Cortigiani, quest’arte sublime di strisciare…

FABRIZIO PINNA

«Benché non poco mi sembri aver detto, più assai mi rimarrebbe a dire, se non parlassi a lettori, ai quali non credo necessario il dir tutto» (Vittorio Alfieri, Del principe e delle lettere, 1778/1786, I. XII)

«Voyez-vous, une personne de mon entourage divisait les êtres en trois catégories : ceux qui préfèrent n’avoir rien à cacher plutôt que d’être obligés de mentir, ceux qui préfèrent mentir plutôt que de n’avoir rien à cacher, et ceux enfin qui aiment en même temps le mensonge et le secret((Parole pronunciate dal personaggio Jean-Baptiste Clamence; nella traduzione di Sergio Morando (1958): “Vede, un mio conoscente divideva gli esseri in tre categorie: chi preferisce non aver nulla da nascondere piuttosto che essere costretto a mentire, chi preferisce mentire piuttosto che non aver nulla da nascondere, e quelli a cui piacciono al tempo stesso la menzogna e il segreto” (Albert Camus, La caduta, Bompiani, Milano, 1994/2011).))» (Albert Camus, La chute, 1956)

I.1. “Cortigiani, vil razza dannata” recita un verso della celebre aria del Rigoletto (1851) di Verdi: ormai lontani i tempi in cui Baldassarre Castiglione (1478-1529) sognava la sua idealizzata paideia((Ambientato nella corte di Urbino, il trattato Il Cortegiano – pubblicato in prima edizione nel 1528 – com’è noto ebbe una travagliata stesura durata oltre dieci anni e fu scritto da Baldassarre Castiglione tra il 1513 e il 1524.)) che avrebbe dovuto riscattare e formare professionalmente l’élite politica nobiliare, ancora a metà ‘700 inoltrato questo “strano animale anfibio” che allora in gran parte d’Europa si chiamava gentiluomo di corte, continuava a rimanere un enigma capace di generare tanto fervida apologetica quanto feroce denigrazione((Per un’articolata ricostruzione storica di lungo periodo e un’interpretazione critica si può vedere Jeroen Frans Jozef Duindam, Vienna e Versailles: le corti di due grandi dinastie rivali (1550-1780), Roma, Donzelli, 2004.)). Potente ma servo dei potenti, si potrebbe riassumere in formula un’opinione molto diffusa. E proprio come epiteto dispregiativo, nella definizione che si legge ancora oggi in tutti i vocabolari europei, la parola cortigiano è appunto rimasta d’uso corrente.

Se d’Alembert (1717-1783) si preoccupava di sottolineare che cortigiano è un aggettivo “che non bisogna sempre confondere con l’uomo di corte”, rassicurando i lettori dell’Encyclopedie (1754) di non volere “in alcun modo, in questo articolo, fare la satira di coloro che il dovere o la necessità conducono presso la persona del principe”((La voce, che si può leggere integralmente tra i testi qui tradotti, fu scritta nel 1752 e compare nel tomo IV della prima edizione dell’Encyclopedie a cura di Diderot / d’Alembert, 1754, pp. 400-401.)), proprio in tale esercizio dieci anni dopo si muoverà invece la libera penna affilata del barone Paul Henri Thiry d’Holbach (1720-1789) nel comporre il suo Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei cortigiani, “facétie philosophique” e piccolo capolavoro d’arguzia.

I.2. Scritto probabilmente nel 1764, il testo circolò privatamente prima di essere pubblicato postumo l’anno dopo la Rivoluzione francese dell’89, nel numero di dicembre 1790 della Correspondance, il periodico curato da Grimm((Riassumendo molto sommariamente: fondata da Guillaume-Thomas Raynal (1713-1796) e poi rilevata da Friedrich Melchior Grimm (1723-1807) – al quale si affiancò a lungo Denis Diderot (1713-1784) – la Correspondance littéraire, philosophique et critique era un periodico rivolto all’alta aristocrazia, sottoscritto per abbonamento, circolato privatamente tra il 1747 e il 1793; nel 1812-1813 ci fu la prima edizione parigina a stampa della raccolta, in più volumi; nel V Tomo, che comprende il numero del dicembre 1890 del periodico, alle pagine 611-619 compariva l’“Essai sur l’art de ramper à l’usage des courtisans. Facéties philosophiques tirées des manuscrits de feu M. le baron d’Holbach”, il quale nel 1813 – nel mezzo delle guerre europee in corso – venne anche messo in commercio separatamente per la prima volta come estratto. La Correspondance fu ristampata – in maniera più completa – in 16 volumi nel 1829-1831 (il saggio del barone d’Holbach, senza varianti, in quell’edizione si può leggere nel T. 15, pp. 240-247).)), e successivamente, per la prima volta stampato come opuscolo autonomo, nel 1813, durante le ultime guerre napoleoniche e giusto alla vigilia della Restaurazione assolutistica anti-repubblicana, con i ritorni all’Ancien Régime sanciti dal Congresso di Vienna (1814).

