Emilio Salgari: Il Corsaro del Fiume Rosso (racconto)

EMILIO SALGARI — Sinkio! Questo nome bastava nel 1889 per far tremare tutte le popolazioni che abitavano le coste meridionali del Tonchino.
Terribili istorie si raccontavano sull’uomo che portava quel nome sinistro, perché Sinkio era rinomato come il più terribile corsaro che dominasse il delta del Fiume Rosso.
Giungendo precisamente in quell’epoca a Saigon, la capitale della Cocincina francese, ne avevo subito udito parlare anch’io non solo dai marinai che frequentavano quel porto, bensì anche dalle autorità francesi.
Curioso come sempre, avevo subito chiesto informazioni su quell’uomo che in quell’anno spargeva un così profondo terrore nei mari del Tonchino.
Non avevo però avuto che risposte vaghe: “è un pirata formidabile”, mi avevano detto gli uni, guardandosi attorno come se avessero temuto di venire uditi; “è un giustiziere”, mi avevano risposto gli altri tremando. Di più non ero riuscito a saperne.
Si sarebbe detto che tutti avessero paura a pronunciare una parola di più su quel terribile uomo.
Un giorno, dopo un pranzo lautissimo fatto in casa d’un mandarino a cui noi avevamo recato una grossa partita di sale imbarcato a Canton per suo conto, il discorso era caduto su Sinkio e cogliendo l’occasione, avevo chiesto al nostro ospite maggiori informazioni sul corsaro.
La risposta che mi diede fu così inattesa, da farmi rimanere di stucco.

— Vi piacerebbe conoscerlo?
Prima di rispondere ero rimasto qualche minuto dubbioso. Se la mia curiosità era forte, anche la mia prudenza non era poca, congiunta anche ad un certo timore. Se a quel corsaro, così temuto da tutti, fosse saltato il ticchio di farmi prigioniero per esigere poi un grosso riscatto?
I1 mandarino, che mi guardava sorridendo, indovinò forse i miei timori, perché si affrettò a dirmi:
— Oh! Non temete! Voi non siete un cinese per attirarvi addosso l’odio di Sinkio.
— Forse che quell’uomo non è così terribile come si dice? — chiesi.
— Terribile sì, ma solamente contro i cinesi.
— E per quale motivo?
— Questa sera venite a trovarmi, vi racconterò tutto; e, se lo vorrete, andremo a trovare Sinkio.
— E dove si trova quest’uomo? – Più vicino di quello che credete.
— E non lo prendono?
Il mandarino sorrise con aria misteriosa.
— Perché prenderlo? — mi disse poi.
— Non fa alcun danno alla colonia francese.
E mi congedò dicendomi:
— A questa sera.

Aspettai impaziente che il sole calasse, con un certo batticuore però, avendo molta apprensione sulla visita propostami dal mandarino. Appena calate le tenebre, vidi giungere un servo del mandarino, il quale mi condusse sulla gettata dove mi attendeva una di quelle grandi barche cariche di intagli e di dorature e che in quei paesi vengono chiamate sampan. Il mandarino mi aspettava sotto la tettoia che si trova nella parte centrale di quelle ricche barche, sostenuta da colonnette dorate, con tende di seta azzurra e cuscini di velluto cremisi.
— Volete uscire in mare? — mi chiese il mandarino.
— Vi farò assistere ad uno spettacolo terribile perché questa notte Sinkio ucciderà il suo rivale.
— Vi sarà un combattimento?
— E furioso, perché Tokio sapendo di essere ricercato, ha chiamato a raccolta tutti i suoi fedeli e armate le sue giunche.
— Chi è questo Tokio? — chiesi.
— Il nemico di Sinkio.
— Ora so qualche cosa più di prima, tuttavia non mi illumina affatto.
Il mandarino invece di rispondere mi offrì un sigaretto di forma conica molto profumato, si sdraiò sui cuscini di velluto invitandomi ad imitarlo, quindi diede il segnale della partenza. Il sampan sotto la spinta di dodici remi vigorosamente manovrati, scese le torbide acque del Mei-King, passando dinanzi alle numerose navi ancorate nel porto e uscì in mare a tutta velocità, piegando verso la costa orientale. Una calma profonda regnava fuori del porto e del fiume. Il mare, liscio quasi come uno specchio, rifletteva vagamente i raggi della luna. Dalla costa, coperta di alberi, giungevano profumi acuti, mentre una brezza fresca soffiava dal largo, disperdendo il fumo delle nostre sigarette. Io tacevo pensando alla stranezza di quell’avventura. Delle vaghe inquietudini mi agitavano, non avendo che una fiducia molto limitata in quel mandarino che conoscevo solamente da quarant’otto ore. Mi era venuto il sospetto che fosse un compagno del terribile corsaro e che avesse approfittato della mia curiosità per trarmi in qualche agguato. Ad un tratto la voce del mandarino mi strappò dalle mie riflessioni.

