Grazia Deledda: Il cinghialetto (racconto)

GRAZIA DELEDDA – Appena aperti gli occhi alla luce del giorno, il cinghialetto vide i tre più bei colori del mondo: il verde, il bianco, il rosso, sullo sfondo azzurro del cielo, del mare e dei monti lontani.
In mezzo al verde delle querce le cime dei monti vicini apparivano candide come nuvole alla luna, ma già intorno al nido del cinghialetto rosseggiava il musco fiorito, e i macigni, le chine, gli anfratti rocciosi ne eran coperti come se tutti i pastori e i banditi passati lassù avessero lasciato stesi i loro giubboni di scarlatto e anche qualche traccia del loro sangue. Come non essere arditi e prepotenti in un simile luogo? Appena la giovane cinghialessa ebbe finito di lisciare e leccare i suoi sette piccini attaccati alle sue mammelle dure come ghiande, l’ultimo nato di essi, il nostro ardito cinghialetto, sazio e beato si slanciò dunque nel mondo, cioè al di là del cerchio d’ombra della quercia sotto cui era nato. La madre lo richiamò con un grugnito straziante; ma la bestiuola tornò indietro solo quando vide, sul terreno soleggiato, la figura di un altro cinghialetto col suo bravo codino in su, attorcigliato come un anello: la sua ombra.
Passò un giorno e una notte; anche i fratellini si avanzarono verso il sole e tornarono spaventati dalla loro ombra; la cinghialessa sgretolò le ultime ghiande rimaste fra il musco, grugnendo per richiamare i piccini; e sei di essi, tutti eguali, col pelo a strisce dorate e morate come nastri di seta, accorsero inseguendosi e saltandosi addosso gli uni su gli altri: il settimo, quello che primo s’era avventurato pel mondo, non tornò. La madre volse attorno gli occhi dolci e selvaggi dalle palpebre rossicce, grugnì mostrando le zanne candide come i picchi dei monti, ma il cinghialetto non rispose, non tornò più.

Viaggiava, palpitando, grugnendo, dibattendosi invano entro la calda bisaccia d’un piccolo pastore. Addio, montagna natia, odore di musco, dolcezza di libertà appena gustata come il latte materno! Tutti gli spasimi della ribellione e della nostalgia vibravano nel ringhio del prigioniero; e non è da augurarsi neanche al nostro peggiore nemico lo strazio della sua lunga reclusione sotto un cestino capovolto. Passano le ore e i giorni: una piccola mano che pare coperta da un guanto oscuro, tanto è dura e sporca, introduce una scodella di latte sotto il cestino, e due grandi occhi neri spiano attraverso le canne della fragile prigione. Una vocina benevola parla al cinghialetto.
— Morsichi? Se non morsichi ti tiro fuori; se no buona notte e addio!
Il prigioniero grufola, soffia attraverso le canne; ma il suo grugnito è amichevole, supplichevole anzi, e la manina nera solleva il cestino; il cinghialetto lascia titubante il suo carcere e annusa il terreno intorno. Com’era diverso il mondo luminoso della montagna dal piccolo mondo scuro di questa cucina bassa e desolata, di cui il bambino, fratello del pastore, ha chiuso per precauzione la porta. Il focolare è spento; entro il forno, ove il cinghialetto spinge le sue nuove esplorazioni, sta ad essiccare un po’ d’orzo per il pane della povera famiglia.
— Be’, non vieni più fuori? Non sporcare l’orzo; non ne abbiamo altro e mia madre va a lavare i panni dei prigionieri per campare, e mio padre è in carcere… — disse il bambino, curvandosi sulla bocca del forno.
Come colpito da quelle notizie il cinghialetto saltò fuori e i suoi piccoli occhi castanei dalle palpebre rossicce fissarono i grandi occhi neri del bambino: si compresero e da quel momento si amarono come fratellini. Per giorni e giorni furono veduti sempre assieme; il cinghialetto annusava i piedini sporchi del suo amico, e l’amico gli lisciava il pelo dorato e morato, o introduceva il dito nell’anello del suo codino.
Giorni sereni passavano per i due amici; il cinghialetto grufolava nel cortile roccioso che gli ricordava la montagna natia, e il bambino si sdraiava al sole e imitava il grugnito della bestiuola.

Un giorno passò nel viottolo una bella paesana alta ed agile e bianca e rossa come una bandiera, seguita da un ragazzetto il cui viso roseo pareva circondato da un’aureola d’oro.
Vedere il cinghialetto e gridare:
— Oh che bellino! Lo voglio! — fu tutt’una cosa per il bel fanciullo dai capelli d’oro. Ma il cinghialetto filò dritto in cucina e dentro il forno, mentre il suo padrone s’alzava, nero nel sole, minaccioso.
— È tuo? — domandò la paesana.
— Mio.
— Dammelo; ti do una lira — disse il signorino biondo.
— Non te lo do neanche se crepi.
— Maleducato, così si parla?
— Se non te ne vai ti rompo la testa a colpi di pietra…
— Pastoraccio! Lo dirò a papà…
— Andiamo, andiamo, — disse la paesana, — glielo dirò io a sua madre.

