Francesco Dall’Ongaro: L’ora degli spiriti. Fantasie notturne

Lo sguardo del gatto

FRANCESCO DALL’ONGARO L’ora degli spiriti. Fantasie notturne. I. La chiave di casa. Aveva un bel frugarmi in tutte le tasche: la mia chiave non c’era. O l’avevo lasciata a casa, o l’avevo perduta per via.

Era la mezzanotte. Mi trovavo dinanzi a un forte cancello di ferro, a guardia del quale non c’era nè cane nè portinaio. Nei tre piani della casa tutto taceva. Nessun lume appariva dalle finestre. Io conosceva per esperienza le abitudini de’ casigliani. Avrei potuto picchiare e suonare per un’ora, senza riuscire a farmi sentire, o senza indurre quelle donne a lasciare le coltrici. I monelli del quartiere che si divertono spesso a suonare per celia, le avevano rese incredule ed impassibili a chi facesse appello per vera urgenza al loro buon cuore.

Dunque io restava escluso per tutta la notte dalla mia camera e dal mio letto.

Aveva due espedienti dinanzi a me: o passeggiare le vie di Firenze per altre sei o sette ore, o cercar ricovero in un albergo. Né l’una cosa né l’altra mi garbava gran fatto. Passeggiavo da due ore, e non sono più nell’età che la posizione verticale della persona mi sembri la più naturale.

Cercare un albergo… avendo casa a Firenze, mi pareva un espediente da riservarsi per ultimo, quando avessi perduta ogni speranza di stendere le mie membra sul proprio letto. Ora ogni speranza non era del tutto perduta. Ogni zio possiede qualche nipote più o meno randagio: ed io ne ho uno che sento per ordinario salir le scale dopo di me. In quel momento desiderai ch’egli fosse ancora a qualche veglia, o al caffè, moltiplicando le partite di biliardo o di dominò. La sua finestra era ancora aperta, né vi si scorgeva alcun lume. Era dunque fuori, e presto o tardi sarebbe tornato colle sue chiavi. Mi rassegnai ad aspettarlo a piè fermo, facendo la sentinella sulla mia porta.

Il tempo, dissi fra me, non sarà lungo, e ad ogni modo troverò maniera di abbreviarlo, osservando l’eterne stelle ed evocando gli spiriti che dalla mezzanotte fino al tocco hanno facoltà di rispondere alla chiamata de’ vivi.


II. La scena. La parte di Firenze ch’io aveva dinanzi, era una cantonata nel sesto di San Miniato al monte.

Il quartiere, in quell’ora, era perfettamente silenzioso e deserto. Gli spiriti avrebbero potuto apparire senza timore di testimoni indiscreti. Le mie vicine avean chiuso ermeticamente le finestre. Le due tessitore così indefesse al telaio, non facevano più andare la spola, che comincia la mattina alle quattro il suo monotono via vai. Anche le due fioraine, dopo aver messi in istrettoio i loro riccioli, aveano detto addio al mondo esterno, che guardano dall’alto al basso aspettando di vederlo più da vicino.

Non erano ancora quindici minuti che una frotta di giovanotti avevano fatta la loro ronda, camminando col piè di feltro, per non turbare un concerto di chitarra e di armonica, ai quali si alternava uno stornello paesano cantato da una voce argentina, a cui gli altri tenevano bordone a labbri chiusi, perché la voce sola salisse in alto e andasse al suo indirizzo coi suoi intendimenti. Quella serenata era passata due volte, senza che alcuna finestra si aprisse come per rispondere: grazie.

Dopo la poesia, la prosa. Due guardie di città perticavano gravemente la via, alias fondaccio. Codesti vigili del municipio non mancano mai quando non c’è bisogno di loro. Mi guardarono con occhio discreto, senza darsi pensiero d’indovinare perch’io mi restassi ritto dinanzi a quella porta inflessibile. Avrei potuto essere un ladro, senza essere molestato, come segue il più delle volte.

Dopo le guardie municipali, passò l’ispettore dei fanali. Non passò già per accendere quelli che si trovassero spenti, ma per ispegnere quelli che a suo credere brillavano inutilmente. Io ne abbracciava prima collo sguardo otto o dieci: dopo la visita dell’ispettore, dovetti contentarmi di due.

Tanto meglio, dissi fra me. Ora verranno gli spiriti che amano l’ombra e il mistero.