— Volevate sapere la storia di Sinkio — mi disse.
— Ho il tempo necessario per narrarvela, se siete disposto ad ascoltarmi.
Quantunque il momento mi sembrasse poco propizio, colle inquietudini che mi tormentavano, vinto dalla mia eterna ed invincibile curiosità per le avventure straordinarie, risposi che lo avrei ascoltato con piacere.
— I più credono, — mi disse il mandarino, — che Sinkio sia un volgare pirata, mentre invece non è che un vendicatore; e le autorità francesi lo sanno perché mai hanno cercato di dare la caccia alle sue giunche, quantunque si mostrino sovente presso queste coste.

«Sinkio ha fatto tremare tutti i cinesi stabiliti nel Tonchino, però mai ha torto un capello ad un tonchinese e tanto meno ad un europeo.
Ecco la sua istoria.
Dieci anni or sono, il governo cinese aveva proibito l’entrata, nel suo sconfinato impero, dell’oppio, quel terribile narcotico che rovina in breve tempo gli uomini più robusti che si abituano a fumarlo.
Sinkio in quel tempo non era che un onesto capitano di mare, il quale colla sua giunca trafficava fra la Cina ed il Giappone, portando specialmente oppio.
Rovinato nei suoi traffici dall’editto del governo cinese, divenne contrabbandiere. A dispetto della proibizione andava a caricare oppio a Jokohama e lo trasportava nei porti della Cina.
Un mandarino militare, antico pirata, innalzato a quel grado forse per le sue bricconate, si era però giurato di catturare l’audace contrabbandiere e di fargli subire i più atroci tormenti.
Una notte oscura, informato che Sinkio doveva sbarcare a Canton dell’oppio, va ad aspettarlo alla foce del Fiume delle perle con due grosse navi e appena scorge la giunca del contrabbandiere, lo assalta con furore.
Sinkio però aveva a bordo uomini valorosi e risoluti. Accetta la battaglia, affonda a cannonate una delle due navi avversarie e riesce ad impadronirsi del mandarino.
Qualunque altro al suo posto si sarebbe affrettato ad appiccarlo o, per lo meno, a gettarlo in mare con una palla di cannone attaccata ai piedi.
Ma Sinkio era cavalleresco quanto coraggioso. Fa giurare al mandarino di lasciarlo tranquillo e di non immischiarsi più mai nei suoi affari e lo fa sbarcare sano e salvo sulla costa.
Se Sinkio erasi mostrato generoso, il mandarino invece era sbarcato furioso di essersi lasciato battere dal contrabbandiere.
Mettendo in non cale il giuramento fatto, appena giunto a Canton, fa imprigionare gli uomini che lo avevano condotto e poi decapitarli dopo d’aver inflitto a loro atroci tormenti; quindi avendo saputo dove si trovavano la moglie ed i tre figli del contrabbandiere, li fa appiccare al faro di Boccatigris onde Sinkio potesse vederli al suo primo approdo, e proibendo a tutti di toglierli da quel luogo.
Quella era stata la risposta alla generosità, certo poco opportuna, del povero contrabbandiere.
La guerra era dichiarata fra Sinkio ed il mandarino.
Il contrabbandiere arma una nuova giunca, l’equipaggia con gente che nulla temeva e dichiara, con un’audacia incredibile, la guerra a tutto l’impero cinese.
Erano sessanta uomini contro trecentocinquanta milioni; eppure Sinkio tiene testa a tutte le giunche da guerra mandate a catturarlo.
Con fughe fulminee si sottrae ai combattimenti troppo pericolosi, piomba invece sui villaggi costieri indifesi e li distrugge portando dovunque la desolazione, poi, quando si crede sufficientemente vendicato, abbandona i mari della Cina per quelli del Tonchino.
Un uomo però non lo aveva dimenticato né abbandonato: era il mandarino. Aveva giurato di vendicarsi della sconfitta subita e mantenne la parola.
Egli ha saputo ora che Sinkio si trova rifugiato in una piccola baia di questa costa, e questa notte lo assalirà e noi assisteremo ad una lotta formidabile.»

