Errico Malatesta: L’individualismo nell’anarchismo (1)

ERRICO MALATESTA — Noi non intendiamo parlare in quest’articolo di quelli che col chiamarsi individualisti credono di giustificare ogni più ripugnante azione, e che hanno tanto da fare coll’anarchismo quanto han da fare i birri coll’ordine pubblico di cui si vantan difensori, o i borghesi coi principi di morale e di giustizia con cui a volte cercano di difendere i loro privilegi omicidi.

Né intendiamo parlare di quei compagni che si chiamano “Individualisti nei mezzi” i quali, nella lotta che combattiamo oggi, preferiscono, o esclusivamente ammettono, l’azione individuale, sia perché la credono efficace, sia per misure di prudenza, sia perché temono che una qualsiasi organizzazione, una qualsiasi intesa collettiva, menomerebbe la loro libertà. Di questa, che in parte è questione di tattica ed in parte questione di principi, ci occuperemo parlando della questione d’organizzazione.

Ora vogliamo parlare dell’individualismo, come filosofia, come concezione generale cioè della natura delle società umane e dei rapporti fra individui e collettività, in quanto esso è professato (qualche volta quasi inconsapevolmente) da una parte dei nostri compagni.

V’è chi si dice individualista per intendere che l’individuo ha diritto al suo completo sviluppo fisico, morale ed intellettuale e che deve trovare nella società un aiuto, e non già un ostacolo, per raggiungere il massimo di felicità possibile. Ma in tale senso siamo individualisti tutti e non sarebbe questione che di una parola di più; e noi non l’adoperiamo solo perché, avendo altre e varie accezioni, non servirebbe che a generare confusione. Né soltanto noi, anarchici o socialisti di tutte le scuole, siamo individualisti nel senso suaccennato, ma lo sono tutti quanti gli uomini di qualunque scuola o partito; poiché l’individuo è il solo essere senziente e cosciente, e sempre che si parla di godimenti o di sofferenze, di libertà o di schiavitù, di diritti, di dovere, di giustizia, ecc. non si ha, né si può avere in vista che degl’individui viventi.

Qualche volta dunque si tratta di una semplice questione di parole e non varrebbe la pena di farne gran caso. Ma spesso una importante differenza di idee tra quelli che professano e quelli che ripudiano l’individualismo vi è realmente; ed importa determinarla, perché gravi sono le conseguenze pratiche che ne derivano, malgrado che gli scopi finali degli uni e degli altri sieno gli stessi. Non è già che ci sia ragione di guardarsi in cagnesco e trattarsi da avversari, tanto più che, dal momento che gli anarchici han voluto mettersi a fare della “filosofia”, è avvenuta tale una contusione d’idee e di parole che spesso non v’è modo di raccapezzarsi se si è d’accordo o no. Ma è urgente spiegarsi bene, se non per altro, per sbarazzarsi una volta per sempre di queste questioni astratte che assorbono l’intera attività di certi compagni con grave danno del lavoro di vera propaganda.

Esaminando tutto ciò che è stato detto e scritto dagli anarchici individualisti noi ci scorgiamo la coesistenza di due idee fondamentali, contraddittorie tra di loro, che molti non affermano esplicitamente, ma che in una forma o nell’altra si ritrovano sempre — e spesso anche nelle idee di molti anarchici che individualisti non soglion chiamarsi.

La prima di queste idee consiste nel considerare la società come un aggregato d’individui autonomi, completi in sé stessi e capaci di bastare a sé stessi, che non han ragione di stare insieme se non vi trovano il proprio tornaconto, e che potrebbero separarsene quando trovassero che i vantaggi che la società offre loro non compensano i sacrifizi di libertà individuale che essa esige. Insomma considerano la società, umana come una specie di compagnia commerciale che lascia o dovrebbe lasciar libero ogni socio di entrarvi o sortirne secondo la sua convenienza. Oggi, essi dicono, siccome pochi individui hanno accaparrato tutte le ricchezze naturali o prodotte, tutti gli altri si trovano obbligati a subire per forza le regole imposte dalla società o da quelli che nella società hanno l’imperio. Ma se la terra, se i mezzi di lavoro fossero liberi a tutti, e se la forza organizzata di una classe non costringesse il popolo in schiavitù nessuno avrebbe ragione di restare in società quando il suo interesse gli consigliasse altrimenti. E siccome, una volta soddisfatti i bisogni materiali, il supremo bisogno dell’uomo è la libertà, ogni forma di convivenza che esigesse un qualsiasi anche minimo sacrifizio della volontà individuale è da ripudiarsi. Fa quel che vuoi, preso nel senso più stretto ed assoluto della frase, è il principio supremo, la regola unica della condotta.