“I serpenti e i rettili raggiungono le vette di montagne e picchi che nemmeno il cavallo più focoso è in grado di sfiorare”: realistica e disincantata meditazione etica sul potere e sugli adulatori dei potenti, il bersaglio diretto verso cui l’autore muoveva i suoi affondi era, nel tempo in cui fu scritto il saggio, ancora una “classe” ben definita all’interno della nobiltà in regimi retti ancora per lo più proprio a monarchia assoluta((Nella definizione data dallo stesso d’Holbach: «Coloro tra i Nobili la cui funzione o il favore del Principe avvicinano alla sua persona costituiscono una classe d’uomini conosciuti come Cortigiani» («Ceux d’entre les Nobles que leurs fonctions ou la faveur du Prince approchent de sa personne constituent une classe d’hommes connus sous le nom de Courtisans», in Id., La politique naturelle, vol. I, Londra 1773, p. 207). Nella sua vis polemica, così precisava lapidariamente: “Una corte può essere definita una lega perpetua formata tra qualche cattivo Cittadino per corrompere il Sovrano e opprimere i sudditi” («Une cour peut se définir une ligue perpétuelle formée entre quelques mauvais Citoyens pour corrompre le Souverain et opprimer les Sujets», ivi). Non è qui il caso di entrare nei dettagli delle sue idee politiche; semplificando all’estremo, per dare un’idea a chi non le avesse presenti si può dire che da ferreo anti-assolutista le sue preferenze andavano a un governo incardinano su una monarchia liberale espressione della “volontà pubblica”, la cui autorità era dunque legittimata da tutte le articolazioni della società che le conteneva nel suo insieme. Più in generale, la sua teoria politica ha le radici in una filosofia e antropologia naturalistica, che accoglie “principi semplici ed evidenti” e rifiuta le “notions abstraites et métaphisiques” della teologia e metafisica allora tradizionali, non in grado di spiegare il fondamento della Sociabilité: «La Natura – riassumeva d’Holbach – facendo l’uomo sensibile gli ispira l’amore per il piacere e il timore per il dolore. La Società è l’opera della Natura, poiché è la Natura che ha posto l’uomo nella Società. L’amore per la Società, o la Sociabilità, è un sentimento secondario che è il frutto dell’esperienza o della ragione. La ragione non è altro che la conoscenza, tratta dall’esperienza e dalla riflessione, di ciò che ci è utile o nocivo» («La Nature en faisant l’homme sensible lui inspira l’amour du plaisir et la crainte de la douleur. La Société est l’ouvrage de la Nature, puisque c’est la Nature qui place l’homme dans la Société. L’amour de la Société ou la Sociabilité est un sentiment secondaire qui est fruit de l’expérience ou de la raison. La raison n’est que la connoissance de ce qui nous est utile ou nuisible, fournie par l’expérience et la réflexion», op. cit., p. 3). Discutere poi se il concetto di “Natura” che richiama d’Holbach non sia, in realtà, a sua volta riconducibile a una metafisica, porterebbe – va da sé – il discorso molto lontano. Qui è sufficiente ricordare che dal XVI e XVII secolo alla Repubblica delle Lettere si affianca la Repubblica della Scienza e che, dalla fine del ‘600, con le critiche all’antropocentrismo si andò «lentamente formando un’immagine “lucreziana” dell’universo che costituirà per almeno un secolo (fino al barone d’Holbach e oltre) la grande alternativa al deismo e all’immagine del mondo costruita da Newton e dai newtoniani. […] Era nata un’immagine nuova della natura e del posto dell’uomo nella natura. Essa, così come la nozione di un universo infinito, poteva essere variamente utilizzata: poteva servire come fondamento alla religiosità profonda di Pascal come al determinismo dei grandi materialisti del Settecento» (Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 184-185; ma si veda anche, più sotto, la nota sull’Amor proprio).)), dove il solo vertice della piramide si sottraeva alla loro scalata, ma che di fatto tiravano le fila dello stato poiché, come ricordava lo stesso d’Holbach, “È tra questi Cortigiani che i Monarchi scelgono i loro Consiglieri, i loro Favoriti, i loro Ministri, in una parola, coloro su cui posano i dettagli dell’amministrazione”((«Ogni potere in uno Stato – aggiungeva d’Holbach – non si stabilisce che a pregiudizio di un altro. Perché i Ministri, i Favoriti, i Cortigiani siano potenti, bisogna che il principe sia debole. È sempre sotto dei Sovrani intorpiditi nel vizio, nell’oblio dei loro doveri, nell’inazione che il loro potere è più grande. Sotto dei Monarchi negligenti, dissipati, incapaci, i Ministri sono despoti e i Popoli sono gli schiavi e i trastulli di alcuni favoriti dei quali gli interessi divergenti spezzettano perpetuamente lo Stato» («Ce fut parmi ces Courtisans que les Monarques choisirent leurs Conseillers, leurs Favoris, leurs Ministres, en un mot, ceux sur qui ils se reposèrent des détails de l’administration»; «Tout pouvoir dans un Etat ne s’établit qu’au préjudice d’un autre. Pour que les Ministres, les Favoris, les Courtisans soient puissans, il faut que le Prince soit faible. C’est toujours sous des Souverains endormis dans le vice, dans l’oubli de leurs devoirs, dans l’inaction que leur pouvoir est le plus grand. Sous des Monarques négligens, dissipés, incapables, les Ministres sont despotes et les Peuples sont les esclaves et les jouets de quelques favoris dont les intérêts divergens déchirent perpétuellement l’Etat», in Id., La politique naturelle, vol. I, Londra 1773, p. 207 e pp. 208-209; alle pp. 206-220 compaiono, espressi con altro linguaggio, quasi tutti i luoghi topici presenti anche nel Saggio).)). Tutti onori raggiunti, naturalmente, con grande sapiente merito d’arte e costanza solo dopo una lunga, severa selezione.

