenni alla lettura di Pascarella. Anche Nicola De Blasi, riprendendo un passo dell’intervista che rilasciò a Ojetti, è ritornato su questo per ribadire un punto fermo: «Va infine rilevata la consapevolezza linguistica di Pascarella, il quale – più di alcuni detrattori che gli rimproveravano una eccessiva italianizzazione – sa bene che la situazione del romanesco è diversa rispetto a quella di altri dialetti; forse anche per questo motivo si spinge a sostenerne la superiorità: “la lingua parlata dal popolo romanesco non è nel senso in che si chiamano dialetti i linguaggi del popolo di Milano, di Venezia e di Napoli. Esso è la stessa lingua italiana pronunciata differentemente. E aggiungi a queste differenze puramente foniche una grande superiorità della nostra lingua dialettale su quella italiana”. In questa rivendicazione c’è un’altra differenza rispetto a Belli, il quale verso il popolo romano e il suo linguaggio esprimeva giudizi tutt’altro che teneri» (Nicola De Blasi, Le letterature dialettali, cap. XII in Storia della Letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, vol. VIII. Tra l’Otto e il Novecento, Roma, Salerno Editrice, 1999, cit. a p. 893 e cfr. ad indicem; i vari contributi inclusi nel volume sono ancora oggi tra le migliori sintesi storiografiche disponibili per una più approfondita lettura “contestuale” anche dell’opera di Pascarella). Online in inglese si può invece leggere il saggio di Chiara Frenquellucci, “Roma nostra”: The Poetry of Unification in the Sonnets of Cesare Pascarella, «Annali di Italianistica», n. 28/2010, pp. 49-75, reperibile in “The free Library”:http://www.thefreelibrary.com/.

(9)  Un po’ frusto appariva già negli anni Trenta del Novecento il confronto/scontro tra Pascarella e il più “borghese” e mondano Trilussa (1871-1950), immancabilmente accompagnato, inutile dirlo, dal canonico e ormai scolastico richiamo allo stile di Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863); recensendo il “Libro N. 9” di Trilussa, lo scrittore Pietro Pancrazi (1893-1952) invitando ad archiviare una volta per tutte le abusate fantasie su “un poeta dialettale romano archetipo” come strumento di misura critica per valutare poesie e autori molto diversi tra loro, indirettamente notava, inoltre, le prime cicliche variazioni nel gusto del pubblico (1930): «Che rapporto corre fra Trilussa e Pascarella? È chiaro, nessuno. Più d’ogni altro poeta d’oggi, Pascarella è un solitario. Col suo popolano e la sua epica dialettale si è rinchiuso in un mondo lontano dal nostro: dove è maggior poeta, Pascarella parla con le ombre» (Pietro Pancrazi, Scrittori d’oggi. Serie seconda, Roma, Bari, Laterza, 1946, cit. a p. 180). D’altronde il panorama linguistico in Italia è sempre più mutato durante tutto il Novecento e per molti aspetti continua ancora a complicarsi, come hanno ormai ben messo in evidenza gli studi contemporanei di sociolinguistica, con problemi di difficile risoluzione che si pongono anche a livello politico/legislativo; per le prime indicazioni generali: Corrado Grassi – Alberto Sobrero – Tullio Telmon, Fondamenti di dialettologia italiana, Roma-Bari, Laterza, 1997 (I ed.); Fiorenzo Toso, Le minoranze linguistiche in Italia, Bologna, Il Mulino, 2008; le “Avvertenze” incluse nelle edizioni successive alla prima pubblicazione nel 1963 di Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita (Roma-Bari, Laterza) avvenute nel 1970, 1983 e 1991, mostrano esemplarmente – più di tante dissertazioni – l’accelerazione e il significato dei mutamenti avvenuti. È su questo sfondo più articolato che si innesta anche la “storia” della poesia dialettale, con tutte le sue varie configurazioni novecentesche.

(10)  «Il tratto più vistoso della produzione neodialettale è certamente la prevalenza del registro lirico. Lingua dell’hic et nunc, da sempre inseparabile da una precisa realtà, il dialetto vede definitivamente dissolversi le sue coordinate spazio-temporali, per diventare lingua di soggettività fortemente risaltate. Se un tempo la poesia dialettale presupponeva la vitalità dei dialetti, oggi si fonda sul loro inarrestabile declino. Proprio perché non si parla più il dialetto ha potuto attrarre lo scrittore, riciclandosi come lingua privata ed evocatrice», ha scritto Franco Brevini; inoltre, osserva lo studioso, «Un secondo elemento che colpisce è la corsa verso l’alto, la ricerca di nobiltà e squisitezza, che fa del dialetto uno strumento più prezioso della lingua. Un tempo codice energicamente anti-letterario, il dialetto è divenuto oggi un codice iper-letterario, una lingua selettiva e anacronistica che si oppone all’italiano standard. Con un curioso rovesciamento proprio il grande antagonista del toscano letterario è stato riconvertito in una lingua per poesia, una specie di nuovo latino con cui lo scrittore fugge il nuovo “volgare” d’uso comune» (Franco Brevini, La poesia dialettale, in Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino Einaudi, 2000, pp. 475-501, cit. a p. 491 e p. 495); di Brevini va però nettamente respinta come lunatica e arbitraria l’interpretazione che ha dato altrove dell’opera di Pascarella: è del tutto anacronistico e privo di qualsiasi intelligenza storica (ed estetica) spingersi ad affermare – per un rozzo sociologismo degno del Gramsci più deteriore e corrivo – che «Villa GloriaLa Scoperta dell’America eStoria Nostra non sono che la versione strapaesana dei miti patrii confezionati dal vate maremmano [scil.: Carducci]. È anche su pagine come queste che si prepara il clima in cui si affermerà il fascismo» (Id., La poesia dialettale – pp. 606-647, cit. p. 633 – in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, vol. X: La Letteratura dell’età industriale – Il secondo Ottocento, Milano, F. Motta, 1999 / Roma, Gruppo editoriale l’Espresso, 2004). Cum grano salis, per brevi panoramiche generali online si possono leggere: Ugo Vignuzzi, Dialettologia italiana, in «Enciclopedia dell’Italiano» (Treccani, 2010): http://www.treccani.it/enciclopedia/dialettologia-italiana_(Enciclopedia-dell’Italiano)/; Daniele Maria Pegorari, La neo-dialettalità nella storiografia letteraria, in Francesco Tateo – Raffaele Cavalluzzi (a cura di), Forme e contesti: studi in onore di Vitilio Masiello, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 757-778:http://userhome.brooklyn.cuny.edu/bonaffini/DP/neodialettalita.pdf; Luigi M. Cesaretti Salvi, Letteratura dialettale, in «Enciclopedia Italiana – VII Appendice» (Treccani, 2006): http://www.treccani.it/enciclopedia/letteratura-dialettale_(Enciclopedia-Italiana)/; Nicola De Blasi, Usi letterari del dialetto, in «Enciclopedia dell’Italiano» (Treccani, 2010):http://www.treccani.it/enciclopedia/letteratura-dialettale_(Enciclopedia-Italiana)/; Fiorenzo Toso, Moschetto e dialetto (2015?):http://www.treccani.it/lingua_italiana/speciali/grande_guerra/Toso.html