Ma la prosa continuava. Un passo si avvicinava lentamente alla mia destra. Si avvicinava monotono e regolare, come il passo di una sentinella tedesca. Giunto a trenta metri da me, mise la chiave nella toppa d’una porta, e sparì.

Fortunato te! esclamai fra me stesso. Tu almeno non hai dimenticato la chiave. Non so chi fosse, né se in quella casa avesse il suo domicilio legale. Capite bene che non me ne sono curato, per non parere più indiscreto degli altri.

Di quando in quando un altro passo si udiva avvicinarsi or da una parte or dall’altra. Erano operai che avevano protratto il loro lavoro, o ne avevano scialato il guadagno al caffè. Di altre cause dell’indugio non vo’ parlare, perché quella sera, trovandomi in una posizione che poteva parere equivoca, non era disposto a commettere giudizi temerari sul conto del prossimo. Anche questi ultimi sintomi della vita e del lavoro umano diventavano sempre più radi, e finalmente cessarono.

E mio nipote non ritornava. Dove trovavasi egli mai a quell’ora? Se avessi potuto immaginare da qual parte venisse, gli sarei mosso incontro. Ma la fortuna e i nipoti girovaghi non si sa da qual parte ci vengano.

Rimasi solo…. aspettando. Non mai mi ricorse al pensiero con più dispetto il proverbio veneziano:

Aspetar e no vegnir 
Xe una cossa da morir.

III. Gli spiriti delle tenebre. Chi non ha avuto alcuna volta la curiosità di trovarsi a contatto del mondo secreto? Io l’ebbi questo desiderio più o meno peccaminoso. Ma per quanti libri di magia bianca e negra mi avvenisse di scorrere, per quante tavole facessi girare, per quante invocazioni facessi, non dirò al diavolo in persona, ma agli dei pagani che dovrebbero essere un quid simile, non mi avvenne mai di vederne né coda né corno. Anzi la mia stimabile amica Aretusa avendo evocato per me con tutta l’intensità della fede lo spirito di Felice Orsini, si udì rispondere ch’io non era degno ancora di entrare in comunicazione colle anime sciolte dal corpo. E la causa è chiara per sé: io non ho fede che basti per forzar la natura.

Ma questa sera, chi sa? Fosse il dispetto del mondo visibile, fosse quello stato di stanchezza e di sonnolenza in cui mi trovavo, ebbi un lampo, se non di fede, almeno di speranza. Non feci soffumigi di zolfo, non segnai sul terreno il magico segno di Salomone. Codeste sono cose da ciarlatani. Raccolsi tutta la forza della mia volontà, e comandai mentalmente: venite! venite! venite!

Guardai intorno: tesi l’orecchie. Nessuno strepito, nessun fenomeno che mi avvisasse d’essere stato obbedito. Che è che non è, veggo uscire da un’apertura a fior di terra, ch’io non avevo punto avvertita, un non so che di semovente, nero nero, che allungando silenziosamente il passo e quasi strisciando se ne veniva alla mia volta. Aveva due occhi fiammanti che lucevano nell’ombra come due topazi fosforici. Quei due occhi si affisavano nei miei, quasi volessero magnetizzarmi. Non era un cane, non era un gatto, o almeno mi pareva d’una struttura diversa. Era lungo, magro, smilzo come una donnola, ma quattro volte più grande di quelle che mai vedessi. Si avvicinava cauto, incerto, come tentasse il terreno, come volesse assicurarsi ch’io l’avessi veramente chiamato.

Fosse anche quella la forma di una gatto, pensai fra me, il diavolo non ha corpo, e per darmi prova della sua condiscendenza dee pur prendere la sembianza di un animale. E aspettai di piè fermo, benché a dir vero mi sentissi scorrere per le vene un involontario ribrezzo.

E lo spirito si appressava, prendendo ad ora ad ora una figura più simile a quella di un gatto, ma di un gatto straordinario, stravagante, infernale. Ci siamo! dissi fra me. E feci uno sforzo sopra me stesso per presentare allo spirito un contegno fermo e degno di un uomo.

Tutto ad un tratto dai tegoli della casa di rimpetto si fece udire un miagolìo di vero gatto: al quale rispose un altro miagolìo più acuto, che pareva uscir dalla gola di un animale della medesima razza, ma di sesso diverso. I due miagolii s’incontrarono come due sospiri d’amor felino e felice, e si alternavano e crescevano a grado a grado, come due squilli di corde, come un cànone di musica classica e sacra.

