Individuo religione e società, Homo duplex: il dualismo della natura umana e le sue condizioni sociali

di Émile Durkheim — Sebbene si definisca la sociologia come la scienza delle società, in realtà essa non può trattare dei gruppi umani, che sono l’oggetto immediato della sua ricerca, senza pervenire infine all’individuo, elemento ultimo dei quali questi gruppi sono composti. Perché la società non si può costituire che a condizione di penetrare le coscienze individuali e nel plasmarle «a sua immagine e somiglianza»; senza voler dogmatizzare all’eccesso, si può dunque dire con sicurezza che numerosi nostri stati mentali, e dei più essenziali, hanno un’origine sociale. Qui, è il tutto – in grande misura – che fa la parte; in seguito, è impossibile cercare di spiegare il tutto senza spiegare la parte, almeno per contraccolpo. Il prodotto per eccellenza dell’attività collettiva è questo insieme di beni intellettuali e morali che si chiama civilizzazione; per questo Auguste Comte faceva della sociologia la scienza della civilizzazione.

Ma, d’altra parte, è la civilizzazione che ha fatto dell’uomo ciò che è; è ciò che lo distingue dall’animale. L’uomo non è un uomo se non per il suo essere civilizzato.

Cercare le cause e le condizioni dalle quali la civilizzazione dipende, è quindi cercare anche le cause e le condizioni di ciò che c’è nell’uomo di più specificamente umano. È così che la sociologia, appoggiandosi sulla psicologia di cui essa non saprebbe superarsi, apporta, per un giusto ritorno, un contributo che eguaglia e sorpassa in importanza i servizi che ne ha ricevuto. È solamente per l’analisi storica che ci si può rendere conto di cosa l’uomo è formato; perché è solamente nel corso della storia che egli si è formato.

L’opera che abbiamo recentemente pubblicato su “Le forme elementari della vita religiosa” (Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris, F. Alcan, 1912) permette di illustrare attraverso un esempio questa verità generale. Cercando di studiare sociologicamente i fenomeni religiosi, siamo stati condotti a intravedere un modo di spiegare scientificamente una delle particolarità più caratteristiche della nostra natura. Siccome, con nostra grande sorpresa, il principio sul quale posa questa spiegazione non sembra essere stato colto dai critici che, fino ad oggi, hanno parlato di questo libro, ci è parso che avrebbe potuto avere qualche interesse l’esporlo sommariamente ai lettori di “Scientia”.

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— I —

Questa particolarità, è la dualità (dualité) costituzionale della natura umana.

Di questa dualità l’uomo stesso ha avuto, in ogni tempo, il vivo sentimento. Dappertutto, di fatto, egli si è concepito come formato di due esseri radicalmente eterogenei: il corpo da una parte, l’anima dall’altra. Anche quando l’anima è rappresentata sotto forma materiale, la materia della quale è fatta passa per non essere fatta della stessa natura del corpo. Si è detto che essa è più eterea, più sottile, più plastica, che essa non tocca (affecte) i sensi come gli oggetti propriamente sensibili, che essa non è sottomessa alle stesse leggi, ecc.. Non solamente questi due esseri sono sostanzialmente differenti, ma sono in larga misura indipendenti l’uno dall’altra, spesso anche in conflitto. Attraverso i secoli, si è creduto che l’anima potesse, per questa via, sfuggire dal corpo e condurre alla lunga un’esistenza autonoma. Ma è soprattutto dalla morte che questa indipendenza si è sempre affermata più nettamente. Quando il corpo si dissolve e si annienta, l’anima gli sopravvive e nelle nuove condizioni essa prosegue, per un tempo più o meno lungo, i corsi dei suoi destini. Si può anche dire che, pur essendo strettamente associati, l’anima e il corpo non appartengono allo stesso mondo. Il corpo fa parte integrante dell’universo materiale, tale come ce lo fa conoscere l’esperienza sensibile; la patria dell’anima è altrove e l’anima tende senza sosta a ritornarvi. Questa patria è il mondo delle cose sacre. Così essa è stata investita di una dignità che è sempre stata rifiutata al corpo; mentre questo è considerato come essenzialmente profano, essa ispira qualcosa di questi sentimenti che sono dappertutto riservati a ciò che è divino. Essa è fatta della stessa sostanza degli esseri sacri: non differisce da loro che per gradi.

Una credenza così universale e così permanente non potrebbe essere puramente illusoria. Poiché in tutte le civilizzazioni conosciute l’uomo si è sentito doppio, bisogna che ci sia in lui qualche cosa che ha dato nascita a questo sentimento. E in effetti l’analisi psicologica viene a confermarlo: in seno stesso alla nostra vita interiore essa ritrova la stessa dualità.