Ma d’altra parte, ammesso l’individuo autonomo e la sua assoluta, illimitata libertà, ne deriva che non appena gl’interessi si trovano in antagonismo e le volontà divariano sorge la lotta, e nella lotta gli uni restano vincitori e gli altri vinti, e quindi si torna all’oppressione ed allo sfruttamento cui si vuol porre riparo.

Perciò occorreva agli anarchici individualisti, che non sono secondi a nessuno nell’ardente desiderio del bene di tutti, un modo per potere, più o meno logicamente, conciliare con il bene permanente di tutti, il principio dell’assoluta libertà individuale. E questo modo lo trovarono adottando un altro principio: quello dell’armonia per legge naturale.

Fa quel che vuoi; ma è certo, essi dissero, che spontaneamente, naturalmente tu non vorrai che quello che non può nuocere all’egual diritto degli altri a fare quello che vogliono.

«La nostra libertà, ci scrive un amico, esplicandosi in tutta l’ampiezza delle facoltà umane, non ledere mai la libertà altrui. Come gli astri gravitando intorno al proprio centro percorrono traiettorie speciali, cosi gli uomini potran percorrere la propria linea di libertà senza confondersi mai e senza degenerare nel caos». Ed altri, all’astronomia sostituendo la fisiologia, parla di una «simpatica agglomerazione di cellule nei vegetali e negli animali»; ed altri parla della formazione dei cristalli, e cosi di seguito passando in rivista tutte quante le scienze naturali. Dei cristalli contorti o mancati, della lotta per l’esistenza, delle catastrofi cosmiche, delle malattie, degli aborti, di tutta la infinita somma di stragi e di dolori che pure esistono nella natura, non si ricorda nessuno.

La disarmonia, l’antagonismo di interessi sono la conseguenza delle istituzioni presenti. Distruggete lo Stato; rispettate la completa libertà di commercio, di banca, di zecca; sia il diritto di possesso della terra limitato dall’obbligo di coltivarla o altrimenti adoperarla di persona; sia libera, completamente libera la concorrenza, dicono gli anarchici individualisti della scuola di Tucker — e la pace regnerà nel mondo: la rendita economica, vale a dire le differenze di valore, per produttività e per posizione, delle varie parti del suolo spariranno naturalmente, e la concorrenze menerà naturalmente alla più proficua utilizzazione delle forze naturali a vantaggio di tutti.

Distruggete lo Stato e la proprietà individuale, dicono gli anarchici individualisti della scuola comunista (la cosa esiste malgrado l’apparente contraddizione dei termini) — e tutto andrà bene: tutti andranno naturalmente d’accordo; tutti lavoreranno perché il lavoro è un bisogno fisiologico; la produzione corrisponderà sempre e naturalmente alle domande del consunto, e non vi sarà bisogno né di regole né di patti perché… facendo ognuno quello che vuole si troverà aver fatto, senza saperlo né volerlo, proprio, precisamente quello che volevano gli altri.

Sicché andando in fondo alla cosa si trova che l’anarchismo individualista, non è altro che una specie di armonismo, di provvidenzialismo.

Secondo noi i principi fondamentali dell’individualismo sono completamente erronei.

L’individuo umano non è un essere indipendente dalla società, ma ne è il prodotto. Senza società esso non avrebbe potuto uscire dalle sfere dell’animalità brutale e diventare veramente uomo, e fuori della società non potrebbe che ritornare più o meno rapidamente all’animalità primitiva.

