GLI AMICI PIÙ CARI – giallo fantasy di Laura Sergi (Parte 2)

LAURA SERGI — Il dottore non era stato tenero con Maura. Non poteva esserlo, visto che anche con lui la donna insisteva d’aver visto degli strani esseri che sparivano nel nulla. Aveva cercato di farla ragionare, la conosceva da tanti anni, poi si era messo a parlare direttamente con Domenico, come se lei non fosse più nella stanza: occorreva un appuntamento con uno specialista, un appuntamento urgente. Intanto era importante che iniziasse una terapia a base di tranquillanti.

‘Se prendo le pastiglie, domani mi lasci uscire?’, domandò Maura la sera stessa.
Il marito rispose di sì, tutto le avrebbe permesso, purché iniziasse l’assunzione delle compresse, e la moglie cominciò a fingere di mandarle giù.
Al pomeriggio uscì, raggiunse lo spiazzo verde quasi di corsa, si buttò sull’erba e iniziò a piangere: la stanchezza, la tensione, il sentirsi sola, la paura del futuro… la fecero addormentare. La svegliarono delle voci intorno a lei: ‘Poverina, quanto ha pianto!’, ‘Deve sentirsi proprio triste…’, e ancora: ‘Forse dobbiamo fare un’eccezione!’.
Si tirò su di colpo e si inginocchiò nel verde: era circondata da quei ragazzi, con i loro vestiti verde-azzurri, i buffi cappellini, e quelle strane orecchie a punta…

Da quel giorno, fu per Maura come avere due vite. Una era vita di facciata: cucinare, fare i lavori di casa, andare a fare spesa, mostrarsi allegra e fingere di prendere le pastiglie, domandando sia al marito che al dottore quando la cura sarebbe terminata, visto che ormai non aveva avuto più visioni. La seconda era la vita vera: tutti i pomeriggi, anche sotto il solleone, si recava nel luogo dell’appuntamento per parlare con i suoi amici più cari. Non poteva fare molte domande, loro non lo gradivano, però passava il tempo a sentirsi raccontare quelle cose che potevano comunicarle: c’era un mondo infinito, straordinario, parallelo al mondo conosciuto, di cui lei prendeva coscienza poco a poco.
Ma l’avevano anche avvisata: verranno tempi brutti per te, ma noi non ti lasceremo mai.

Domenico ritornò a insospettirsi quando la vide uscire in una brutta giornata d’agosto, sotto un vento impetuoso. L’aveva pedinata e l’aveva rivista in quel maledetto posto, dove lei aveva giurato di non averci più stazionato, e parlava come se qualcuno la ascoltasse, e rideva, tutta sola, guardando ora alla sua destra, ora alla sua sinistra.
Non ci aveva visto più quel pomeriggio: in preda alla rabbia, l’aveva trascinata via a forza dal prato, urlandole che l’avrebbe fatta rinchiudere, e che da quel giorno non l’avrebbe più lasciata uscire di casa da sola.
Il dottore, chiamato d’urgenza, era stato convocato insieme allo specialista: la terapia era stata rivista, pastiglie su pastiglie, obbligo assoluto di non fare passeggiate se non nel giardino di casa.
Peccato che, anche lì, alcune volte, Domenico la sorprendesse dalla finestra a parlare da sola, fino a che non ce la fece più, e firmò il suo consenso al ricovero in clinica.

Ormai, rinchiusa in quell’ospedale-prigione di lusso, con un’ora di passeggiata ogni mattina e ogni pomeriggio lungo la spiaggia privata, rigorosamente a braccetto di un’infermiera, sta eseguendo perfettamente il compito che le hanno affidato gli elfi. Dormire quando gli altri si aspettano di vedere le sue reazioni alle pastiglie, stare sveglia quando si aspettano che lei dorma e quindi la lasciano tranquilla. Le notti sono diventate il momento tutto suo, quando può chiacchierare liberamente con quegli esseri che ormai sono gli unici suoi amici, e sapere in anticipo alcune cose che la riguardano, perché si intrufolano negli uffici quando l’argomento di discussione è la malata Maura Aldoni. A volte le portano anche una radiolina presa in prestito da chissà dove: così lei si sintonizza su una delle stazioni di musica classica e tutti insieme trascorrono la nottata. Non era stato facile imparare a stravolgere i ritmi normali, e a dormire di giorno, ma gli elfi l’avevano convinta che fosse la cosa migliore, anche perché così facendo avrebbero arrestato l’escalation di pastiglie con cui la sedavano, perché non sempre Maura riusciva a fare in modo di non ingoiarle.
Quella infermiera grande e grossa, ad esempio… Carmela! Oh, quella voleva sempre guardarle in bocca, per accertarsi che l’avesse mandata giù! Dopo una volta in cui s’era accorta che non l’aveva ingoiata, l’aveva presa in antipatia, e si comportava come fosse il suo nemico personale.
Entrava nella stanza come un bolide, la trattava come fosse un animale, mai un gesto o una parola gentile.
‘Non è professionalità, la sua – si lamentava con gli elfi Maura –. No, è una donna proprio cattiva, felice di far del male. E quel che è peggio, le sue pastiglie mi tocca proprio mandarle giù!’.
Da quel giorno, c’erano sempre almeno due elfi a stazionare fissi quando era di turno quell’infermiera, e uno viaggiava sincronizzato con i movimenti della sua bocca: non appena la compressa era posata sulla lingua, approfittava di quell’attimo in cui la donna si voltava per prendere il bicchiere d’acqua, per togliere di bocca a Maura la pastiglia. Non sempre il gioco riusciva, perché per ben due volte Carmela si era avvicinata già con il coppino in mano, per fare presto e, sempre per fare presto, glielo svuotava dritto in gola, come se lei fosse stato un lavandino invece che un essere umano…
A questo punto Maura piangeva: per il disprezzo di cui era stata fatta oggetto, per la rabbia di aver dovuto ingoiare la pillola, per la sua incapacità di difendersi. In risposta alle sue lacrime, mentre l’infermiera usciva ridendo, gli elfi le accarezzavano la mano, le dicevano paroline dolci, e la invitavano ad avere fiducia nel futuro. Però si guardavano tra loro in maniera strana, come in un dialogo telepatico…
Non ci fu la terza volta: un bel giorno si seppe che Carmela era precipitata nelle scale, e si era fratturata il bacino. Rischiava la paralisi.
Maura si informò con gli elfi: ‘È stato mica per colpa mia?’.
‘Sono le nostre azioni a decidere il nostro destino’, aveva sentenziato uno, con il tono che non ammetteva repliche. E Maura non osò più affrontare l’argomento.