La nostra intelligenza come la nostra attività presenta due forme molto differenti: ci sono le sensazioni [1] e le tendenze sensibili da una parte, il pensiero concettuale e l’attività morale dall’altra. Ciascuna di queste parti di noi stessi gravita attorno a un polo che gli è proprio e questi poli non sono solamente distinti, essi sono opposti. I nostri appetiti sensibili sono necessariamente egoisti, hanno per oggetto la nostra individualità ed essa sola. Quando noi soddisfiamo la nostra fame, la nostra sete, ecc., senza che alcuna altra tendenza sia in gioco, è solo noi stessi e noi solo che soddisfiamo [2]. Al contrario, l’attività morale si riconosce dal segno che le regole di condotta alla quali essa si conforma sono suscettibili di essere universalizzate; esse perseguono quindi, per definizione, dei fini impersonali. La moralità non inizia che con il disinteressamento, l’attaccamento ad altra cosa che noi stessi [3].

Lo stesso contrasto nell’ordine intellettuale. Una sensazione di colore o di suono attengono strettamente al mio organismo individuale e non posso distaccarmene. Mi è impossibile farla passare dalla mia coscienza alla coscienza altrui. Posso certo invitare altri a mettersi di fronte allo stesso oggetto e a subirne l’azione, ma la percezione che egli così ne avrà, sarà opera sua e sarà sua, così come la mia mi è propria. Al contrario, i concetti sono sempre comuni a una pluralità di uomini. Essi si costituiscono grazie alle parole; ora, il vocabolario così come la grammatica di una lingua non sono l’opera né la cosa di qualcuno in particolare; essi sono il prodotto di una elaborazione collettiva ed esprimono la collettività anonima che li impiega. La nozione di uomo o di animale non mi è personale; essa mi è, in grande misura, comune con tutti gli uomini che appartengono come me allo stesso gruppo sociale. Così, poiché sono comuni, i concetti sono lo strumento per eccellenza di ogni commercio intellettuale. È attraverso essi che gli animi comunicano. Senza dubbio ciascuno di noi individualizza, nel pensarli, i concetti che riceve dalla comunità, li marchia della sua impronta personale; ma non c’è cosa personale che non sia suscettibile di una individualizzazione di questo genere [4].

Questi due aspetti della nostra vita psichica si oppongono, dunque, l’uno all’altro come il personale all’impersonale. C’è in noi un essere che si rappresenta tutto in rapporto a lui, dal suo punto di vista proprio, e che in ciò che fa non ha altro oggetto che se stesso. Ma c’è anche un altro che conosce le cose sub specie aeternitatis, come se partecipasse di un altro pensiero rispetto al nostro e che, allo stesso tempo, nei suoi atti tende a realizzare dei fini che lo oltrepassano.

La vecchia formula Homo duplex è dunque verificata dai fatti. Ben lontano dall’essere semplice, la nostra vita interiore ha come un doppio centro di gravità. C’è, da una parte, la nostra individualità e, più specificamente, il nostro corpo che la fonda [5]; dall’altra, tutto ciò che in noi esprime altra cosa che noi stessi.

Questi due gruppi di stati di coscienza non sono solamente differenti per le loro origini e le loro proprietà; c’è tra loro un vero antagonismo. Essi si contraddicono e si negano mutualmente. Noi non possiamo darci fini morali senza distaccarci da noi stessi, senza strappare (froisser) gli istinti e inclinazioni che sono i più profondamente radicati nel nostro corpo. Non c’è atto morale che non implichi un sacrificio perché, come ha mostrato Kant, la legge del dovere non può farsi ubbidire senza umiliare la nostra sensibilità individuale o, come diceva, «empirica». Questo sacrificio noi ben possiamo accettarlo senza resistenza e anche con entusiasmo. Ma ancorché sia compiuto con un gioioso slancio, non smette per ciò di essere reale; il dolore che cerca volontariamente l’asceta non smette di essere dolore.

E questa antinomia è così profonda e così radicale che non può mai a rigore essere risolta. Come potremmo essere interamente a noi stessi e interamente ad altri, o viceversa?