Infatti tornò, qualche sera dopo, mentre nella cucina desolata la lavandaia dei carcerati parlava col suo bambino come con un uomo anziano.
— Sì, Pascaleddu mio, — si lamentava, ansando e torcendo il suo grembiale bagnato, — se tuo padre non viene assolto, non so come faremo; io non ne posso più, con quest’asma; e quel che guadagna il tuo fratellino non basta neanche per lui. Che fare, Pascaleddu mio? E l’avvocato, come pagarlo? Ho impegnato la mia medaglia e i miei bottoni d’argento, per prendere l’orzo: dove andrò, se mi continua questo male?…
La paesana agile e rossa entrò nella povera cucina, sedette accanto al focolare spento.
— Dov’è il cinghialetto, Pascaleddu? — domandò guardandosi attorno. Il bambino andò a mettersi davanti al forno, la guardò, selvaggio e sprezzante, rispose una sola parola:
— Vattene!
— Maria Cambedda, — disse allora la paesana, rivolta alla donna che sbatteva il suo grembiale per farlo asciugare, — lo sai che sto al servizio di un giudice. Nei dibattimenti egli fa da pubblico ministero. La mia padrona è una riccona; hanno un figlio unico, un diavoletto che fa tutto quello che vuol lui. Il padre non vede che per gli occhi di suo figlio. Adesso il ragazzo è malato, mangia troppo! E padre e madre sembrano pazzi di dolore. Senti, l’altro giorno il ragazzo ha veduto un cinghialetto, qui nel vostro cortile, e lo vuole. Dammelo; o meglio domani mandalo con Pascaleddu; se c’è da pagare si paga.
— Il tuo padrone è giudice? — disse la donna, ansando. — Allora tu puoi dire una buona parola per mio marito: fra giorni si discuterà il suo processo. Se egli non viene assolto, io sono una donna morta…
— Io non posso parlar di queste cose al mio padrone…
— Ebbene, domani Pascaleddu porterà il cinghialetto; digli almeno, al tuo padrone, che il bambino è figlio del disgraziato Franziscu Cambedda… Digli che ho l’asma; che moriamo di fame…
La paesana non promise nulla: tutti sapevano che Franziscu Cambedda era colpevole.

Il cinghialetto viaggiava di nuovo, ma questa volta attraverso la piccola città e fra le braccia del suo amico. I due cuoricini, l’uno accanto all’altro, palpitano d’ansia e di curiosità; ma se il bambino sa che deve tradire il suo amico, questi non si decide a credere che il suo amico possa tradirlo, e allunga il piccolo grifo al di sotto del braccio di Pascaleddu e con un occhio solo guarda le case, la gente, le strade, i monelli che lo seguono fino alla palazzina del giudice e uno dei quali, arrivati laggiù, s’incarica di picchiare alla porta e di gridare alla bella serva apparsa sul limitare:
— Pascaleddu piange perché non vuol darvi il suo cinghialetto: se non fate presto a prenderglielo scappa e non ve lo dà più!…
— Non è vero, non piango; andate tutti al diavolo! — gridò Pascaleddu cercando di deporre il cinghialetto tra le braccia della serva: ella però lo fece entrare, mentre giusto in quel momento il giudice, con un plico di carte sotto il braccio, usciva per andare in Tribunale. Era un uomo piccolo e grasso, pallido, con due grandi baffi neri e gli occhi melanconici.
— Che c’è? — domandò, mentre la serva gli toglieva un filo bianco dalla manica della giacca.
— C’è questo bambino che porta il suo cinghialetto a signoriccu: è il figlio di quel disgraziato Franziscu Cambedda che è in carcere: son tanto poveri… muoiono di fame… la madre ha l’asma…
Il giudice scosse la mano come per significare «ce n’è abbastanza» e disse, guardando Pascaleddu:
— Dagli qualche cosa.
La serva condusse il bimbo nella camera bianca e luminosa ove signoriccu, seduto sul lettuccio e avvolto in uno scialle, guardava un libro pieno di figure strane: erano donne e uomini coperti di pellicce, di teste di volpe, di code di faina; erano pelli d’orso, di leopardo, di cinghiale: si vedeva bene che il fanciullo dai capelli d’oro amava le bestie feroci. Appena vide il cinghialetto buttò il libro e tese le braccia gridando:
— Dammelo, dammelo!
La mamma, una bella signora alta e bionda in vestaglia azzurra, si curvò su lui spaventata.
— E che, lo vuoi a letto, amor mio? Sporca tutto, sai: lo mettiamo in cucina, e appena ti alzerai giocherai con lui.
— Io lo voglio qui! Dammelo o butto in aria lo scialle e mi alzo.
Glielo diedero: e la fuliggine del forno ove era stata trovata la carne della pecora rubata da Franziscu Cambedda macchiò il letto del figlio del giudice.
Pascaleddu raccattò il libro di figure e lo guardò fisso.
— Lo vuoi? Prenditelo — disse la signora.
Pascaleddu lo prese e se ne andò: di fuori i monelli lo attendevano, e cominciarono a domandargli che cosa aveva ricevuto in cambio del cinghialetto, e lo sbeffeggiarono, gli tolsero il libro.
Ma Pascaleddu lo strappò loro di mano, se lo strinse sotto il braccio e via di corsa: gli pareva di aver almeno un ricordo del suo povero amico.

