D’Holbach: Saggio sull’arte di strisciare, ad uso dei cortigiani

PAUL HENRI THIRY D’HOLBACH – L’uomo di Corte è indubbiamente il prodotto più curioso che mostra la specie umana. È un animale anfibio nel quale tutti i contrasti si trovano comunemente riuniti. Un filosofo danese compara il cortigiano alla statua composta di materie molto differenti che Nabucodonosor vide in sogno: «La testa del cortigiano – dice – è di vetro, i suoi capelli sono d’oro, le sue mani sono di pece greca, il suo corpo è di gesso, il suo cuore è metà di ferro e metà di melma, i suoi piedi sono di paglia e il suo sangue è un composto d’acqua e argento vivo».

Bisogna confessare che un animale così strano è difficile da definire; lontano dall’essere conosciuto dagli altri, egli può appena conoscere se stesso; ad ogni modo sembra che, tutto considerato, lo si possa collocare nella classe degli uomini, sebbene con la differenza che mentre gli uomini ordinari non hanno che un’anima, il cortigiano parrebbe averne molte. In effetti un cortigiano è tanto insolente quanto vile, connotato tanto dall’avarizia più sordida e dall’avidità più insaziabile quanto dalla più estrema prodigalità, tanto dall’audacia più decisa quanto dalla pavidità più untuosa, tanto dall’arroganza più impertinente quanto dalla cordialità più studiata. In una parola, è un Proteo, un Giano, o piuttosto un Dio dell’India che si rappresenta con sette differenti volti.

Come che sia, è per questi animali così peculiari che le Nazioni sembrerebbero fatte. La Provvidenza destina loro ogni minimo piacere; lo stesso Sovrano non è che un loro uomo d’affari: quando fa il suo dovere, non ha altro impiego che sforzarsi di accontentare i loro bisogni, di soddisfare le loro fantasie, troppo felice di lavorare per questi uomini necessari dei quali lo Stato non può fare a meno. Non è che per il loro interesse che un Monarca deve mettere le tasse, fare la pace o la guerra, immaginare mille invenzioni ingegnose per tormentare e tiranneggiare i suoi popoli. In cambio di queste premure, i cortigiani riconoscenti ripagano il Monarca in compiacenza, in assiduità, in adulazioni, in bassezze, e il talento di scambiare i favori con queste importanti mercanzie è ciò che senza dubbio è più utile a Corte.

I filosofi, che solitamente sono uomini di cattivo umore, in verità vedono il mestiere di cortigiano come basso, come infame, come quello di un avvelenatore. I popoli ingrati non sentono minimamente quanto devono a questi grandi generosi che, per mantenere il loro Sovrano di buon umore, si votano alla noia, si sacrificano ai suoi capricci, immolano a lui continuamente il loro onore, la loro probità, il loro amor proprio, la loro umiliazione e rimorso; questi imbecilli non sentono dunque minimamente il prezzo di tutti questi sacrifici? Non riflettono minimamente su quanto deve costare essere un buon cortigiano? Per quanta forza di spirito si abbia, per quanto sia corazzata la coscienza per l’abitudine di disprezzare la virtù e calpestare la probità, gli uomini ordinari hanno sempre infinitamente pena a soffocare nel loro cuore il grido della ragione. Non ci sono che i cortigiani che riescano a ridurre questa voce importuna al silenzio; lui solo è capace di un così nobile sforzo.

Se esaminiamo le cose da questo punto di vista, vedremo che di tutte le arti quella più difficile è quella di strisciare. Quest’arte sublime è forse la più meravigliosa conquista dello spirito umano. La natura ha messo nel cuore di tutti gli uomini un amor proprio, un orgoglio, una fierezza che sono, di tutte le disposizioni, le più penose da vincere. L’animo si rivolta contro tutto ciò che tende a deprimerlo; esso reagisce con vigore ogni volta che lo si ferisce in questo punto sensibile; e se presto non si contrae l’abitudine di combattere, di comprimere, di schiacciare questa potente molla (ressort), diventa impossibile dominarlo. È ciò al quale i cortigiani si esercitano sin dall’infanzia, studio ben più utile, senza dubbio, di tutti quelli che si vantano con enfasi e che annunciano in coloro che hanno così acquisito la facoltà di soggiogare la natura, una forza della quale pochissimi esseri si trovano dotati. È per questo sforzo eroico, queste battaglie, queste vittorie che un abile cortigiano si distingue e perviene a tale punto di insensibilità che lo conduce al credito, agli onori, a quelle grandezze che sono oggetto dell’invidia dei suoi simili e quello dell’ammirazione pubblica.

