Il pubblico come elemento della produzione letteraria

MANUEL DE LA REVILLA – Sebbene a prima vista sembri che il pubblico sia meramente passivo e, pertanto, non intervenga direttamente nella produzione letteraria, una riflessione più attenta mostra l’esatto contrario, ed evidenzia che il pubblico è un elemento attivo della produzione in quanto, essendo l’obbiettivo di ogni artista quello di offrire alla contemplazione del pubblico le sue creazioni e sollecitare la sua approvazione, è evidente che a un simile fine debba indirizzare tutti i suoi sforzi, e che il giudizio del pubblico debba, di conseguenza, avere un’influenza decisiva sulla produzione letteraria.

Considerando il pubblico in senso stretto e nell’accezione che gli si dà abitualmente, esso non è altra cosa che il congiunto di individui di fronte ai quali l’artista produce la sua opera e che immediatamente devono conoscerla e giudicarla.

Questo pubblico, che si può chiamare contemporaneo, è quello che esercita un’influenza più diretta e decisiva sull’artista, nel manifestargli la sua approvazione o censura e talvolta nell’imporgli i suoi gusti e affezioni; però, oltre a questo pubblico, influisce nella produzione letteraria anche la posterità, quello che può chiamarsi il pubblico futuro, in quanto l’artista produce per esso tanto quanto per gli uomini che lo circondano. A ciò bisogna aggiungere che l’artista non produce solamente per il suo popolo, ma anche per tutti gli altri.

L’Arte, infatti, non è solamente un’opera locale e temporale, ma deve estendere la sua azione all’umanità e alla storia intera. Il vero artista, quello che desidera per la sua opera quell’importanza sociale, quella duratura influenza alla quale nella lezione precedente ci siamo riferiti, produce non solo per il suo popolo ma per tutta l’umanità colta, non solo per i suoi contemporanei ma per la posterità, tenendo simultaneamente in conto dei giudizi del passato.

S’ispira perciò alle tradizioni del passato, specialmente le nazionali, e allo stesso tempo agli ideali del presente, e non poche volte a quelli dell’avvenire; cerca gli applausi dei contemporanei e aspira a quelli della posterità, e riflette nella sua opera ciò che è proprio del momento storico nel quale vive e simultaneamente ciò che è comune a tutti i tempi.

In questo modo, allacciando la storia passata con la presente, anticipando nell’idea la futura, essendo veramente umano ed eterno, quantunque senza smettere per questo di essere figlio del suo tempo e del suo popolo, l’artista può conseguire il lauro e l’immortalità che accompagnano tutto ciò che è realmente universale e umano. Per questo necessita di ispirarsi non solo all’accidentale e passeggero, ma al permanente, comprendere con uguale amore tutto ciò che è bello, buono e vero in ogni tempo e popolo, senza perdere per questo la propria originalità né rompere le sue relazioni particolari, però cercando di vedere ed esprimere anche nel più determinato ciò che è universale e imperituro.

È ora facile comprendere che anche lo stesso pubblico futuro influisce sulla produzione letteraria, in quanto in vista di esso, tanto quanto del contemporaneo, determina l’artista la direzione del suo ingegno, mosso dalla nobile ambizione di essere degno dell’applauso della posterità. Resta ora da dire quanta sia l’influenza che esercita nella produzione letteraria il pubblico contemporaneo.

Questo si divide in colto, affezionato (dilettante) e incolto, a seconda che conosca i principi e le leggi sufficienti per pronunciare un giudizio ragionato sull’opera, o semplicemente abbia amore e simpatia per l’Arte letteraria però manchi di principi, o sia interamente carente di una come dell’altra qualità e veda nell’opera d’arte solo un intrattenimento come un qualsiasi altro.

Si nota naturalmente che l’artista produce la sua opera per tutti questi lignaggi di pubblico, il cui giudizio stima senza dubbio in grado diverso, preferendo l’applauso del colto a quello dell’affezionato e questo a quello dell’incolto, e dirigendosi più ai primi che all’ultimo. Suole accadere, tuttavia, che un malinteso affanno di popolarità o un meschino desiderio di lucro spingano l’artista a piegarsi al gusto e alle esigenze del pubblico incolto, che è il più numeroso, esponendosi in cambio agli anatemi della critica e dell’opinione illuminata. Però queste sono debolezze censurabili che non devono ergersi a regola, ma essere considerate severamente.