Il suo povero amico conobbe tutti gli strazî di una schiavitù dorata. Quante volte signoriccu fu sul punto di strangolarlo; quanti calci dai bei piedi intorno ai quali ondulava il falpalà della vestaglia azzurra; quante volte la serva disse:
— Lo arrostiremo il giorno della festa di signoriccu!
Solo il padrone era buono: quando dalla finestra sorrideva a suo figlio, guarito e ritornato in giardino, i suoi occhi erano così dolci e inquieti che al cinghialetto ricordavano quelli di sua madre su nella montagna.
Lasciato qualche volta in pace, il cinghialetto si divertiva ad annusare i piedi della serva, a correrle appresso e a mettere il grifo entro le casseruole. Spesso lo lasciavano anche razzolare nell’orto grande e selvatico, ove cresceva una pianta d’olivo e una di quercia: ore di gioia tornarono anche per lui, e quando se ne stava sdraiato a pancia in su fra i cespugli e vedeva il cielo azzurro, le nuvolette rosse, la casina bianca fra gli alberi gli pareva d’essere ancora sulla montagna. Appiattato più in là, col suo fucile, la pistola, la spada e lo stocco, signoriccu giocava a far la caccia e mirava il cinghialetto e gli correva addosso tempestandolo di colpi e turbando così la sua beatitudine.
Un giorno tutte le casseruole cominciarono a friggere nella cucina, ove la bella serva splendeva, in mezzo al fumo, come la luna rossa fra i vapori della sera. Era la festa di signoriccu e in attesa dell’ora del pranzo, qualcuno degli invitati, tutti amici di casa, entrava in cucina per vedere cosa la ragazza preparava di buono, ma in realtà per guardar lei che era il miglior boccone. Fra gli altri entrò, a passi furtivi, il delegato, che fece una carezzina alla serva e nascose la sua pistola in un buco dietro la finestra.
— La metto qui perché quel diavoletto mi fruga in saccoccia e la vuole: non toccarla, è carica.
Di là c’era gran chiasso: tutti ridevano e parlavano, e il padrone e un altro magistrato discutevano sulla “legge del perdono” da poco messa in uso da un buon giudice di Francia.
— Quel disgraziato che abbiamo assolto oggi, quel Cambedda, ebbene… — diceva il padrone, — ebbene, ha rubato per bisogno… è un padre di famiglia, ha due figli piccoli, di buona indole… La legge deve adattarsi…
— La legge, oramai, è inesorabile solo per i ricchi — sogghignò il delegato; e tutti risero.
Il cinghialetto, in cucina, leccava i piatti in compagnia d’un gattino nero. Sebbene roba ce ne fosse d’avanzo per tutti e due, il gattino metteva le zampe in avanti e sollevava i baffi sopra i dentini bianchi come granellini di riso.
D’improvviso, mentre la serva era in sala da pranzo, signoriccu precipitò in cucina: vestito di azzurro, coi capelli lisci e lucenti come una cuffia di raso dorato, egli sembrava un angioletto, e volava anche, da una sedia all’altra, dai fornelli alla tavola, da questa alla finestra. Vide la pistola, la prese con precauzione, la rimise nel buco: e non gridò di gioia, ma i suoi occhi diventarono metallici e selvaggi come quelli del gattino.
Si slanciò sul cinghialetto, mentre il gatto, più astuto, fuggiva, lo prese e lo portò nell’orto, in direzione della finestra di cucina.
— Questa volta è per davvero! — gridò saltellando. — Sta lì fermo.
Il cinghialetto fiutava i cespugli: era felice, sazio e beato; vedeva signoriccu alla finestra di cucina, con una pistola in mano, ma non capiva perché il gattino, là dall’alto della quercia, gli mostrasse ancora i denti e lo guardasse coi grandi occhi verdi spaventati.
Una nube violetta lo avvolse: stramazzò, chiuse gli occhi; ma dopo un momento sollevò le corte palpebre rossicce e per l’ultima volta vide i più bei colori del mondo: il verde della quercia, il bianco della casina, il rosso del suo sangue.

*in Grazia Deledda (1871-1936), ChiaroscuroMilano, Treves, 1912