— Chi vincerà? – chiesi.
— Hanno uomini valorosi entrambi, due navi che sono egualmente bene armate ed i due antagonisti sono d’un provato coraggio. La sorte deciderà.
Il sampan intanto continuava ad avanzarsi verso oriente tenendosi in vista della spiaggia, la quale era visibilissima essendo tutta coperta da piante d’alto fusto.
Avevamo già percorso almeno dieci miglia, quando il mandarino mi mostrò due punti luminosi che scintillavano sul mare.
— I fanali d’una nave? — chiesi io.
— Quelli della giunca del mandarino cinese – mi rispose.
— Mi sembrano immobili — osservai.
— Sì, il mandarino non osa assalire il suo nemico nella baia, per paura dei bassifondi e lo aspetta al largo.
— Che ci prenda a cannonate?
— Passeremo inosservati e poi siamo fuori di tiro.
— Ma il vostro amico può scambiarci per spie del mandarino e salutarci con una palla, la qual cosa non mi garberebbe affatto.
— Sinkio comprenderà che noi siamo amici.

Diede ai suoi uomini alcuni ordini. Tosto fu accesa sulla cima della tettoia centrale una lanterna di carta oliata, di grandezza esagerata poi un’altra più piccola, che aveva la carta verde. Ciò fatto, il samp s’accostò rapidamente a terra, girò una punta ed entrò in una piccola baia in mezzo alla quale distinsi vagamente una massa enorme e nera.
— È la giunca di Sinkio – mi disse il mandarino.
— Andremo a bordo?
— Sì, se non avete alcuna obbiezione.
Ormai non potevo più ritirarmi senza perdere il mio prestigio d’europeo. Confidando nella lealtà del mandarino e del contrabbandiere, accettai senz’altro la proposta.
Ero d’altronde assai curioso di conoscere quell’uomo che aveva sfidato, con un pugno d’uomini, il più popoloso impero del mondo, se non il più potente. Attraversammo la baia e giunti ad un tiro di freccia dalla giunca, udimmo una delle sentinelle a chiederci:
— Chi vive?
— Il mandarino Ping — rispose il mio compagno.
— Avanzate.
Abbordammo la giunca presso la prora e ci venne subito gettata una scala di corda.
— Salite — mi disse il mandarino.
Vinsi gli ultimi timori e mi arrampicai sul fianco della giunca passando sopra il bastingaggio di prora. Alcuni uomini muniti di lanterne mi avevano circondato, guardandomi sospettosamente. Erano tutti di statura gigantesca, d’aspetto fierissimo, e sopra i camiciotti portavano delle maglie di ferro arrugginite e in capo certi elmetti d’acciaio raffiguranti delle teste mostruose che incutevano paura. Alla cintura tutti portavano quelle lunghe sciabole chiamate dai giapponesi catane, colla lama larga, diritta e tagliente come un rasoio.
— È un mio amico — disse il mandarino, vedendo che quegli uomini non cessavano di guardarmi con un certo fare punto incoraggiante per me.
— Dov’è il vostro capo?
— A poppa — ci fu risposto.
Il mandarino mi prese per una mano e mi fece attraversare la nave. Quella giunca era una veliera di forme massicce, colla prora altissima, ornata di draghi giganteschi dipinti in rosso e la poppa larghissima. Queste navi poco sicure e pessime veliere, sono usate da tutti i cinesi e anche dai tonchinesi ed intraprendono sovente dei viaggi lunghissimi ma un numero immenso di esse affonda ogni anno. Su quella del contrabbandiere vi erano parecchi cannoni, delle grosse spingarde e dei falconetti e, appese alle murate, si vedevano armi da taglio d’ogni specie. Giunti a poppa, il mandarino mi presentò ad un uomo vestito interamente di lamine di ferro come gli antichi giapponesi, basso di statura, grosso e membruto. I1 suo volto non aveva nulla di spaventoso, anzi i suoi occhi obliqui e piccoli avevano un lampo bonario. Vedendomi, il famoso corsaro mi sorrise affabilmente e dopo d’aver scambiato col mandarino alcune parole in una lingua che non comprendevo, mi tese la mano, dicendomi in un francese abbastanza buono:
— Sinkio vi saluta ed è contento di ricevervi sulla sua nave. Forse sarà l’ultima volta che mi vedrete.
— È vero che fra poco assalirete la giunca del vostro nemico? — chiesi.
— Sì — mi rispose il contrabbandiere, mentre i suoi occhi s’accendevano.
— Sono due anni che ci diamo la caccia per sterminarci vicendevolmente e giacché l’occasione si presenta, vendicherò finalmente la distruzione della mia famiglia.
Un lungo sospiro sollevò il robusto petto del contrabbandiere, mentre io vidi i suoi occhi diventare umidi. Quel ricordo lo aveva profondamente commosso.
— Non darete quartiere al vostro nemico? — gli chiesi.
Sinkio alzò un braccio e m’indicò l’alberatura della nave: — Guardate — mi disse.
Alzai gli occhi e scorsi, non senza un brivido, una traversa di ferro irta di punte a somiglianza di un enorme pettine. Di fronte, sull’albero di trinchetto, ne esisteva un altro ed, in mezzo, da una camcola pendeva una solida fune.
— A che cosa possono servire? — chiesi.
— Non comprendete? — mi chiese Sinkio, con un sorriso da tigre.
— Non oso dirlo.
— Pel mio nemico: aspettate che io l’abbia nelle mie mani e lo farò volare da un pettine all’altro.
— Siate generoso; uccidetelo, siete nel vostro diritto, ma non tormentatelo barbaramente.
— Ha avuto pietà dei miei figli? Non mi ha uccisa anche la moglie? No, dente per dente, occhio per occhio, testa per testa. Addio, signore, io vado a tentare la sorte.
Mi porse la mano e mi fece segno di tornare nel sampan. Un momento dopo noi prendevamo terra all’estremità della baia, sotto la fitta ombra d’un gruppo di mangli le cui radici contorte si bagnavano nell’onda salata.
— Rimarremo qui — mi disse il mandarino.
— Non sarebbe prudente spingerci verso l’altomare perché le palle grandineranno da tutte le parti.
— A chi andrà la vittoria? — chiesi.
— Al corsaro del Fiume Rosso — mi rispose.
— È più forte e più valente del mandarino, e anche più risoluto. Domani quel povero cinese proverà le terribili punte dei pettini.
La giunca intanto aveva spiegate le sue vele e levate le ancore, poi si era illuminata da prora a poppa. Un numero infinito di torce erano state legate ai bastingaggi, sicché noi potevamo distinguere benissimo Sinkio ed i suoi corsari occupati a caricare i cannoni e preparare ogni cosa per l’abbordaggio. Anche la giunca del mandarino si era coperta di fuoco e veleggiava rapidamente verso la baia per impedire al corsaro del Fiume Rosso di uscire in mare. Poco dopo udimmo la prima cannonata, seguìta subito da un’altra. Avevano risposto da una parte e dall’altra. Dopo quei due primi colpi ci fu un breve silenzio, quindi i cannoni ricominciarono a tuonare con un crescendo spaventevole. Vedevamo cadere infranti pennoni e pezzi d’alberi, nondimeno le due giunche continuavano a corrersi addosso come se fossero smaniose di sfondarsi reciprocamente. Fra il rombo dei cannoni e le fucilate si udivano di quando in quando le grida di guerra e di morte dei combattenti. I due nemici parevano degni l’uno dell’altro e anche i loro equipaggi non si mostravano da meno.
Certo il mandarino aveva preso con sé gli uomini più coraggiosi di tutta Canton, perché ordinariamente i cinesi sono pessimi combattenti che non resistono molto ad un fuoco continuato. I1 corsaro si batteva splendidamente e manovrava la sua gium con un’abilità straordinaria; anche il mandarino si comportava da uomo di fegato e da marinaio esperto. Ad un certo momento vedemmo le due giunche ad incontrarsi. Parve che un immenso getto di fuoco passasse sopra entrambe. L’urto fu così formidabile che udimmo distintamente il rombo prodotto dallo sfasciarsi dei legni.