L’influenza che il pubblico contemporaneo esercita sulla letteratura è straordinaria. Questa influenza è di due generi, poiché si esercita su ogni autore in particolare e sulla marcia generale dell’Arte letteraria. Il pubblico, nell’approvare o disapprovare le opere letterarie, modifica non poche volte il genio e le tendenze dell’autore, suole imporgli determinate direzioni, lo fa conformare ai suoi gusti, e se in alcune occasioni lo corrompe e svia, in altre lo migliora. È certo che (come abbiamo detto nella lezione precedente) l’artista influisce a sua volta sul pubblico e riesce a imporglisi, cambiando le sue affezioni e gusti; però quest’influenza è controbilanciata da quella che abbiamo appena esposto.

Il pubblico crea inoltre vere correnti nella vita generale dell’Arte letteraria, e alcune volte diretta dagli ingegni altre per suo proprio impulso, porta a termine rivoluzioni importanti. La creazione del nostro teatro nazionale nel secolo XVI, contro le tendenze della poesia erudita, il movimento romantico del presente secolo e altri fatti simili, sono prova spontanea dell’istinto popolare, senza dubbio coadiuvato da geni imminenti, e prova conclusiva della verità di queste affermazioni. Questi movimenti sogliono essere profittevoli o funesti, poiché a volte il pubblico corrompe e perverte il gusto letterario, soprattutto se incontra negli artisti non direttori illuminati ma cortigiani compiacenti.

Il gusto come base di questo giudizio – Il pubblico esercita questa influenza pronunciandosi sulle opere che gli artisti offrono alla sua contemplazione. Questo pronunciamento è il risultato dell’esercizio di una facoltà speciale che si chiama gusto.

Il gusto è una facoltà che risulta dall’esercizio combinato delle facoltà intellettuali e della sensibilità, e che consiste nel sentire e apprezzare la bellezza o la gradevolezza delle cose. Si applica a ogni genere di oggetti, e si estende a tutte le sfere della vita, però principalmente suole riferirsi all’apprezzamento degli oggetti sensibili.

La base del gusto è un istinto incosciente e soggettivo, più tardi perfezionato dall’educazione. Quando il gusto si riferisce al puramente sensuale (come accade nel senso che si chiama del gusto), non si fonda mai su alcuna ragione ma in movimenti istintivi, però si fa più delicato con l’educazione. Quando si riferisce a oggetti che producono emozioni più elevate, il gusto acquisisce un carattere riflessivo ed entrano in esso elementi intellettuali, però conservando sempre una base soggettiva, affettiva o istintiva, in certo modo. Così, nell’apprezzamento degli oggetti che la vista o l’udito percepiscono, il gusto ha fondamenti più oggettivi rispetto a quelli che ineriscono i sensi inferiori.

Riferito agli oggetti che causano un’emozione estetica, il gusto si denomina artistico. Questo genere di gusto è il più elevato e perfetto, però non perde mai completamente i caratteri indicati. C’è sempre in esso qualcosa di istintivo o incosciente, qualcosa di immotivato o involontario, essendo per questo molto generale che la maggior parte della gente non sappia fondarlo su alcun principio.

Un atto istintivo di adesione al bello, nato immediatamente dall’emozione estetica, è l’inizio storico del gusto artistico. Più tardi, l’abitudine di contemplare gli oggetti belli e distinguerli dai brutti (cioè, di distinguere quelli che piacciono da quelli dispiacciono), va depurando ed educando il gusto, e spogliandolo in parte del suo carattere istintivo; però rare volte lo perde completamente, e per molto che sia ciò che guadagna in cultura, non è mai altra cosa dalla manifestazione spontanea, in forma di giudizio, dell’emozione estetica.