Mi rivolsi istintivamente al luogo donde scendeva quel mirabile duetto: ma non appena ebbi stornato lo sguardo dagli occhi della mia misteriosa visione, questa immediatamente disparve e si rimpiattò sotto terra.

Ebbi un bell’evocarla di nuovo: non venne più. Forse l’accordo udito dall’alto la spaventò: forse temette il paragone del vero: forse volle punirmi perché m’ero lasciato distrarre da quell’incidente d’ordine naturale e mondano. Il fatto sta che anche in quest’occasione lo spirito evitò il contatto dei corpi, e mi lasciò smagato e più diffidente ch’io non fossi prima, di potere mai entrare in comunicazione cogli spiriti elementari.


IV. Le nozze sui tegoli. La coppia innamorata continuava intanto il suo classico duetto sui tegoli. All’andante era succeduta la stretta, e la melodia si spezzava in certi suoni imitativi da mandare in visibilio il Wagner, e tutti i musicaroli della scuola.

I suoni separati da intervalli sempre più lunghi, a poco a poco si perdettero in un silenzio espressivo, e l’assiuolo della sovrastante collina intuonò il peana di nozze con quella sua voce fluida, che sembra un gemito misterioso d’amore. Virgilio intendeva certo di questo gemito, quando disse nel suo latino: et ulularunt summo de vertice nymphæ.

Ulularunt non è la parola: ma si sa bene che la lingua di Virgilio non è obbligata ad esprimere per lo appunto quella qualità di suono che manda l’assiuolo toscano, nelle placide notti d’estate. Chiu! chiu! Quasi voglia dire: basta così: sat prata biberunt!

Intanto io mi era staccato dalla soglia di casa, e mi accostava istintivamente a quella parte da cui pareva venire quel gemito amoroso e felice. L’avete voi mai veduto l’assiuolo? Io no certamente, e dubito molto che nessuno l’abbia mai sorpreso nell’esercizio delle sue funzioni. Tuttavia ne farò domanda al mio amico Antinori, il più sapiente ornitologo dell’Europa, dell’Asia e dell’Affrica.

Io non conosco dell’assiuolo che la voce, la quale non s’inalza che al chiaro della luna e nel più alto silenzio della notte, specialmente lungo la salita di Poggio imperiale, ovvero dagli ombrosi declivi di pian de’ Giullari.

Vi sono di quelli che lo confondono col rauco grido della civetta e del barbagianni. Tanto varrebbe confondere il flauto col clarino. Vi sono a questo mondo organizzazioni così infelici, che sono condannate a preferire lo squittire del pappagallo ai melodiosi accordi dell’usignuolo.

Non
ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Ed io infatti passavo, passavo innanzi. Quando tutt’ad un tratto mi trovai circondato da un’atmosfera di fragranze indistinte e soavi, come quelle che annunziavano ai poeti antichi la presenza di un nume.

Era un odore di olea fragrans. Pensai a Minerva o a Venere Urania; e queste soavi fragranze e le fantasie greche che mi svegliarono nella mente, mi allontanarono come per incanto delle tetre visioni de’ negromanti, e mi levarono gli occhi e il pensiero agli spazi sereni del cielo.


V. Le stelle. Non c’è che dire. Quando la notte errando per le vie di Firenze, tu ti trovi in mezzo ad una di codeste nuvole olezzanti, dimentichi le memorie e le impressioni diverse e sgradite, per salutarla regina dei fiori. E quando innalzi lo sguardo e lo affisi sul suo cielo azzurro e sereno, riconosci la patria di Galileo, e ti rendi ragione delle meravigliose scoperte ch’ei fece nei campi dell’aria.

Compresi allora quanto io fossi male avvisato, pensando di evocare gli spiriti dal fondo della terra.

Essi devono essersi ricoverati nel centro di qualche stella o di qualche pianeta, inaccessibili all’umana curiosità.

Una volta entrato in questo pensiero, compresi ch’io dovevo rivolgermi all’alto. D’altronde nella mia qualità di poeta, si sa ch’io devo esser più abituato a guardare le stelle del cielo, che quelle della terra. Quel verso d’Ovidio: Os homini sublime dedit, cœlumque tueri Jussit, mi sta sempre impresso nella memoria; e quando non ho a far meglio, guardo il cielo e mi gratto il capo col dito mignolo.

Le stelle brillavano al loro posto, sopra un bel cielo turchino, tanto più lontano da noi quanto era più pura l’atmosfera.