L’io non può essere interamente altra cosa che se stesso, poiché altrimenti svanirebbe. È colui che arriva all’estasi. Per pensare bisogna essere, bisogna avere un’individualità. Ma, d’altra parte, l’io non può essere interamente ed esclusivamente se stesso poiché così si vuoterebbe di ogni contenuto. Se per pensare bisogna essere, bisogna anche avere delle cose da pensare. Ora, a cosa si ridurrebbe la coscienza se essa non esprimesse altro che il corpo e i suoi stati? Noi non possiamo vivere senza rappresentarci il mondo che ci circonda, gli oggetti di ogni sorta che lo riempiono. Ma per il fatto solo che noi li rappresentiamo, essi entrano in noi, divengono così parte di noi stessi; in seguito noi li tratteniamo, noi ce ne attacchiamo nello stesso tempo che a noi stessi. È un errore credere che ci è facile vivere da egoisti. L’egoismo assoluto così come l’altruismo assoluto sono dei limiti ideali che non possono mai essere raggiunti nella realtà. Sono degli stati ai quali ci possiamo ravvicinare indefinitamente, ma senza mai realizzarli adeguatamente.

Non è diversamente nell’ordine delle nostre conoscenze. Noi non comprendiamo che a condizione di pensare per concetti. Ma la realtà sensibile non è fatta per entrare da se stessa e spontaneamente nella cornice dei nostri concetti. Essa le resiste e per piegarla dobbiamo violentarla in qualche misura, sottoporla a ogni sorta di operazioni laboriosi che l’alterano al fine di renderla assimilabile all’animo e mai perveniamo a trionfare completamente delle sue resistenze. Mai i nostri concetti riescono a dominare le nostre sensazioni e a tradurle totalmente in termini intellegibili. Esse non prendono una forma concettuale che a condizione di perdere ciò che c’è in esse di più concreto, ciò che fa che esse parlino al nostro essere sensibile e conducano all’azione: esse divengono allora qualcosa di morto e di ghiacciato. Noi non possiamo dunque comprendere le cose senza rinunciare, in parte, a sentirne la vita e noi non possiamo sentirla senza rinunciare a comprenderla. Senza dubbio noi talvolta sogniamo una scienza che esprima adeguatamente tutto il reale. Ma questo è un ideale al quale certo ci possiamo avvicinare senza termine, ma che ci è impossibile raggiungere.

Questa contraddizione interna è una delle caratteristiche della nostra natura. Seguendo la formula di Pascal, l’uomo è al tempo stesso «angelo e bestia» senza essere esclusivamente né l’uno né l’altro. Ne risulta che non siamo mai completamente d’accordo con noi stessi, poiché noi non possiamo seguire una delle nostre due nature senza che l’altra ne patisca. Le gioie non possono mai essere pure; sempre si mischia qualche dolore perché noi non possiamo soddisfare simultaneamente i due esseri che sono in noi. È questa perpetua divisione contro noi stessi che fa a un tempo la nostra grandezza e la nostra miseria: la nostra miseria perché noi siamo così condannati a vivere nella sofferenza; ma anche la nostra grandezza poiché è grazie a ciò che noi ci singolarizziamo tra tutti gli esseri. L’animale va verso il suo piacere con un movimento unilaterale ed esclusivo: solo l’uomo è obbligato a lasciare spazio normalmente alla sofferenza nella sua vita.

Così, l’antitesi tradizionale del corpo e dell’anima non è una vana concezione mitologica, senza fondamento nella realtà. È ben vero che noi siamo doppi, che noi realizziamo un’antinomia. Ma allora si pone una questione che la filosofia e anche la psicologia positiva non possono evitare: da dove vengono questa dualità e questa antinomia? Da dove viene, per riprendere un’altra parola di Pascal, che noi siamo questo «mostro di contraddizioni» che non può mai soddisfare completamente se stesso? Se questo stato singolare è uno dei tratti distintivi dell’umanità, la scienza dell’uomo deve cercare di renderne conto.

— II —

Le soluzioni di questo problema che sono state proposte non sono, purtuttavia, né numerose né varie.

Due dottrine che hanno avuto un gran posto nella storia del pensiero, credono di togliere la difficoltà negandola, cioè facendo della dualità dell’uomo una semplice apparenza; è il monismo tanto empirista che idealista.