Che si esaltino ancora, dopo ciò, i sacrifici che la Religione fa fare a coloro che vogliono guadagnarsi il cielo! Che ci si parli della forza d’animo di quei filosofi alteri che pretendono di disprezzare tutto ciò che gli uomini stimano! I devoti e i saggi non hanno saputo vincere l’amor proprio; l’orgoglio sembra molto compatibile con la devozione e la filosofia. È solo al cortigiano che è riservato di trionfare su se stesso e di riportare una vittoria completa sui sentimenti del suo cuore.

Indiscutibilmente un perfetto cortigiano è il più stupefacente di tutti gli uomini. Non ci si parli più dell’abnegazione dei devoti per la Divinità, la vera abnegazione è quella di un cortigiano per il suo padrone; guardate come si annulla in sua presenza! Egli diviene una pura macchina o, piuttosto, egli non è più nulla; egli attende da lui il proprio essere, cerca di sbrogliare dai suoi tratti quelli che egli stesso deve avere; egli è come una cera molle pronta a ricevere tutte le impressioni che gli si vorranno dare.

Ci sono alcuni mortali che hanno della rigidità nello spirito, un difetto di agilità nella spina dorsale, una mancanza di flessibilità nella cervicale; questa sfortunata conformazione (organisation) gli impedisce di perfezionarsi nell’arte di strisciare e li rende incapaci di avanzare a Corte. I serpenti e i rettili raggiungono le vette di montagne e picchi che nemmeno il cavallo più focoso è in grado di sfiorare. La Corte non è in alcun modo fatta per quei personaggi alteri, inflessibili, che non sanno né si prestano ai capricci, né cedono alle fantasie, e nemmeno, quando ce n’è bisogno, sanno approvare o favorire i crimini che la grandeur (grandiosità) giudica necessarie al benessere dello Stato.

Un buon cortigiano non deve mai avere pareri, non deve avere che quelli del suo padrone o del ministro, e la sua sagacia deve sempre farglieli presentire; ciò presuppone una consumata esperienza e una conoscenza profonda del cuore umano. Un buon cortigiano non deve mai aver ragione, non gli è permesso di avere più spirito del suo padrone o di chi distribuisce i suo benefici, egli deve ben sapere che il Sovrano e l’uomo che ne fa le veci non possono mai sbagliarsi.
Il cortigiano ben educato deve avere lo stomaco molto forte per digerire tutti gli affronti che il suo padrone a piacere gli vuol fare. Egli deve fin dalla più tenera infanzia apprendere a comandare la sua fisionomia, per la paura che essa tradisca i movimenti segreti del suo cuore o ne sveli un disappunto involontario che una vessazione potrebbe far nascere. Per vivere a Corte bisogna avere un impero completo sui muscoli del proprio volto, al fine di ricevere impassibili anche il più acceso disgusto. Un rancoroso, un uomo che ha dell’umore o della suscettibilità non avrà successo a Corte.

In effetti, tutti coloro che hanno in mano il potere prendono comunemente molto male che ci si risenta per le punzecchiature che loro hanno la bontà di fare o che ce ne si lamenti. I cortigiani davanti al loro padrone devono imitare quel giovane spartano che fu frustato per avere sottratto una volpe; sebbene durante la punizione l’animale celato sotto il suo mantello gli addenti il ventre, il dolore non gli può strappare il minimo grido. Quale arte, quale dominio su se stesso presuppone questa profonda dissimulazione che forma il primo carattere del vero cortigiano! Bisogna che continuamente sotto l’esteriorità dell’amicizia egli sappia sopire i suoi rivali, mostrare un viso aperto, affettuoso, a coloro che più detesta, abbracciare con tenerezza il nemico che vorrebbe strozzare; bisogna, infine, che le menzogne più impudenti non producano alcuna alterazione del suo viso.

La grande arte del cortigiano, l’oggetto essenziale del suo studio, è di mettersi al corrente delle passioni e dei vizi del suo padrone al fine di coglierne le debolezze: sarà così in possesso della chiave del suo cuore. Ama le donne? Bisogna procurargliene. È devoto? Bisogna divenire o farsi ipocrita. È ombroso? Bisogna fornirgli dei sospetti contro tutti quelli che lo circondano. È indolente? Non bisogna mai parlargli di affari. In una parola, bisogna servirlo a suo modo e soprattutto adularlo continuamente. Se è uno sciocco non si rischia nulla nel prodigargli anche quelle adulazioni che è più lontano dal meritare; ma se per caso ha dello spirito o del buon senso, cosa che è assai raramente da temere, ci sarà qualche accorgimento da prendere.

