Giuseppe Mazzini: “Fummo condotti a Savona in Fortezza”

GIUSEPPE MAZZINI – Fummo condotti a Savona (Riviera Occidentale) in Fortezza e tosto disgiunti. Giungevamo inaspettati, e la mia celletta non era pronta. In un andito semibujo dove mi posero, ebbi la visita del governatore, un De Mari, settuagenario, il quale motteggiandomi stolidamente sulle notti perdute in convegni colpevoli e sulla tranquillità salutare ch’io troverei in Fortezza – poi rispondendomi, sul mio chiedere un sigaro, ch’egli avrebbe scritto a S. E. il Governatore di Genova per vedere se poteva concedersi – mi fece piangere, quand’ei fu partito, le prime lagrime dall’imprigionamento in poi. Erano lagrime d’ira nel sentirmi così compiutamente sotto il dominio d’uomini ch’io sprezzava.

Fui dopo un’ora debitamente confinato nella mia celletta. Era sull’alto della Fortezza: rivolta al mare e mi fu conforto. Cielo e Mare – due simboli dell’infinito e, coll’Alpi, le più sublimi cose che la natura ci mostri – mi stavano innanzi quand’io cacciava il guardo attraverso l’inferriate del finestrino. La terra sottoposta m’era invisibile. Le voci dei pescatori mi giungevano talora all’orecchio a seconda del vento. Il primo mese non ebbi libri: poi, la cortesia del nuovo governatore, cav. Fontana, sottentrato per ventura all’antico, fe’ sì ch’io ottenessi una Bibbia, un Tacito, un Byron. Ebbi pure compagno di prigionia un lucherino, uccelletto pieno di vezzi e capace d’affetto, ch’io prediligeva oltremodo. D’uomini io non vedeva se non un vecchio sergente Antonietti che m’era custode benevolo, l’ufficiale al quale si affidava ogni giorno la guardia e che compariva un istante sull’uscio, ad affisare il suo prigioniero, la donna piemontese, Caterina, che recava il pranzo, e il comandante Fontana. L’Antonietti mi chiedeva imperturbabilmente ogni sera s’io avessi comandi, al che io rispondeva invariabilmente: un legno per Genova. Il Fontana, antico militare, capace d’orgoglio italiano, ma profondamente convinto che i Carbonari volevano saccheggio, abolizione di qualunque fede, ghigliottina sulle piazze e cose siffatte, compiangeva in me i traviamenti del giovine e tentò, a rimettermi sulla buona via, ogni arte di dolcezza, fino a tradire le sue istruzioni conducendomi la notte a bere il caffè colla di lui moglie, piccola e gentile donna imparentata, non ricordo in qual grado, con Alessandro Manzoni.

Intanto, io andava esaurendo gli ultimi tentativi per cavare una scintilla di vita dalla Carboneria coi giovani amici lasciati in Genova. Ogni dieci giorni io riceveva, aperta s’intende e letta e scrutata dal Governatore di Genova a da quello della Fortezza, una lettera di mia madre e m’era concesso risponderle, pur ch’io scrivessi in presenza dell’Antonietti e gli consegnassi aperta la lettera. Ma tutte queste precauzioni non nuocevano al concerto prestabilito tra gli amici e me, ed era che dovessimo formar parole, per sovrappiù di cautela, latine, colla prima lettera d’ogni alterna parola. Gli amici dettavano a mia madre le prime otto o nove linee della sua lettera; e quanto a me, il tempo per architettare e serbare a memoria le frasi ch’io dovrei scrivere, non mi mancava. Così mandai agli amici di cercare abboccamento con parecchi fra i Carbonari a me noti, i quali tutti, colti da terrore, respinsero proposte ed uomini; e così seppi l’insurrezione Polacca, ch’io per vaghezza d’imprudenza giovanile annunziai al Fontana, il quale m’aveva accertato poche ore prima tutto essere tranquillo in Europa. Di certo, ei dové raffermarsi più sempre nell’idea che noi avevamo contatto col diavolo.

Bensì, e il terrore fanciullesco dei Carbonari in quel solenne momento, e le lunghe riflessioni mie sulle conseguenze logiche dell’assenza d’ogni fede positiva nell’Associazione, e una scena ridicola ch’io m’ebbi col Passano (il quale incontrato da me per caso nel corritojo mentre si ripulivano le nostre celle, al mio susurrargli affrettato: “ho modo certo di corrispondenza”; datemi nomi, rispose col rivestirmi di tutti i poteri e battermi sulla testa per conferirmi non so qual grado indispensabile di Massoneria), raffermavano me nel concetto formato già da più mesi: che la Carboneria era fatta cadavere e che invece di spendere tempo e fatica a galvanizzarla, era meglio cercar la vita dov’era, e fondare un edificio nuovo di pianta.

Ideai dunque, in quei mesi d’imprigionamento in Savona, il disegno della Giovine Italia; meditai i principi sui quali doveva fondarsi l’ordinamento del partito e l’intento che dovevamo dichiaratamente prefiggerci: pensai al modo d’impianto, ai primi ch’io avrei chiamato a iniziarlo con me, all’inanellamento possibile del lavoro cogli elementi rivoluzionari Europei. Eravamo pochi, giovani, senza mezzi e d’influenza più che ristretta; ma il problema stava per me nell’afferrare il vero degli istinti e delle tendenze, allora mute, ma additate dalla storia e dai presentimenti del core d’Italia. La nostra forza dovea scendere da quel Vero. Tutte le grandi imprese Nazionali si iniziano da uomini ignoti e di popolo, senza potenza fuorché di fede e di volontà che non guarda a tempo né ad ostacoli: gl’influenti, i potenti per nome e mezzi, vengono poi a invigorire il moto creato da quei primi e spesso pur troppo a sviarlo dal segno.

[N.d.T.: Mazzini restò nella cella del Priamàr dal novembre 1830 al gennaio 1831]

*da Giuseppe Mazzini, Note autobiografiche (1861) [in Id., Scritti editi e inediti, vol. LXXVII, Imola 1938]