Cosa nacque poi? Per alcuni istanti fu un succedersi di urla e di spari, poi le fiaccole si spensero e non riuscimmo a scorgere più nulla. Ci parve però che una delle due giunche si fosse data alla fuga, perché udimmo rimbombare in lontananza alcuni colpi di cannone che diventavano sempre più fiochi. Finalmente ogni rumore cessò ed il silenzio non fu rotto che dal frangersi delle onde contro le radici mostruose dei mangli. Io ed il mandarino ci eravamo alzati in preda ad una viva ansietà. Cosa era avvenuto delle due giunche? Erano calate a fondo coi loro equipaggi o si erano allontanate? Interrogai il mandarino.
— Io suppongo che il cinese vedendosi in procinto di venire preso dal corsaro, abbia cercato uno scampo nella fuga — mi disse.
— Quelle due navi erano troppo forti e grosse per affondare con un solo urto.
— Dove sarà fuggito il cinese?
— Lo sapremo forse domani — mi rispose.
— Sinkio tomerà di certo.
Rimanemmo nella baia fino all’alba senza udire alcuna cannonata. Quando il sole spuntò il mare era deserto, né si scorgeva alcuna vela sull’orizzonte.
— Torniamo a Saigon — mi disse il mandarino.
— Se Sinkio non è morto mi manderà ad avvertire.
Tornammo ad imbarcarci sul sampan e quattro ore dopo giungevamo sulla gettata della capitale dell’Indocina francese. Trascorsero parecchi giorni senza che io udissi più parlare di Sinkio, né vedere il mandarino. Io cominciavo già a crederlo morto, quando un mattino venne da me un servo malese ad avvertirmi che il mandarino desiderava vedermi. Supposi che si trattasse di qualche notizia concernente il corsaro del Fiume Rosso e mi affrettai a recarmi dal tonchinese.
— Ho parlato ieri sera con Sinkio — mi disse, dopo d’avermi offerta una sigaretta e una tazza d’un certo liquore color dell’ambra che si ricava da una specie di palma.
— È ancora vivo! — esclamai.
— Ieri sera si è ancorato nella baia colla sua giunca, conducendo con se il suo nemico.
— Il mandarino cinese!
— Sì.
— Dove lo ha catturato?
— A sessanta miglia da qui, dopo cinque giorni d’accanito combattimento. Il cinese visto di non poter tenere testa agli uomini di Sinkio, ben più valorosi dei suoi, dopo d’aver respinto l’attacco si era dato alla fuga, quantunque la sua nave avesse assai sofferto nell’urto.

«Sinkio che si era messo ad inseguirlo, decise di non lasciarselo scappare e d’impedirgli di cercare un rifugio nei porti della Cina meridionale.
Per cinque giorni e cinque notti quei due acerrimi nemici si diedero la caccia, finché la sera del sesto, il cinese, il cui equipaggio era sfinito, si vide costretto ad accettare la battaglia.
La mischia fu terribile perché i cinesi, vedendosi ormai perduti, combattevano colla forza che infonde la disperazione. Mezzo equipaggio di Sinkio cadde sulla tolda della nave nemica, ma finalmente riuscì ad impadronirsi della giunca ed a prendere ancora vivo il mandarino.»