Nel primo i concetti non sono che delle sensazioni più o meno elaborate: consisterebbero interamente in gruppi di immagini simili alle quali una stessa parola darebbe una sorta di individualità; ma essi non avrebbero realtà al di fuori di queste immagini e di sensazioni delle quali queste sono i prolungamenti. Ugualmente, l’attività morale non sarebbe che un altro aspetto dell’attività interessata: l’uomo che obbedisce al dovere non farebbe che obbedire al suo interesse ben inteso. A queste condizioni, il problema scompare: l’uomo è uno e se si producono in lui gravi fibrillazioni è perché non agisce e non pensa conformemente alla sua natura. Il concetto, ben interpretato, non potrebbe opporsi alla sensazione della quale tiene l’esistenza e l’atto morale non potrebbe trovarsi in conflitto con l’atto egoista poiché procede, in fondo, da moventi utilitari se, nondimeno, non si sbaglia sulla natura vera della moralità. Sfortunatamente i fatti che pongono la questione sussistono interamente. Resta che l’uomo è stato, in ogni tempo, un inquieto e uno scontento; si è sempre sentito strattonato, diviso contro se stesso, e le credenze e le pratiche alle quali, in tutte le società, sotto tutte le civilizzazioni, ha attaccato il maggior prezzo, hanno avuto e hanno ancora per oggetto non di sopprimere queste divisioni inevitabili, ma di attenuarne le conseguenze, di dare loro un senso e uno scopo, di renderle più sopportabili, o perlomeno di consolarle. È inammissibile che questo stato di malessere universale e cronico sia stato il prodotto di una semplice aberrazione, che l’uomo sia stato l’operaio della sua propria sofferenza e che si sia stupidamente ostinato se veramente la sua natura lo predisponeva a vivere armonicamente; perché l’esperienza avrebbe dovuto, con il tempo, dissipare un così deplorevole errore. O perlomeno si dovrebbe spiegare da dove proviene questo inconcepibile accecamento. Si sa, del resto, quale grave obbiezione solleva l’ipotesi empirista. Essa non ha mai potuto spiegare come l’inferiore possa divenire il superiore, come la sensazione individuale, oscura, confusa possa divenire il concetto impersonale, chiaro e distinto, come l’interesse possa trasformarsi in disinteressamento.

Non è diversamente con l’idealismo assoluto. Anche per esso la realtà è una: essa è fatta unicamente di concetti allo stesso modo che per l’empirista è fatta esclusivamente di sensazioni. A una intelligenza assoluta che vedrebbe le cose tali quali sono, il mondo apparirebbe come un sistema di nozioni definite, legate le une alle altre da rapporti ugualmente definiti. Quanto alle sensazioni, esse non sono niente per se stesse; esse non sono che dei concetti mischiati e confusi gli uni negli altri. L’aspetto sotto il quale si rivelano a noi nell’esperienza viene unicamente dal fatto che noi non sappiamo distinguerne gli elementi. In queste condizioni, non ci sarebbe dunque alcuna opposizione fondamentale né tra il mondo e noi né tra le differenti parti di noi stessi. Ciò che noi crediamo di percepire sarebbe dovuto a un semplice errore di prospettiva che sarebbe sufficiente raddrizzare. Ma allora si dovrebbe costatare che essa si attenua progressivamente nella misura in cui il dominio del pensiero concettuale si estende, nella misura in cui noi prendiamo a pensare meno attraverso le sensazioni e maggiormente con i concetti, cioè nella misura in cui la scienza si sviluppa e diviene un fattore più importante della nostra vita mentale.

L’inquietudine umana, al contrario, sembra andar crescendo. Le religioni che insistono di più sulle contraddizioni nel mezzo delle quali noi ci dibattiamo, che si fissino più a dipingerci l’uomo come un essere tormentato e dolente, sono le grandi religioni dei popoli moderni, tanto che i culti grossolani delle società inferiori respirano e ispirano una gioiosa confidenza [6].

Ora, ciò che esprimono le religioni è l’esperienza vissuta dall’umanità: sarebbe ben sorprendente che la nostra natura si unifichi e si armonizzi se noi sentiamo che le nostre discordanze sono crescenti. Del resto, supponendo che queste discordanze non siano che superficiali e apparenti, bisognerebbe ancora rendere conto di questa apparenza. Se le sensazioni non sono niente al di fuori dei concetti, bisognerebbe ancora dire da dove viene che non ci appaiono per quello che sono, ma ci sembrano mischiati e confusi. Cosa potrebbe avergli imposto una indistinzione manifestamente contraria alla loro natura?

L’idealismo si trova qui in presenza di difficoltà inverse a quelle che hanno così sovente e così legittimamente obbiettato all’empirismo. Se non hanno mai spiegato come l’inferiore ha potuto divenire il superiore, come la sensazione pur restando se stessa ha potuto essere elevata alla dignità del concetto, è ugualmente malagevole comprendere come il superiore ha potuto divenire l’inferiore, come il concetto ha potuto alterarsi e degenerare da se stesso in maniera da divenire la sensazione. Questa caduta non può essere stata spontanea. Bisogna che essa sia stata determinata da qualche principio contrario. Ma non c’è spazio per un principio di questo genere in una dottrina essenzialmente monista.