‘Ciao, tesoro, come stai? Come ti senti?’, domanda Domenico, tornato a trovarla. È felice, perché ha appena parlato con il professore, che gli ha prospettato che, da lì a poco, conta di farla ritornare a casa. Occorrerà seguire ancora una lunga terapia, ma l’affetto del marito, ritrovarsi nel suo ambiente, farà miracoli, gli aveva detto. ‘Era ora!’, aveva pensato l’uomo.
‘Bene, sto bene! – dice Maura, con la faccia serena di una donna che non ha problemi, è solo un po’ stanca -. Non ho più avuto mal di testa, non ho più avuto visioni, sei stato tanto buono a sopportarmi…’, conclude, mentre accarezza il ricamo del lenzuolo.
‘Figurati!’, risponde l’uomo, mentre le stringe le mani. Gliele stringe di corsa, perché ha premura.
‘Sicuramente ha un mucchio di lavoro a casa che lo aspetta…’, pensa Maura, che si ritrova per l’ennesima volta a domandarsi: ‘Ma perché mi ha sposato?’.
‘Ti ho portato una pianta nuova – dice Domenico mentre la aggiunge alle altre vicino all’armadio -. Il professore dice che siccome la stanza è molto ampia, se ti fanno così piacere…’.
‘Grazie, Domenico. Sì, mi fanno compagnia’, dice mentre pensa: ‘Scemo, non sono per me, ma per i miei amici. Loro adorano essere circondati dal verde’.

Un nuovo lunedì con il professore che la interroga. Maura fa la sua parte. ‘Se guarigione dev’essere… guarigione sia’, si dice, mentre ammicca con qualche sorrisino in più.
‘Domani la lasciamo andare a casa, lei però farà la brava e continuerà ancora un po’ la cura…’, si assicura il luminare.
‘Certo, dottore, non voglio mica ridurmi a com’ero prima…’, quasi sussurra.
‘Qualche domenica verrò a trovarla: l’ho promesso a suo marito. Le farà piacere?’, domanda ancora, mentre la donna pensa: ‘No, ma non te lo posso dire’.
‘Le cucinerò i miei piatti migliori! Sono una brava cuoca, sa?’.
Lui le stringe le mani con un sorriso mellifluo, posando il suo librone sul comodino, perché ormai non deve scriverci più nulla.
Si alza, le sorride ancora, un cenno con il palmo della mano, si avvicina alla porta ed esce.
Inutilmente gli elfi seduti sui vasi delle piante le fanno cenno di tacere: lei, come un giocoliere, si trastulla con la pastiglia che avrebbe dovuto prendere prima dell’ingresso del dottore, e che ha nascosto sotto il cuscino. La lancia per aria e la riprende, mentre ride e li invita a giocare con lei a palla, come fanno spesso la notte.
Un lancio sbagliato fa cadere la pastiglia ai piedi del professore: è rientrato nella stanza per recuperare il librone.
Ha gli occhi gelidi, la bocca è una smorfia, la voce un sussurro: ‘Lei, da qui, non uscirà più. Può esserne certa’.
Maura è incapace di parlare, quello sguardo l’ha terrorizzata. Lo sguardo di chi non ha niente da perdere e può fare quello che vuole della tua vita. Non è un problema di guarigione, ora. Quello che è sul tappeto è solo orgoglio malato.
Che strano, gli elfi si guardano tra loro come quel giorno, prima che Carmela cadesse nelle scale.

