Kant: Apologia della sensibilità

IMMANUEL KANT — § 8. — Tutti dimostrano ogni rispetto per l’intelligenza, come lo prova la denominazione che si fa di essa come potere superiore di conoscenza; chi ne volesse fare l’elogio, sarebbe accolto con l’ironia onde fu accolto chi aveva tentato l’elogio delle virtù (“stulte! quis unquam vituperavit” – Plauto, Miles gloriosus / Il soldato millantatore, III, 1: 141-142). Invece la sensibilità non gode buona riputazione. Se ne dice molto male: per es., 1) che essa trae in errore il potere rappresentativo; 2) che essa fa la voce grossa e da padrona, mentre essa dovrebbe essere soltanto l’ancella dell’intelligenza, da domarsi come dura e ostinata; 3) che essa inganna, e che non si sta mai abbastanza guardinghi di fronte ad essa.

D’altra parte non le mancano anche dei lodatori, specialmente fra i poeti e la gente di buon gusto, i quali non solo apprezzano la sensibilizzazione dei concetti intellettuali come un merito, ma che appunto in ciò, e nel fatto che i concetti non siano con tanto scrupolosa cura analizzati nei loro elementi, ripongono la ricchezza (l’abbondanza di pensieri) o l’enfasi (l’energia) dell’espressione e la luminosità (lo splendore nella coscienza) delle rappresentazioni, mentre considerano le nudità dell’intelletto come povertà (*). Io non farò qui il panegirista, ma soltanto l’avvocato del senso contro i suoi detrattori.

(*) Siccome qui si parla soltanto del potere conoscitivo, e quindi di rappresentazioni (non del sentimento di piacere o di dolore), cosi la sensazione non significa altro che la rappresentazione sensibile (intuizione empirica) distinto tanto dai concetti (dal pensiero) quanto dall’intuizione pura (dello spazio e del tempo).

Ciò che v’è di passivo nella sensibilità, che noi d’altronde non possiamo eliminare, è propriamente la causa di tutto il male, che le si attribuisce. La perfezione interna dell’uomo consiste in ciò: che egli ha in sua mano l’uso di tutto il suo potere per sottoporlo alla propria libera volontà. Ma per questo si richiede che l’intelletto domini, ma non indebolisca, la sensibilità (la quale in sé è plebe, perché non pensa): senza la sensibilità infatti non ci sarebbe materia che possa essere elaborata ad uso dell’intelligenza regolatrice.

Difesa della sensibilità contro la prima critica.

§ 9. — I sensi non fanno errare. A colui che ha bensì afferrato un molteplice, ma non l’ha ancora ordinato, non si può muovere il rimprovero che egli cada in errore. Le percezioni dei sensi (rappresentazioni empiriche coscienti) possono soltanto chiamarsi fenomeni interni. L’intelligenza, che vi si aggiunge e le collega sotto una legge del pensiero (che porta l’ordine nel molteplice), ne trae allora la conoscenza empirica, cioè l’esperienza. È dunque l’intelletto negligente dei suoi doveri quando leggermente giudica, senza aver prima ordinato le rappresentazioni dei sensi sotto leggi, e poi si lagna dell’errore di quelle, come se esso errore si dovesse imputare alla natura originariamente sensibile dell’uomo. Questa risposta riguarda tanto le infondate critiche circa l’errore delle rappresentazioni esterne quanto quelle circa l’errore delle interne provocato dalla sensibilità.

Le rappresentazioni sensibili precedono indubbiamente le intellettuali e si presentano in massa. Ma è tanto più ricco il loro apporto, quando l’intelletto interviene col suo ordinamento e con la sua forma, e per es. porta nella coscienza espressioni feconde per il loro concetto, vivaci per il sentimento, e rappresentazioni interessanti per la determinazione del volere. — La ricchezza, che i prodotti spirituali dell’eloquenza e della poesia apportano di colpo (in massa) all’intelletto, lo mette bensì di spesso, col suo uso razionale, in imbarazzo, e l’intelligenza frequentemente va errando quando si devono chiarire e distinguere tutti gli atti della riflessione che essa in realtà, sebbene in modo oscuro, compie; ma la sensibilità non ne ha colpa, bensì ha piuttosto il merito di aver offerto all’intelletto una ricca materia, mentre i concetti astratti sono di spesso soltanto splendide miserie.