Il gusto è, per questo, un giudizio derivato da un sentimento, e non da un principio, ed è, pertanto, necessariamente soggettivo. Da qui il fatto che dipenda da una moltitudine di circostanze puramente individuali, come l’organizzazione generale dell’individuo, la sua educazione, le sue idee speciali, l’ambiente in cui vive, etc.. Da qui anche il fatto che con difficoltà possa essere base di giudizi oggettivi e universali.

È così certo questo, che non poche volte nello stesso individuo i suoi gusti circa un oggetto, e i suoi giudizi soggettivi rispetto allo stesso, sono in disaccordo, ora affermando di una cosa che è bella però che non gli piace, ora dicendo il contrario. Una relazione di sentimento (l’amore, per esempio) può bastare a produrre questa contraddizione (così dice il proverbio volgare: Chi ama il brutto, bello gli sembra).

Questo carattere soggettivo del gusto è la causa della sua varietà e della sua frequente inconseguenza. Il giudizio oggettivo e razionale circa la bellezza di un oggetto non varia mai; il gusto cambia a ogni passo, e si assoggetta non poche volte all’impero della moda. Ugualmente, il giudizio oggettivo è uguale in tutti gli uomini (una volta formulato e da questi riconosciuto), e il gusto varia da popolo a popolo e da individuo a individuo.

Nasce da qui una questione estremamente difficile, qual è quella dell’universalità del gusto. Questa questione offre, all’apparenza, una vera antinomia formulata in queste due proposizioni contraddittorie, accettate ad ogni passo dall’uso comune, ovvero: a tutti piace il buono; sui gusti non c’è disputa, o sui gusti non c’è nulla di scritto. La prima di queste massime afferma conclusivamente l’universalità del gusto; la seconda proclama il suo carattere variabile e soggettivo.

La questione, a prima vista insolubile, non offre difficoltà ponendola nei suoi veri termini. Che il buono (e nel caso presente, il bello) piaccia a tutti, è esatto, se per gusto si intende il riconoscimento delle sue eccellenze; non lo è se si intende il piacere e l’adesione soggettivi, che si suole chiamare gusto, poiché è molto frequente che riconoscendo la bellezza di una cosa, si dichiari tuttavia che a noi non piace, e viceversa. E in più, qui si confonde il giudizio oggettivo con il gusto, poiché non è nemmeno certo che il bello piaccia a tutti, né che tutti lo ritengano tale. In un certo grado di incultura, l’uomo o non è capace di apprezzare il bello o si sbaglia grandemente nel suo apprezzamento. Come si deve applicare, per esempio, la predetta massima al selvaggio che considera brutto il volto che non è tatuato o che non è nero?

Che il gusto è soggettivo, è certo, intendendolo come lo intendiamo qui; però questa soggettività del gusto non impedisce che ci possano essere giudizi generali, se non universali, circa la bellezza degli oggetti. Ci sono certe bellezze così evidenti e luminose, che non c’è chi possa negarle a meno di non essere fuori di senno; lo stesso selvaggio, prima citato, non afferma mai che il sole è brutto; però, a parte questo, pur essendo il gusto soggettivo, c’è conformità in quello di un gran numero di individui, soprattutto se è depurato dall’educazione e completato con il giudizio oggettivo del bello. Tra vari uomini, tutti conoscitori dei principi dell’Estetica, ci sarà conformità di gusti in una moltitudine di casi, soprattutto se si tratta di bellezze perfette; così, non c’è uomo illuminato che non riconosca la bellezza del Don Chisciotte quale che sia il suo gusto individuale.

Si universalizza il gusto e si volge da soggettivo a oggettivo, in effetti, quando all’emozione estetica si aggiunge il giudizio oggettivo del bello, mediante la conoscenza dell’idea di questo. In tale caso l’oggetto piace ed è dichiarato bello a ragione della sua conformità con l’idea della bellezza, per l’apprezzamento delle sue qualità estetiche. Il gusto, in questo caso, è la manifestazione riflessiva non dell’emozione estetica ma della conoscenza razionale del bello, e può essere il fondamento della critica.

