Giovanni Boine: Leopardi, il dolore, la poesia e “Pianissimo” di Camillo Sbarbaro

Nella foto: il poeta, traduttore e lichenologo Camillo Sbarbaro (1888-1967) a Spotorno

GIOVANNI BOINE – Quand’uno vuol dire disperazione disillusa, vuol dire angoscia, dolore, spirituale buio, dice: «pessimismo leopardiano». Ora io sono arrivato, vivendo, a far dentro di me una tal quale distinzione tra la disperazione, la reale, la corporale angoscia senza più sogno ed il pessimismo parlato, teorico. Del resto è chiaro. Mi son detto: tra il divertimento spiritoso in cui mi titilla nervosa, francese, voltairiana la prosa di Schopenhauer, proprio dove mi dice le cose più amare e più ciniche, cose lucreziane-disperate da «Ecclesiaste», tra la sua prosa e le sue idee c’è un salto. Così in Leopardi l’amaro e lo sconforto sono in tal modo fasciati, intenerati, pitturati di idillica bellezza che in sostanza li ingolli senza accorgertene; ed è più facile che tu pianga melanconico e dolce che non tu stringa i pugni scuro e corrugato la fronte e le labbra. Cioè, in altri termini il dolore è qui, nella più parte dei «Canti» un’imagine, un ricordo più che una ferita aperta. Ora ognun sa che nel ricordo, nella fantasia anche i dolori son dolci. — Direbbe infine un hegeliano che la mediatezza della creazione artistica ha superato qui la immediatezza del dolore bruto.

A voler dire le cose proprio come stanno, già lo si sa ch’io sono un eretico, adde per altro che mica sempre è il realmente artistico che ti solleva e ti libera in Leopardi. Ma viceversa, sebbene spesso si parli della sua greca semplicità, gli è l’artificio dell’espressione e l’antiquato-accademico del fraseggiare che ti raffredda difficile. Perdi il senso d’un dolore vivo, della ferita sanguinante pel troppo riflesso del dire. Ci son poesie che ti tocca, rimasticar due e tre volte prima di averne afferrato il senso letterale minuto: ed anche nella più fusa immediata «Il canto alla luna del pastore errante» c’è per lo meno una strofe, quella del vecchierel petrarchesco, ch’io toglierei di peso come inutilmente rettorica.

Ma dico in conclusione che nella poesia del Leopardi, questo prepotente bisogno espressivo il quale cercando spesso la più sincera bellezza, inceppa talora, tanto è riflesso, nella letteratura, testimonia di un’abbondante vitalità, di qualcosa come uno sgorgo di cicatrizzante linfa che è in contrasto coll’essenziale dolore con l’aridità disillusa la quale, netta e ragionativa, è affermata qua e là. Perciò il dolore e la disperazione sono nel pensiero del Leopardi preso in astratto, sono più in queste grigie pause di amari filosofemi verseggiati (e in canti come quelli di Aspasia dove il fantasma quasi scompare e resta il crudo sillogizzare) che non nel pensiero fatto poesia, diventato imagine viva. Anche per questi «Canti» che paiono il pessimismo incarnato si direbbe che dove la poesia compare, scompare il dolore; che il dolore è la china della morte e la poesia il risorgere alla vita; che la poesia, e anche la leopardiana, è in certo modo sempre canto di gioia: di guarigione, di «risorgimento» di vittoria sul dolore.

Ora ecco qui una poesia, questa dello Sbarbaro, la quale ci appare il meno possibile canto di gioia e di vita, la quale non intoppa mai ricercando la bellezza, nel falso, nell’abbondevole della rettorica. Poesia della plumbea disperazione, succinto velo, scarna espressione di un irrimediabile sconforto.