Se si scartano queste teorie che sopprimono il problema più che risolverlo, le sole che hanno corso e meritano esame si limitano ad affermare il fatto che si tratta di spiegare, ma senza renderne conto.

C’è innanzitutto la spiegazione ontologica della quale Platone ha dato la formula. L’uomo sarebbe doppio perché in lui si rincontrano due mondi; quello della materia inintelligente e amorale da una parte, e dall’altra quello delle Idee, dello Spirito, del Bene. Poiché questi due mondi sono naturalmente contrari, essi lottano in noi e poiché noi abbiamo dell’uno e dell’altro noi siamo necessariamente in conflitto con noi stessi. Ma se questa risposta, tutta metafisica, ha il merito di affermare senza cercare di sminuirlo il fatto che si tratta di interpretare, egli si limita a ipostatizzare i due aspetti della natura umana senza renderne conto. Dire che noi siamo doppi perché ci sono in noi due forze contrarie è ripetere il problema in termini differenti, non è risolverlo. Inoltre dovrà dirci dove vengono queste due forze e qual è il perché della loro opposizione. Senza dubbio si può certo ammettere che il mondo delle Idee e del Bene abbia in se stesso la ragione della sua esistenza a causa dell’eccellenza che gli è attribuita. Ma com’è che c’è fuori di lui un principio del male, di oscurità, di non-essere? Quale ne può essere la funzione utile?

Ciò che si comprende ancora meno è come questi due mondi che tutto oppone che, per conseguenza, dovrebbero respingersi ed escludersi tendano invece a unirsi e a penetrarsi in modo da far nascere gli esseri misti e contraddittori che noi siamo. Il loro antagonismo, sembra, dovrebbe tenerli al di fuori l’uno dall’altro e rendere il loro matrimonio impossibile. Per calcare il linguaggio platonico, l’Idea – che è perfetta per definizione – possiede la pienezza dell’essere; essa si basta dunque a se stessa; essa non ha bisogno che di se stessa per esistere. Perché si abbasserebbe verso la materia il cui contatto non può che snaturarla e farla uscire da se stessa? D’altra parte, perché la materia aspirerebbe verso il principio contrario che essa nega e se ne lascerebbe penetrare? Infine, è l’uomo che è per eccellenza il teatro della lotta che noi abbiamo descritto; esso non si ritrova negli altri esseri. Nondimeno, l’uomo non è il solo luogo dove, secondo l’ipotesi, i due mondi dovrebbero incontrarsi.

Ancora meno esplicativa è la teoria della quale ci si contenta più correntemente: si fonda il dualismo umano non più su due principi metafisici che sarebbero alla base della realtà tutta intera, ma sull’esistenza in noi di due facoltà antitetiche. Noi possediamo a un tempo una facoltà di pensare sotto la specie di individuale – è la sensibilità – e una facoltà di pensare sotto la specie dell’universale e dell’impersonale – è la ragione –. Da parte sua la nostra attività presenta dei caratteri del tutto opposti, secondo che è posta sotto la dipendenza di moventi sensibili o di moventi razionali. Kant ha, più di tutti, insistito sul contrasto della ragione e della sensibilità, dell’attività razionale e dell’attività sensibile. Ma, se questa classificazione dei fatti è perfettamente legittima, essa non apporta al problema che ci occupa alcuna soluzione. Essendo dato che noi possediamo a un tempo un’attitudine a vivere di una vita personale e di una vita impersonale, quello che si tratta di sapere è non il nome che conviene dare a queste due attitudini contrarie ma come esse coesistano in un solo e stesso essere, a dispetto della loro opposizione. Da dove viene che noi possiamo concorremente partecipare di queste due esistenze? Com’è che siamo fatti di due metà che paiono appartenere a due esseri differenti? Quando si è dato un nome differente all’uno e all’altro, non si è fatta avanzare la questione di un passo.

Se ci si è troppo sovente soddisfatti di questa risposta tutta verbale è che, molto generalmente, si considera la natura mentale dell’uomo come una sorta di dato ultimo del quale non si debba rendere conto.

Si crede quindi che tutto è detto quando si è riattaccato questo o quel fatto, del quale si cerca la causa, a una facoltà umana. Ma perché l’animo umano, che non è in somma che un sistema di fenomeni per ogni punto comparabili agli altri fenomeni osservabili, sarebbe al di fuori o al di sopra della spiegazione? Noi oggi sappiamo che il nostro organismo è il prodotto di una genesi; perché sarebbe diversamente della nostra costituzione psichica? E se c’è in noi qualche cosa che chiama la spiegazione di una maniera urgente, è giustamente la strana antitesi che si trova a realizzare.