Il giudizio del pubblico incolto e dell’affezionato non è mai altra cosa dal giudizio soggettivo, fondato sul gusto, o al più su una sommaria analisi dell’opera, però non su principi scientifici. Questo genere di pubblico dichiara che l’opera è buona perché gli piace, e non che gli piace perché è buona, e si lascia portare dalle sue impressioni senza per nulla tenere in conto dei principi. Da qui il fatto che se a volte ha giudizi di grande giustezza, altre incorre in lamentabili errori; da qui il carattere incostante e volubile delle sue opinioni, e da qui anche la funesta influenza che suole esercitare sull’Arte, sostituendo ai principi razionali della sana critica i capricci arbitrari del suo gusto, gli irriflessivi risultati delle sue impressioni.

Non ci sarebbe, pertanto, regola sicura né criterio fisso nel giudizio delle opere d’arte, né norma per gli autori, se il gusto del pubblico fosse l’unico giudice. Per questo è necessario che si formulino giudizi riflessivi, fondati ad un tempo sul gusto e sui principi della scienza; di formulare questi giudizi, che sono la più elevata manifestazione del gusto, si incarica il pubblico illuminato, e specialmente coloro che si dedicano all’esercizio della critica.

**Traduzione / 2017: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati. estratto da Manuel de la Revilla (1846-1881) – Pedro Alcántara García (1842-1906), Principios generales de literatura e historia de la literatura española, Madrid: 1877

NOTA AL TESTO (Note a margine)

(effe)Alcuni (ap)punti interrogativi di lettura.
I. La celebrità o la gloria? “Ma in fine, che è questo ricorrere che facciamo alla posterità?” (Leopardi, 1824: Il Parini ovvero della Gloria). Esiste ancora – come auspicava, secondo un èthos di tradizione millenaria, Manuel de la Revilla – qualche scrittore davvero “mosso dalla nobile ambizione di essere degno dell’applauso della posterità”? O anche la letteratura e i letterati sono stati ormai “tutti” (sic) travolti irrimediabilmente dall’economia e da un pubblico contemporaneo sempre meno esigente, in grado di vedere “nell’opera d’arte solo un intrattenimento come un qualsiasi altro” e dunque destinato a essere completamente assorbito – con status e presenza marginale, come la lettura… – dalle pervasive “industrie dell’intrattenimento” in competizione su scala globale, mainstream descritto nel 2010 da Frédéric Martel (n. 1967) in una sua nota inchiesta (*) sulla “geopolitica della cultura e dei media nel mondo”?

II. Prendendo spunto proprio dal libro di Martel – e da alcune tesi di Guy Debord (1931-1994) –, questa ipotesi tanto suggestiva quanto apocalitticamente estrema e opinabile, è stata ultimamente sostenuta in un saggio (2012) dal nobel peruviano Mario Vargas Llosa (n. 1936), il quale in buona sostanza registrava, per la nostra epoca, proprio un simile epilogo. «La differenza essenziale tra la cultura del passato e l’intrattenimento di oggi – sostiene Vargas Llosa – è che i prodotti di quella pretendevano di trascendere il tempo presente, di durare, di permanere vivi nelle generazioni future, mentre i prodotti di questo sono fabbricati per essere consumati sul momento e scomparire, così come i biscotti o i pop corn. Tolstoj, Thomas Mann, o ancora Joyce e Faulkner, scrivevano libri che pretendevano di sconfiggere la morte, di sopravvivere ai loro autori, di continuare ad attrarre e affascinare i lettori nei tempi futuri. Le telenovele brasiliane e i film di Bollywood, così come gli show di Shakira, non pretendono di durare più del tempo della loro presentazione, scomparendo per fare spazio ad altri prodotti ugualmente di successo ed effimeri. Cultura è divertimento, e ciò che non è divertente non è cultura» (**).