Leopardi l’ho ricordato perché leggendo lo Sbarbaro, non so che di Canti vien per echi in mente; le cose meno lavorate, le «Ricordanze» per es. col loro endecasillabo sordo ed il loro sordo dolore. Questa sordità, questa funebre cenere, questo che di muto e di disadorno è passato dal Leopardi nello Sbarbaro. Ma, sotto, l’anima è diversa: lo Sbarbaro non piange i sogni svaniti: — lo svanire dei sogni, la fata morgana, il desiderio insoddisfatto, il farsi forte contro la realtà dura, il gemere per le tristezze di codesta realtà, ed infine il logicizzarla, l’affermazione quasi filosofica che così è, che purtroppo dev’esser così, sono i motivi della poesia leopardiana. Qui all’incontro v’è uno che dice immediatamente una sua interiore arida solitudine: un terribile buio e vuoto che sente intorno a sé, fra sé e gli altri, un suo dolore fisso che l’assorbe, che lo gela, che lo rattrappisce in sé (occhi di serpe a incantarlo) quasi come una malia. Qui v’è uno che finisce, disperato, per compiacersi di questo suo destino; quasi finisce per volerne l’esasperazione come chi sepolto in prigione, sdegnoso della vita, batta, a finirla, il capo nel muro.

Ora diresti che il canto del Leopardi sia più umanamente vasto, più universale. E qui certo non si logicizza, non si ricerca la ragione e il perché del dolore, né si affermano filosofemi: qui v’è uno che dice pianamente: io soffro cosi, il mio dolore è questo. A guardare gli uomini che vivono «provo un disagio simile a chi vede — inseguire farfalle lungo l’orlo — d’un precipizio…». «Un cieco mi par d’essere, seduto — sopra la sponda d’un immenso fiume, — Scorrono sotto l’acque vorticose» — «io cammino fra gli uomini guardando — curioso di lor ma come estraneo. — Ed alcuno non ho nelle cui mani — metter le mani con fiducia piena». Una notte il poeta per le vuote vie sente d’un tratto la sua aridità di macchina senz’anima; «A queste vie simmetriche deserte — a queste case mute sono simile — a una macchina io stesso che obbedisce, — come il carro e la strada NECESSARIO».

E tutto ciò, sì, non ha riflesse pretese d’universale, ma certo è; è spesso vero e così terribilmente, che ciascuno di noi dentro di sé lo confessa vissuto. Ora quando nell’anima s’è, come avviene, disseccato il miele della vita, s’è consumato chissà come, il glutine che ci amalgama alle cose ed agli uomini, allora rimane nel fondo buio, nell’aridità della interiore solitudine l’agra feccia del soffrire. Sei allora come una macerata bocca che non abbia gusto più che per l’aceto ed il tossico. La realtà non è più che d’aceto e di tossico e per contro alla cecità di coloro che cantano osanna e maciullano bestialmente contenti il loro tozzo di vita, tu stai febbricitante con ciò che soffre, tu infine t’esalti eroico per la tua stessa morte, tu come perduto, sei per la ribellione, per ciò che nella disperazione è nudo. E questi versi allora l’intendi senza commento; «Mi cresce dentro l’ansia del morire! — senza avere il godibile goduto — senza avere il soffribile sofferto. — La volontà mi prende di gettare — come un ingombro inutile il mio nome. — Con per compagna la Perdizione — a cuor leggero andarmene pel mondo».

Anche questa è di quelle poesie fuor della storia, fuor della tradizione, che a capirle basta il cuore e l’aver vissuto. Non ci sono ragioni letterarie che la spieghino e nessuna «confessione di un figlio del secolo» me la può dedurre. Rolla imprecava a Voltaire che gli aveva tolta la fede, e De Musset credeva che Waterloo gli avesse strappato le ragioni d’ogni entusiastica attività. Questi sono gli ironici giochetti della raison raisonnante la quale si para di cause e d’effetti. Ma io penso, semmai, che ci sono delle cause le quali non mutano, e che ci sono atteggiamenti dell’anima umana sui quali la storia non può. Sono colpito in questi frammenti dello Sbarbaro dalla secchezza, dalla immediata personalità, dalla scarna semplicità del suo dire: mi par d’essere innanzi ad una di quelle poesie su cui i letterati non sanno né possono dissertare a lungo, ma di cui si ricordano gli uomini nella vita loro per i millenni.

**Giovanni Boine (1887-1917), plauso-recensione di “Sbarbaro, Pianissimo, ed. Libreria della Voce, 1914” (n. 40). Plausi e botte (1914-1916) è il titolo della rubrica di recensioni che Boine pubblicò nella rivista “La Riviera Ligure”; in volume furono edite per la prima volta alla sua morte (Giovanni Boine, Frantumi – seguiti da Plausi e botte, Firenze, Libreria de “La Voce”, 1918). Qui si è scelto un titolo/sommario didascalico come semplice richiamo allo scritto di Boine. (effe)