Difesa della sensibilità contro la seconda critica.

§ 10. — I sensi non comandano all’intelletto. Essi piuttosto si offrono all’intelletto per servirlo. Non si deve attribuire a una loro pretesa di dominare l’intelligenza il fatto che essi non vogliono sia disconosciuta la importanza che loro principalmente spetta in ciò che si chiama il senso comune (sensus communis). Infatti ci sono giudizi, che non si traggono formalmente davanti al tribunale dell’intelletto, per essere da lui giudicati, e che quindi sembrano esser dettati immediatamente dal senso. Di tal genere sono le cosiddette ispirazioni quasi di oracolo (come quelle, che Socrate attribuiva al suo genio). Con ciò si presuppone che il primo giudizio su ciò che in un certo caso è bene e saggio di fare, sia comunemente anche il giusto, e che venga soltanto razionalizzato per mezzo dei posteriori raziocinii. Tali ispirazioni però in realtà non provengono dai sensi, ma da reali, per quanto oscure, riflessioni dell’intelligenza. — I sensi non hanno nessuna pretesa, e sono come il popolo comune, il quale, quando non è plebe (ignobile vulgus), si sommette bensì volentieri al suo capo, all’intelletto, ma vuole essere ascoltato. Quando però certi giudizi e intuizioni vengono ritenuti validi come provenienti direttamente dal senso interno (non per mezzo dell’intelligenza), e questo è ritenuto come imperante per sé, e le sensazioni vengon prese come giudizi, allora si ha un vero fanatismo, il quale è molto affine alla pazzia.

Difesa della sensibilità contro la terza critica.

§ 11. — I sensi non ingannano. Questo principio è la negazione della più importante, ma anche, se ben si pensa, della più debole critica che si muove ai sensi; e ciò non perché essi giudichino sempre bene, ma perché non giudicano affatto; onde l’errore sta sempre a carico dell’intelletto.

Tuttavia l’apparenza dei sensi (species, apparentia) si adduce, se non per giustificare, almeno per scusare l’errore. Infatti di spesso l’uomo cade nell’errore di scambiare per oggettivo il proprio modo soggettivo di rappresentarsi le cose: cosi per es. di ritenere rotonda la torre lontana, nella quale non vede nessun angolo, di ritenere il mare, la cui parte più lontana egli vede traverso ai raggi più alti del sole, come più alto della spiaggia (altum mare), di ritenere la luna piena, che egli al suo sorgere vede sull’orizzonte attraverso uno strato spesso di aria, come più lontana, e quindi anche più grossa di quando è alta nel cielo, sebbene la veda sempre sotto il medesimo angolo. E così si scambia l’apparenza per esperienza; ma l’errore in cui si cade non è dei sensi, bensì dell’intelletto.

Una critica, che la logica muove alla sensibilità, è questa, che si rimprovera alla conoscenza, in quanto è da quella promossa, la superficialità (individualità, limitazione al singolo), mentre all’intelletto, il quale mira al generale, e che quindi si deve adattare alle astrazioni, si fa il rimprovero della aridità. Ma la trattazione della conoscenza sensibile, la cui prima esigenza è la popolarità, batte una strada, sulla quale ambedue questi errori possono essere scansati.

Da Immanuel Kant (1724-1804), Antropologia pragmatica (Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, 1898). La traduzione è quella “classica” (1921) del filosofo e pedagogista Giovanni Vidari (1871-1934), che fu il primo a tradurla in italiano.