— III —

Del resto, ciò che abbiamo detto cammin facendo della forma religiosa sotto la quale si è sempre espresso il dualismo umano è sufficiente a far intravvedere che la risposta alla questione posta deve essere cercata in una direzione del tutto differente. Dappertutto, abbiamo detto, l’anima è considerata una cosa sacra; vi si vede una parcella della divinità che non vive se non per il tempo di una vita terrestre e che tende, come da se stessa, a ritornare verso il suo luogo d’origine. Per questo si oppone al corpo che è guardato come profano; e tutto ciò che attiene direttamente al corpo nella nostra vita mentale, le sensazioni, gli appetiti sensibili, partecipa dello stesso carattere. Le qualificano anche forme inferiori della nostra attività, tanto che alla ragione e all’attività morale si attribuisce una più alta dignità: queste sono le facoltà per le quali, ci dicono, noi comunichiamo con Dio.

Anche l’uomo più affrancato da ogni credenza confessionale si rappresenta questa opposizione sotto una forma se non identica perlomeno comparabile. Si presta alle nostre differenti funzioni psichiche un valore ineguale: esse sono gerarchizzate tra loro e sono quelle che attengono più al corpo che sono in basso della gerarchia. D’altronde noi abbiamo mostrato [7] che non c’è morale che non sia impregnata di religiosità; anche per lo spirito laico il Dovere, l’imperativo morale, è una cosa augusta e sacra e la ragione, quest’ausiliaria indispensabile dell’attività morale, ispira naturalmente dei sentimenti analoghi. Anche ad essa noi attribuiamo una sorta di eccellenza e di valore incomparabile.

La dualità della nostra natura non è, dunque, che un caso particolare della divisione delle cose in sacre e in profane che si trova alla base di tutte le religioni, ed essa si deve spiegare con gli stessi principi.

Ora, è precisamente questa spiegazione che noi abbiamo tentato nell’opera precedentemente citata su “Le forme elementari della vita religiosa”. Noi ci siamo impegnati a mostrare che le cose sacre sono semplicemente degli ideali collettivi che si sono fissati su degli oggetti materiali. Le idee e i sentimenti elaborati da una collettività quale che sia sono investiti, in ragione della loro origine, di un ascendente, di una autorità, che fanno sì che i soggetti particolari che le pensano e che le credono se le rappresentino sotto la forma di forze morali che li dominano e che li sostengono.

Quando questi ideali muovono la nostra volontà, noi ci sentiamo condotti, diretti, trascinati per delle singolari energie che, manifestamente, non vengono da noi ma si impongono a noi, per le quali abbiamo dei sentimenti di rispetto, di timore reverenziale, ma anche di riconoscenza a causa del conforto che noi ne riceviamo, poiché esse non possono comunicarsi a noi senza elevare il nostro tono vitale. E queste virtù sui generis non sono dovute ad alcuna azione misteriosa, sono semplicemente degli effetti di questa operazione psichica, scientificamente analizzabile, ma singolarmente creatrice e feconda, che si chiama la fusione, la comunione di una pluralità di coscienze individuali in una coscienza comune.

Ma, d’altra parte, delle rappresentazioni collettive non possono costituirsi se non incarnandosi negli oggetti materiali, cose, esseri di ogni sorta, figure, movimenti, suoni, parole, ecc., che le figurano esteriormente e le simbolizzano; perché è solamente esprimendo i loro sentimenti, nel tradurli attraverso un segno, nel simbolizzarli esteriormente che le coscienze individuali, naturalmente chiuse le une alle altre, possono sentire che esse comunicano e sono all’unisono [8]. Le cose che giocano questo ruolo partecipano necessariamente degli stessi sentimenti che gli stati mentali che esse rappresentano e materializzano, per così dire. Esse sono anche rispettate, rigettate o ricercate come delle potenze soccorritrici. Esse dunque non sono poste sullo stesso piano delle cose volgari che non interessano che la nostra individualità psichica; esse sono messe a parte rispetto a queste ultime; noi gli assegniamo un posto del tutto distinto nell’insieme del reale; noi le separiamo: è in questa separazione radicale che consiste essenzialmente il carattere sacro [9]. E questo sistema di concezioni non è puramente immaginario e allucinatorio, poiché le forze morali che queste cose risvegliano in noi sono ben reali, come sono reali le idee che le parole ci richiamano dopo essere servite a formarle. Da questo viene l’influenza dinamogena che le religioni hanno, in ogni tempo, esercitato sugli uomini.