Come tutti i poeti, ho anch’io la mia stella. Non so come si chiami nella lingua moderna. Gli antichi la chiamavano stella mira variabilis; perchè varia meravigliosamente di grandezza e di aspetto. Ora è rossa come Marte, ora bianca come Venere, ora verdognola come Sirio. Non so se il padre Secchi l’abbia ancora sottoposta al suo prisma. Poco m’importa di quali elementi chimici consti la sua sostanza. Preferisco chiamarla la stella d’Italia, o la stella di Beatrice, perchè alterna ai nostri occhi quei tre colori che tanto amiamo, e ci costano tanto.

Chiunque tu sia, bella stella tricolore, io ti professo un culto particolare, e quando non posso salutarti prima di chiuder l’imposta, mi sembra che mi manchi qualche cosa, come in quel tempo che non poteva dormire senza aver ricevuto il bacio materno.

Mi
sono innamorato d'una stella!...

So bene che questo verso d’uno de’ miei stornelli ricevette una diversa interpretazione per piegarsi alla natura beffarda dei benigni lettori: ma posso assicurarvi, così a quattr’occhi, che quando io feci quel verso, guardava dalla finestra la mia stella mira variabilis.

Il poeta Ponsard dovette avere qualche ubbia del mio genere quando pose quest’aspirazione in bocca alla figlia di Galileo:

 «Cerchiamo un cheto asilo
In quelle sfere luminose ed alte
Dove l'occhio di Sirio
Splende d'azzurra luce, dove suona
La lira d'oro, dove nuota il bianco
Cigno sull'onde della Lattea via.
Di quei lucidi mondi ospiti arcani,
Accoglieteci amici in mezzo a voi!
Quante cose mirabili vedremo
Che appena in sogno intraveder c'è dato.
Anelli di rubino
Cerchiano i nostri lucidi orizzonti,
Cantano nuovi augei sui vostri monti.
Un'aura fresca nelle notti estive
Scote i cespugli ombrosi,
Albergo delle fate. Ivi la luna
Sempre piena e rotonda
Rischiara ed inargenta
Sui laghi azzurri il palpitar dell'onda.
Scende dai dolci clivi
Un effluvio soave e dilettoso,
E il silenzio notturno ha mille suoni
Che pajono sospiri
D'anime erranti pegli eterei giri.»

Non so se questi versi sieno drammatici, e non so come saranno accolti dalla nostra platea e dalle eleganti capinere dei nostri palchetti. Il soffitto dei nostri teatri ci toglie la vista del cielo, e ci rende insensibili a certe idee. Ma se il Galileo fosse mai recitato a ciel sereno, chi sa che codesta escursione pei campi del cielo trovasse miglior accoglienza, come certo dovea trovarla l’apostrofe al sole di Fedra nella tragedia di Euripide, nel teatro aperto d’Atene.

Mentre assorto in questi pensieri aveva dimenticato la stanchezza, il letto e la chiave, sentii suonar il tocco dal torrione del Palazzo Vecchio.

Addio spiriti, dissi! Addio spiriti dell’abisso e del cielo! Minerva e Venere Urania, stella mira e variabile, degna di rappresentare l’Italia!

Un passo regolare e affrettato mi venne nel medesimo tempo agli orecchi ad una certa distanza. Il passo si accostava ognor più, e suonava più distinto e più forte negli aprichi silenzii della notte.

Mi avviai dal mio lato verso la porta, mentre l’altra persona si avvicinava dal lato opposto alla medesima direzione.

Era il mio caro nipote, al quale, come potete ben credere, non feci rimprovero alcuno di non essere tornato a casa prima di me.

— Che v’è di nuovo? — gli chiesi.

— I fondi italiani si sono alzati di un punto e 17 centesimi.

— Oh! vero figlio del secolo — gli dissi! — Vieni ch’io ti abbracci! Anzi da questo momento, dacché ti mostri così bene informato della nostra situazione economica e finanziaria, scambiamo nome ed officio.

Tu sarai lo zio: studierai il listino della borsa, provvederai ai bisogni della famiglia, mentre io potrò dedicarmi a guardare le stelle, e ad evocare i ridenti spiriti che aleggiano intorno!

**In Francesco Dall’Ongaro (1808-1873), Racconti, Firenze, Le Monnier, 1869 [nel testo si sono apportate solo poche modifiche marginali in alcune grafie – per es. negli accenti acuti e gravi (nè > né; etc.) o nell’uso delle doppie (inalzi > innalzi; etc.) – seguendo le nostre convenzioni contemporanee. effe],