Il dott. Stokmann del Nemico del Popolo di Ibsen, che irritato dal non essere compreso o seguito dal pubblico esclamava “l’uomo più forte è quello che è più solo” e che è stato preso per anarchico mentre non era che un aristocratico, diceva un solenne sproposito. Se egli sapeva più degli altri e più degli altri poteva, era perché più degli altri aveva vissuto in comunicazione intellettuale cogli nomini presenti e passati, perché più degli altri aveva profittato della società — e perciò più degli altri doveva alla società.

L’uomo può essere nella società libero o schiavo, felice o infelice, ma nella società deve restare, perché questa è la condizione del suo essere uomo. Quindi, invece di aspirare ad un’autonomia nominale e impossibile, deve cercare le condizioni della sua libertà e della sua felicità nell’accordo cogli altri uomini, modificando d’accordo cogli altri quelle istituzioni sociali che non gli convengono.

E vana è pure, e completamente smentita dai fatti, la credenza in una legge naturale per la quale l’armonia tra gli uomini si stabilisce automaticamente senza necessità della loro azione cosciente e voluta.

Anche distrutto lo Stato e la proprietà individuale, l’armonia non nasce spontaneamente, come se la natura si occupasse del bene e del male degli uomini, ma bisogna che gli uomini stessi la creino.

Ma di questo, per farci comprendere, dovremmo parlare ampiamente… ed i lettori già si sono lamentati che facciamo articoli troppo lunghi.

A un’altra volta dunque.

in «L’Agitazione» (Ancona), n. 6, 19 aprile 1897.

Note a margine (di effe) — I. Questo articolo di Errico Malatesta (1853-1932) apparve sul giornale senza firma; la seconda parte – con il titolo “Ancora dell’individualismo” – uscì il 25 aprile 1897 nel numero unico “L’Agitatore” di Ancona, perché “L’Agitazione” era stato sospeso a causa dell’arresto del gerente del giornale. La diatriba interna agli anarchici tra “individualisti” e “socialisti” (o “comunisti” o “associazionisti”) fu costante dalla fine dell’Ottocento in poi, ripetendosi ciclicamente nel tempo sia per i mutamenti del contesto politico, economico e sociale, sia per il succedersi delle generazioni dei militanti anarchici che si trovavano ad affrontare analoghi nodi di tattica, prassi e dottrina politica. I due articoli, che circolarono negli anni successivi anche in varie traduzioni, furono così riproposti come “attuali” dalla rivista “Studi Sociali” nel gennaio del 1935, con una nota della redazione la quale sottolineava che “costituiscono uno del più importanti scritti di Malatesta, il quale vi esponeva, fin da circa 40 anni fa, la sua concezione volontarista dell’anarchismo”.

II. La rivista “Studi Sociali” (1930-1946) fu fondata e diretta a Montevideo dall’esule Luigi Fabbri (1877-1935) e proseguita poi dalla figlia Luce Fabbri (1908-2000); idealmente riprendeva il lavoro iniziato con la rivista precedente animata insieme a Errico Malatesta, “Pensiero e volontà” (1924-1926), soppressa dal fascismo, che aveva già proposto altri episodi di questi ciclici dibattiti interni tra gli “individualisti” e “socialisti/comunisti” anarchici; fra i più significativi, uno scambio di opinioni tra Francesco Saverio Merlino (1856-1930) – che si era allontanato già da molti anni dall’anarchismo mantenendo però rapporti critici ma cordiali col movimento – e Malatesta nel numero inaugurale di “Pensiero e Volontà” e, ancora più a fondo, nell’articolo di Max Nettlau (1865-1944) “Anarchismo: Comunista o individualista? l’uno e l’altro” accompagnato dall’articolo complementare – sempre a firma Malatesta – “Comunismo e individualismo” (in «Pensiero e Volontà», a. III, n. 5, aprile 1926).

III. Una riproduzione digitale di buona qualità della rivista “Studi Sociali” la si può trovare in “Anáforas”, sito dell’Universidad de la República Uruguay, nell’emeroteca digitale della Biblioteca Libertaria Armando Borghi oppure in quella della Biblioteca Gino Bianco, dove si trova anche la collezione di “Pensiero e volontà”.