Il professore non saluta nessuno in corridoio, e il personale si stupisce di vederlo così cupo. Prende l’ascensore e raggiunge il suo ufficio. Passo di marcia, sguardo torvo, si siede e si mette a pensare, mentre le rughe sulla fronte si fanno sempre più marcate. Anche gli elfi entrano nel suo ufficio, ma lui non li può vedere.
Una telefonata lo distoglie dai suoi pensieri.
‘Sì, me lo passi pure… Buongiorno a lei, dottor Miretto… Sì, certo, la signora Corvi può essere dimessa domani stesso… Io continuerei per un breve periodo con le gocce, e poi ci riaggiorniamo… Sì, mi faccia avere notizie già… diciamo… tra una settimana. Poi, ci prenderemo un po’ più di tempo… Ossequi anche a sua moglie!’.
Mette giù il telefono, si alza, recupera un dossier alle sue spalle, e lo posa sul tavolo. È contrassegnato da un’etichetta: Simona Corvi. Prende un foglio bianco dal tavolo, scrive un elenco di medicine, e aggiunge al fondo: ‘Dimissioni nella giornata di domani’. In basso, aggiunge la sua firma.
Ora c’è un nuovo dossier sul suo tavolo. L’etichetta indica: Carlo De Rio. Nuovo foglio bianco e nuovo elenco di medicine. Al fondo, prima della firma, ancora la scritta: ‘Dimissioni nella giornata di domani’.
I due dossier vengono sistemati di lato del tavolo, ognuno col proprio foglio inserito accuratamente in una cartellina.
Lo sguardo del luminare ritorna gelido. Si appoggia allo schienale della poltrona e si mette a pensare: si sente un Dio, perché ha diritto di vita e di morte sulle persone. Non è ancora nato chi possa prendersi gioco di lui.
Un terzo dossier è ora sul tavolo: sull’etichetta sta scritto il nome di Maura Aldoni. Ancora un foglio bianco: ‘Paziente pericolosa. In data odierna si è verificata una pesante ricaduta. Rivedere completamente posologia e farmaci. Dev’essere controllata a vista’. Sotto, la firma e, in un angolo della copertina del dossier, tre lettere: F.p.m.
Canticchia fra sé, il professore, tutto soddisfatto. Si alza, pensando al significato di quelle tre lettere, perché lui solo sa cosa vogliono dire. Si rallegra con se stesso mentre gira per lo studio, uno sguardo ad ognuno degli attestati appesi al muro, simbolo di tanti anni di studio e di specializzazioni.
‘Fine pena mai – Fine pena mai – Fine pena mai…’, ripete all’infinito.
Prende una pipa da un cassettino e si avvicina alla finestra aperta. La accende e si affaccia. La pipa, stranamente, gli vola via di mano: fa per afferrarla sporgendosi un poco… Un grosso colpo alla schiena gli fa perdere l’equilibrio e si sfracella al suolo.
Un elfo, intanto, sta sostituendo fogli nelle cartelline.

Maura è ritornata a casa, finalmente. Dimessa solo nel tardo pomeriggio perché la morte del professore ha causato qualche inconveniente dal lato burocratico. Ora è in salotto, a fianco del marito, che si è preso qualche giorno di ferie, in teoria per starle accanto, nella pratica per iniziare la sua nuova attività lavorativa senza che la ditta per la quale è tuttora dipendente mangi la foglia prima del tempo. Stanno commentando l’articolo di un quotidiano, sulla morte del luminare che ha lasciato nella disperazione i parenti e tutto il personale della clinica: ‘Probabile suicidio per stress da lavoro – legge a voce alta Domenico –. Parrebbe infatti che, per la prima volta nella sua lunga attività lavorativa, il professor Cassini avesse fatto un errore. Notizie ufficiose parlano di una paziente che si sarebbe vista rifiutare le dimissioni, già annunciate al medico personale: i famigliari hanno chiesto e ottenuto un nuovo consulto, e la donna è stata subito rimandata a casa…’.

‘Che cosa è successo al professore?’, aveva chiesto Maura ai suoi amici, saputa la notizia, quando era ancora ricoverata. Capiva che la cosa la riguardava, due incidenti erano davvero troppi.
‘Non te ne preoccupare. Non chiedere nulla. Non pensarci più…’, le avevano risposto gli elfi, facendole capire che non gradivano quelle domande, e lei si era adeguata. Nuovamente, uno di loro aveva aggiunto la frase sibillina: ‘Sono i pensieri di ognuno, quelli che decidono del nostro destino…’.

Ormai, ritornata alla vita normale, Maura sa come deve comportarsi. Per il quieto vivere, fingere di essere guarita: con Domenico, con gli amici, i conoscenti… con tutti, insomma. E, purtroppo, dimenticarsi delle passeggiate verso la cima della collina. Ma sarà per poco: gli elfi le hanno riferito che il suo matrimonio non durerà a lungo. Rimarrà presto vedova, perché suo marito avrà un incidente d’auto: sarà colpa della troppa velocità, le hanno già detto. E hanno aggiunto: ricordati di piangere molto.
Questa volta è ben decisa a non indagare…