I.3. Di tutte le arti, infatti, “quella più difficile è quella di strisciare. Quest’arte sublime è forse la più meravigliosa conquista dello spirito umano”, l’unica in grado di sconfiggere persino il sentimento di dignità e l’amor proprio che indelebilmente “la natura ha messo nel cuore di tutti gli uomini”, scrive d’Holbach((Amor proprio è uno dei concetti chiave nel testo, in un significato che – grosso modo a partiredal XVI secolo – stava via via ridefinendosi in senso eticamente neutro rispetto alle tradizionali censure religiose, sganciando l’antropologia e la psicologia da miti e dogmi teologici irriflessi; in Gianni Paganini e Edoardo Tortarolo (a cura di), Illuminismo. Un vademecum, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, il saggio di Fabienne Brugère e Antony McKenna, “Amor proprio e virtù sociale” (pp. 19-32) sinteticamente riassume questo punto nei dibattiti filosofici del tempo (anche se trascura d’Holbach e, soprattutto, David Hume); come inoltre indica Barbara Carnevali, “Società e riconoscimento” (ivi, pp. 278-292): “A Hobbes si attribuisce, giustamente, la prima problematizzazione moderna del problema sociale: non stupisce che la sua antropologia sia anche il più importante laboratorio di filosofia del riconoscimento prima di Rousseau. Ne è centro la definizione della glory, l’insaziabile pretesa di superiorità sulle altre coscienze o desiderio di eccellenza riconosciuta. […] L’influenza di queste idee sul pensiero successivo è stata profonda. Grazie alla popolare traduzione francese (1649) del Cittadino, da parte di Samuel Sorbiére – che rendeva la nozione di glory con il termine amour-propre -, la psicologia hobbesiana si innesta su quella agostiniana: il desiderio di essere considerati e ammirati, che a sua volta è il sintomo del conato individuale all’autoaffermazione, diventa il cardine della disincantata antropologia moralistica, acquisendo una fenomenologia sempre più sottile e raffinata” (cit. a p. 287 e 288). Con più di un equivoco, la tradizione francese si andrà poi intrecciando con quella britannica e la filosofia scozzese del “moral sense”. Com’è noto, nel Settecento è a Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) che si deve una delle più accolte – ancora oggi – distinzioni tra amour-propre e amour de soi (cfr. i saggi nel volume a cura di Giulio M. Chiodi – Vittorio Gatti, La filosofia politica di Rousseau, Milano, F. Angeli, 2012), mentre Hume (1711-1776), contemporaneamente, insisterà invece molto sulla non riducibilità dei comportamenti al solo self-love – equivalente all’amour-propre – e selfishness (egoism) fissando – contra Hobbes e ondeggiando intorno al self-liking di Mandeville – la “virtù sociale” nella benevolence (in equivoco rapporto anche con la sympathy), un sentimento di benevolenza originario e distinto proprio della natura umana e di altri animali (si può vedere in questa stessa collana di «In/definizioni» alcuni suoi saggi in David Hume, L’Amore di Sé. Dignità o miseria della natura umana?, Pieffe Edizioni, 2015, volumetto dal quale sono riprese queste annotazioni). Limitandosi solo a qualche accenno, va comunque ricordato