III. Brevi successi mondani e divertimenti effimeri non sono certo nati oggi, né sono prerogativa esclusiva della nostra epoca o della nostra società. Il fatto che ora abbiano acquisito – per ragioni politiche ed economiche – alcuni inediti caratteri “globalizzati” non scalfisce minimamente questa ovvietà storica. Quella di Vargas Llosa è una rilevante testimonianza in prima persona di cambiamenti in corso da molti decenni (difficile non pensare anche a Celebrity, un film “minore” di Woody Allen uscito nel 1998), ma il sofisma è evidente: criticare una mela perché fa la mela e non la triglia, non ha alcun senso. Nostalgia e lamento per la perdita di influenza, prestigio e visibilità sociale dello scrittore/intellettuale (“l’intellectuel engagé”…), oggi relegato ai margini dell’opinione pubblica e dell’immaginario popolare dove i “miti” di riferimento abitano, appunto, più platealmente il mondo della musica e del cinema commerciali, dello sport, della televisione…? In fondo, soprattutto – se non solamente – di questo si tratta. Lo si comprende bene se si tiene conto delle forme che ha assunto oggi, in particolare nei regimi democratici, la cosiddetta “Celebrity Politics” sulla quale ha fatto il punto lo studioso britannico Mark Wheeler (2013) indagando le due facce della medaglia, quella dei politici celebrità e quella delle celebrità politicizzate (“Celebrity politicians and politicized celebrities”). Degrado o risorsa per le democrazie? Questo è un altro discorso.

IV. Non conosco nei dettagli le statistiche di vendita, ma azzardo l’ipotesi verosimile che oggi in Italia circolino più copie dei libri di Fabio Volo o di Bruno Vespa che di Mario Vargas Llosa. La cosa non mi entusiasma molto, tuttavia l’accostamento è certo più pertinente di fantasiosi e arbitrari paralleli tra Shakira e Thomas Mann (o tra Carolina Invernizio e David Bowie…). Ma su questo, sebbene un po’ edulcorate, ritengo più che valide e difficilmente contestabili le considerazioni di uno studioso della stessa generazione di Vargas Llosa, il sociologo della letteratura Vittorio Spinazzola (n. 1934): «Si sa che il successo è sempre stato una bestia nera per i cosiddetti detentori del gusto, ossia i ceti o caste che godono di una fiducia speciale nella selezione e valorizzazione dei testi in commercio; lo scrittore che non abbia sostenitori di prestigio è perciò stesso considerato di serie B, per quanto numerosi siano i suoi estimatori, che non contano. Qui però interviene la questione editoriale, che porta in primo piano i bilanci dell’imprenditoria libraria. […] Naturalmente ogni scrittore va, deve andare, dove la sua disposizione d’animo lo porta: si scrive per i pochi o per i molti, per gli esigenti o per gli accomodanti, per gli innovatori o per i tradizionalisti. In una struttura culturale pienamente matura non hanno senso gli esclusivismi: c’è posto per tutti.».
Anche, si può aggiungere chiudendo in circolo la domanda iniziale, per lo scrittore che volesse continuare (o iniziare) a coltivare l’antica e “nobile ambizione di essere degno dell’applauso della posterità”.

V. SUI LIBRI CITATI. I Riferimenti sono a:
(*) Frédéric Martel, Mainstream : enquête sur la guerre globale de la culture et des médias, Paris, Flammarion, 2010; tr. it.: Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media, Milano, Feltrinelli, 2010 [«un libro di geopolitica della cultura e dei media nel mondo. È un testo sulla globalizzazione dell’intrattenimento e si occupa di ciò che fanno le persone quando non lavorano, di quelli che si chiamano svaghi o divertimenti – spesso si parla di “industrie dell’intrattenimento”»];
(**) Mario Vargas Llosa, La civilización del espectáculo, Madrid, Alfaguara, 2012 [per comodità (mia) ho tradotto il passo sopra citato direttamente dall’edizione spagnola, ma il libro è uscito quasi contemporaneamente anche nella traduzione italiana di Federica Niola: La civiltà dello spettacolo, Torino, Einaudi, 2013]
(***) Mark Wheeler, Celebrity Politics, Cambridge (GB): Polity Press, 2013
(****) Vittorio Spinazzola, Apologia degli scrittori giornalisti, in Tirature 2015. Gli intellettuali che fanno opinione, (a cura di V. S.), Milano: il Saggiatore / Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2015, pp. 11-14. [Il testo è consultabile nel sito della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori: http://www.fondazionemondadori.it/cms/culturaeditoriale/759/tirature-15-gli-intellettuali-che-fanno-opinione]