Ma questi ideali, prodotti della vita di gruppo, non possono costituirsi – né, soprattutto sussistere – senza penetrare nelle coscienze individuali e senza organizzarsi in maniera durevole. Queste grandi concezioni religiose, morali, intellettuali, che le società traggono dal loro seno durante i periodi di effervescenza creatrice, gli individui le portano in sé una volta che il gruppo si è dissolto, che la comunione sociale ha fatto la sua opera. Senza dubbio una volta che l’effervescenza è caduta e che ciascuno, riprendendo la propria esistenza privata, si allontana dalla fonte da dove gli sono venuti questo calore e questa vita, questa non si mantiene nello stesso grado di intensità. Purtuttavia esse non si spengono perché l’azione del gruppo non si arresta completamente, ma torna perpetuamente a rendere a questi grandi ideali un po’ della forza che tendono a sottrargli le passioni egoiste e le preoccupazioni personali di ogni giorno: è ciò a cui servono le feste pubbliche, le cerimonie, i riti di ogni sorta. Solamente, venendosi così a mischiare alla nostra vita individuale questi diversi ideali si individualizzano essi stessi; strettamente in rapporto con le altre nostre rappresentazioni, si armonizzano con esse, con il nostro temperamento, il nostro carattere, le nostre abitudini, ecc..

Ciascuno di noi mette su di esse la propria impronta; è così che ciascuno ha il suo modo personale di pensare le credenze della propria Chiesa, le regole della morale comune, le nozioni fondamentali che servono da cornice al pensiero concettuale. Ma seppure particolarizzandosi e diventando così degli elementi della nostra personalità, gli ideali collettivi non smettono di conservare le loro proprietà caratteristiche, ovvero questo prestigio di cui sono rivestite. Pur essendo nostre, esse parlano in noi con tutt’altro tono e con un altro accento rispetto al resto dei nostri stati di coscienza: esse ci comandano, ci impongono il rispetto, noi non ci sentiamo sul loro stesso piano. Noi ci rendiamo conto che esse rappresentano in noi qualcosa di superiore a noi.

Non è dunque senza ragione che l’uomo si sente doppio: egli è realmente doppio. Ci sono realmente in lui due gruppi di stati di coscienza in contrasto per la loro origine, la loro natura, i fini ai quali essi tendono. 

Gli uni non esprimono che il nostro organismo e gli oggetti con i quali è più direttamente in rapporto. Strettamente individuali, essi non ci attaccano che a noi stessi e noi non possiamo più distaccarli dal nostro corpo. Gli altri, al contrario, ci vengono dalla società; essi la traducono in noi e ci attaccano a qualcosa che ci oltrepassa. Essendo collettivi, essi sono impersonali: ci volgono verso dei fini che ci sono comuni con gli altri uomini; è per essi e solo per essi che noi ci possiamo comunicare con gli altri. È dunque ben vero che noi siamo formati di sue parti e come di due esseri che, seppure essendo associati, sono fatti di elementi molto differenti e ci orientano in sensi opposti.

Questa dualità corrisponde, insomma, alla doppia esistenza che noi conduciamo correntemente: l’una puramente individuale, che ha le sue radici nel nostro organismo, l’altra sociale che non è che il prolungamento della società. La natura stessa degli elementi entro i quali esiste l’antagonismo che noi abbiamo descritto testimonia che tale ne è l’origine. In effetti, è tra le sensazioni e gli appetiti sensibili da una parte, la vita intellettuale e morale dall’altra, che hanno luogo i conflitti dei quali abbiamo dato degli esempi. Ora, è evidente che passioni e tendenze egoiste derivano dalla nostra costituzione individuale, mentre la nostra attività ragionevole, tanto teorica che pratica, dipende strettamente da cause sociali. Noi abbiamo avuto molto sovente l’occasione di stabilire che le regole della morale sono delle norme elaborate dalla società [10]; il carattere obbligatorio di cui sono marcate non è altra cosa che l’autorità stessa della società si comunica da tutto ciò che viene da essa. D’altra parte, nel libro che è l’occasione del presente studio e al quale non possiamo che rinviare, noi ci siamo sforzati di far vedere che i concetti, materia di ogni pensiero logico, erano alla loro origine delle rappresentazioni collettive: l’impersonalità che li caratterizza è la prova che sono il prodotto di un’azione anonima e essa stessa impersonale [11]. Noi abbiamo ugualmente trovato ragioni per congetturare che le categorie sono state formate sul modello delle cose sociali [12].

Il carattere doloroso di questo dualismo si spiega con questa ipotesi. Senza dubbio se la società non fosse che lo sviluppo naturale e spontaneo dell’individuo, queste due parti di noi stessi s’armonizzerebbero e si aggiusterebbero l’una all’altra senza urti e senza frizioni: la prima, non essendo che il prolungamento e come il compimento della seconda, non incontrerebbe in questa alcuna resistenza. Ma, di fatto, la società ha una natura propria e, di conseguenza, delle esigenze del tutto differenti da quelle che sono implicate nella nostra natura di individuo.