Il cortigiano deve studiare di essere affabile, affettuoso e cordiale con tutti coloro che potrebbero aiutarlo o nuocergli; e non deve essere altero se non con coloro dei quali non ha bisogno. Egli deve sapere a mente la tariffa di tutti quelli che incontra, egli deve salutare con calore la cameriera di una Dama favorita (en crédit), conversare famigliarmente con il portiere o il valletto di un ministro, accarezzare il cane del premier commis; infine, non gli è permesso di essere distratto un istante, la vita di un cortigiano è uno studio continuo.

Un vero cortigiano è tenuto come Arlecchino a essere amico di tutti, ma senza avere la debolezza di attaccarsi ad alcuno; obbligato anche a trionfare sull’amicizia, sulla sincerità, non è che al maggiorente che il suo attaccamento è dovuto, e questo attaccamento deve cessare non appena cessi il potere. È indispensabile detestare sul campo chiunque ha infastidito il padrone o il favorito più accreditato.

Che si giudichi da tutto questo se la vita di un perfetto cortigiano non sia se non un lungo seguito di penosi lavori. Le Nazioni possono mai pagare troppo caramente un corpo d’uomini che si vota sino a questo punto al servizio del Principe? Tutti i tesori dei popoli sono appena sufficienti per pagare degli eroi che si sacrificano interamente alla felicità pubblica. Non è giusto che degli uomini che si dannano con tale buona grazia per il vantaggio dei loro concittadini siano almeno ben pagati in questo mondo?

Quale rispetto, quale venerazione non dobbiamo a questi esseri privilegiati che il loro rango, la loro nascita, rende naturalmente così fiera, vedendo i sacrifici generosi che fanno senza sosta della loro fierezza, della loro alterigia, del loro amor proprio! Non portano tutti i giorni questo sublime abbandono di se stessi fino a ricoprire presso il Principe le stesse funzioni che l’ultimo dei valletti ricopre presso il suo padrone? Non trovano nulla di vile in tutto ciò che fanno per lui. Ma che dico? Essi si gloriano degli impieghi più bassi presso la sua sacra persona, aspirano notte e giorno alla felicità di essergli utili, lo seguono a vista, si rendono ministri compiacenti dei suoi piaceri, si assumono la responsabilità delle sue sciocchezze o si premurano di applaudirle.

In una parola, un buon cortigiano è talmente assorto nell’idea del suo dovere che egli si inorgoglisce spesso di fare delle cose alle quali un onesto lacchè non vorrebbe mai prestarsi. Lo spirito del Vangelo è l’umiltà; il Figlio dell’Uomo ci ha detto che colui che si esalta sarà umiliato; l’inverso non è meno sicuro, e le genti della Corte seguono il precetto alla lettera. Non ci stupiremo più, dunque, se la Provvidenza li ricompensa senza misura della loro pieghevolezza, e se la loro abiezione gli procura gli onori, la ricchezza e il rispetto delle Nazioni ben governate.

**Traduzione 2015/2017: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati.
Testo originale: Essai sur l’art de ramper, à l’usage des courtisans (1764), incluso ora anche in un piccolo omaggio bilingue all'(in)attualità del Barone d’Holbach (1720-1789) e di Étienne de La Boétie (1530-1563) pubblicato qualche tempo fa come e-Book [Libertà & Potere. Saggio sull’arte di strisciare, ad uso dei cortigiani / La servitù volontaria, Pieffe Edizioni 2015]. Con alcune varianti marginali, questa traduzione proviene da lì.
Scritto dal Barone d’Holbach probabilmente nel 1764, il testo circolò privatamente prima di essere pubblicato postumo l’anno dopo la Rivoluzione francese dell’89, nel numero di dicembre 1790 della Correspondance, il periodico curato da Grimm, e successivamente fu stampato per la prima volta come opuscolo autonomo nel 1813, durante le ultime guerre napoleoniche e giusto alla vigilia della Restaurazione assolutistica anti-repubblicana, con i ritorni all’Ancien Régime sanciti dal Congresso di Vienna (1814). Una introduzione più particolareggiata a questo testo si può leggere qui in S-Composizioni in Rivista.