— E l’hanno ucciso?
— Ieri sera, dopo d’avergli fatto subire l’atroce supplizio dei pettini.
— Ed ora?
— La missione del corsaro è finita e si prepara a raggiungere sua moglie ed i suoi figli.
— Non vi comprendo — dissi.
— Comprenderete meglio questa sera — mi rispose il mandarino.
— Sinkio ci aspetta alla baia.
— Vuole farmi assistere a qualche spaventevole supplizio? — chiesi.
— Se si tratta di questo rifiuto d’accompagnarvi.
— No, perché tutti i cinesi che formavano l’equipaggio della giunca sono morti — mi rispose il mandarino.
— Venite senza timore.
Mi trattenne a pranzo parlando di tutto fuorché del corsaro del Fiume Rosso, poi quando il sole fu tramontato c’imbarcammo nel sampan per farci condurre alla baia. Non vi giungemmo che alle due del mattino a causa della corrente contraria prodotta dal riflusso. Come la prima volta, scorsi la giunca del corsaro ancorata in mezzo alla baia. Sugli alberi, sulla prora, sulla poppa e intorno alle murate vi erano numerose lanterne accese, come se si preparasse qualche festa. Quando salimmo sulla giunca, con mio vivo stupore trovai nel mezzo una enorme catasta di legna la quale occupava buona parte della tolda. Il corsaro mi venne incontro sorridendo. Indossava il suo costume di guerra e ai fianchi invece d’una aveva due catane.
— Sono contento di rivedervi prima di andarmene per sempre — mi disse, stringendomi la mano. — Direte ai francesi di Saigon che Sinkio non tornerà più mai in questi luoghi e che non udranno più parlare di lui.
— Partite per un lungo viaggio? — gli chiesi.
Egli mi rispose con un sorriso, poi dopo un breve silenzio, riprese con voce triste:
— Sono quattro anni che mia moglie ed i miei figli mi attendono.
Mi strinse nuovamente la mano, abbracciò il mio compagno, poi ci invitò a scendere nel nostro sampan. In quel momento mi accorsi che anche tutto il suo equipaggio era disceso nelle scialuppe e che si dirigeva verso terra.
— Parte solo? — chiesi al mandarino.
— Sì — mi rispose.
— Come farà a manovrare la sua giunca?
— Pel viaggio che sta per intraprendere non occorrono marinai — mi disse.
— Guardate!
La giunca cominciava a muoversi avendo il vento in favore e tutte le vele spiegate. Sinkio si era collocato al timone. Egli ci fece un ultimo saluto, poi ci volse le spalle per guidare la sua nave la quale muoveva rapida verso il mare. Era lontana appena un miglio, quando vidi una fiamma immensa alzarsi sulla tolda, illuminando sinistramente le acque.
— La giunca abbrucia! — esclamai.
— E Sinkio sta per raggiungere sua moglie ed i figli — mi disse il mandarino.
Lo guardai con stupore, anche con commozione.
— Sinkio ha compiuta la sua vendetta ed ora parte pel mondo da cui non si ritorna più — aggiunse il mandarino.
La giunca fiammeggiava tutta, allontanandosi sempre. Ondate di fumo rossastro giganteggiavano sopra di essa. Corse ancora per dieci minuti, poi vidi il fuoco spegnersi bruscamente. La nave era affondata insieme al corsaro.
— Torniamo a Saigon — mi disse il mandarino con un sospiro. — Tutto è finito.
E ci allontanammo tristi e silenziosi da quella baia, mentre il primo raggio di sole illuminava il mare.

[Emilio Salgari (1862-1911): Il corsaro del Fiume Rosso, (“Bibliotechina Aurea Illustrata”), Palermo, Biondo, 1902]
*La foto in alto, qui parzialmente ritagliata, è di Pok Rie.