Gli interessi del tutto non sono necessariamente quelli della parte; è perché la società non può formarsi né mantenersi senza reclamare da noi dei perpetui sacrifici che ci costano. Per il solo suo oltrepassarci, essa ci obbliga a oltrepassarci noi stessi; e oltrepassare se stesso è, per un essere, uscire in qualche misura dalla sua natura, ciò che non va senza una tensione più o meno penosa.

L’attenzione volontaria è, come si sa, una facoltà che non si sveglia in noi che sotto l’azione della società. Ora, l’attenzione suppone lo sforzo; per essere attenti dobbiamo sospendere il corso spontaneo delle nostre rappresentazioni, impedire la coscienza di lasciarsi andare al movimento della dispersione che la trascina naturalmente, in una parola, fare violenza a certe delle nostre inclinazioni più imperiose. E come la parte dell’essere sociale nell’essere completo che noi siamo diviene sempre più considerevole nella misura che si avanza nella storia, è contrario a ogni verosimiglianza che debba mai aprirsi un’era dove l’uomo sarà meno dispensato dal resistere a se stesso e potrà vivere una vita meno tesa e più agevole. Tutto fa prevedere, al contrario, che il posto dello sforzo andrà sempre crescendo con la civilizzazione.

[Titolo originale: Le dualisme de la nature humaine et ses conditions sociales, «Scientia», XV, 1914, pp. 206-221 – * Traduzione 2016 © Fabrizio Pinna (contatto su Twitter: @effepi70) – Diritti riservati]

Durkheim 10(**) Tratto da Émile Durkheim, La società tra filosofia e scienza: Rappresentazioni individuali e collettive, a cura di Fabrizio Pinna, Pieffe Edizioni, (in preparazione)

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NOTE AL TESTO

Le note sono tutte dello stesso Durkheim; con riferimenti alle prime edizioni francesi consultabili in riproduzione anastatica digitale nel sito di Gallica – Bibliothèque nationale de France.

[1] Alle sensazioni bisognerà aggiungere le immagini; ma siccome queste non sono che le sensazione che sopravvivono a se stesse, ci sembra inutile menzionarle separatamente. Lo stesso di quei conglomerati di immagini e di sensazioni che sono le percezioni.

[2] Ci sono senza dubbio inclinazioni egoiste che non hanno per oggetto delle cose materiali. Ma gli appetiti sensibili sono il tipo (type) per eccellenza delle tendenze egoiste. Noi crediamo anche che le inclinazioni che ci attaccano a un oggetto di altro genere, quale che sia il ruolo che ne gioca il movente egoista, implica necessariamente un movimento di espansione fuori di noi che oltrepassa il puro egoismo. È il caso, per esempio, dell’amore della gloria, del potere, ecc.

[3Si veda la nostra comunicazione alla Società francese di filosofia su “La determinazione del fatto morale” («Bulletin de la Sociéte Française de Philosophie», 1906, p. 113 e segg.).

[4] Non intendiamo rifiutare all’individuo la facoltà di formare dei concetti. Egli ha appreso dalla collettività a formare delle rappresentazioni di questo genere. Ma anche i concetti che egli così forma hanno lo stesso carattere degli altri: essi sono costruiti in modo da poter essere universalizzati. Anche quando sono l’opera di una personalità essi sono, in parte, impersonali.

[5] Noi diciamo “nostra individualità” e non “nostra personalità”. Sebbene le due parole siano spesso prese l’una per l’altra, è importante distinguerle con circospezione. La personalità è fatta essenzialmente di elementi sopra-individuali. Si veda su questo punto “Le forme elementari della vita religiosa”, pp. 386-390).

[6] Si veda “Le forme elementari della vita religiosa”, pp. 30-321,580

[7] Si veda “La determinazione del fatto morale” nel «Bulletin de la Sociéte Française de Philosophie», 1906, p. 125

[8] “Le forme elementari della vita religiosa”, p. 329 e seg.

[9Ibid, p. 53 e seg.

[10] “La divisione del lavoro sociale”, passim. Cfr. “La determinazione del fatto morale” nel «Bulletin de la Sociéte Française de Philosophie», 1906.

[11] “Le forme elementari della vita religiosa”, p. 616 e seg.

[12] Ibid., pp. 12-28, p. 205 e seg., p. 336 e seg., pp. 386, 508, 627.