che ulteriori complicazioni nel Settecento nascono anche per la sovrapposizione operata tra amor proprio e interesse personale nei decenni in cui l’economia politica inizia a definirsi come ambito autonomo di ricerca, continuando però a mantenere il suo vincolo con l’etica laica (cfr. Albert Schatz, L’individualisme économique et sociale. Ses origines, son évolution, ses formes contemporaines, Paris, Armand Colin, 1907; Pierre Force, Self-Interest before Adam Smith. A Genealogy of Economic Science, Cambridge University Press, 2003; pregevoli anche il numero monografico “Rationalité et émotions: un examen critique”, «Revue européenne des sciences sociales», XLVII-144 | 2009 – URL: http://ress.revues.org/56 e Amy M. Schmitter (2010), 17th and 18th Century Theories of Emotions, in «Stanford Encyclopedia of Philosophy»: http://plato.stanford.edu/entries/emotions-17th18th/). Si vanno così delineando in senso moderno alcune coppie concettuali rimaste costanti sino ai giorni nostri, quali interesse / disinteresse, altruismo / egoismo, individuo / società, e altre parziali, vere o presunte antinomie. In un complicato intreccio di rimandi a volte un po’ confuso, da autore ad autore esistono tuttavia nell’uso dei termini non poche ambiguità e oscillazioni semantiche, le stesse che poi nell’Ottocento daranno origine anche a una querelle infinita sull’individualismo (ridotto spesso arbitrariamente a sinonimo di egoismo, come in molta polemica religiosa tradizionalista e/o reazionaria Ancien Régime, che peraltro prosegue ancora oggi, a volte travestita – intenzionalmente e consapevolmente oppure no, il risultato non cambia -per opera di alcuni ideologi del cosiddetto comunitarismo).)): «I devoti e i saggi non hanno saputo vincere l’amor proprio; l’orgoglio sembra molto compatibile con la devozione e la filosofia. È solo al cortigiano che è riservato di trionfare su se stesso e di riportare una vittoria completa sui sentimenti del suo cuore».

E così, in un gioco di specchi, l’atarassia, l’imperturbabilità dell’animo tanto celebrata da molti filosofi antichi, con “sforzo eroico” coltivato sin dall’infanzia si trasforma nei cortigiani più pedestremente in insensibilità interessata e, pace Torquato Accetto, non tanto onesta((Il riferimento è naturalmente a Torquato Accetto (data di nascita incerta, intorno al 1600, m. 1640), Della dissimulazione onesta, Napoli 1641, trattatello che affrontava uno degli aspetti della vexata quaestio sulla cosiddetta “ragion di stato”; la dissimulazione è uno dei concetti chiave ripresi criticamente da d’Holbach e che si era andato delineando già durante l’Umanesimo e il Rinascimento; sulle attuali linee accademiche di ricerca in corso si può vedere il numero monografico “Dissent and dissimulation / Dissidenza e dissimulazione” a cura di Antony Molho et Jean-Pierre Cavaillé, «Les Dossiers du Grihl» 2/2009 (riprende i temi di un seminario che si è tenuto nel 2008 nell’Istituto universitario europeo di Firenze che faceva un po’ il punto sulle interpretazioni avanzate da Rosario Villari nel suo Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, 1987; è liberamente consultabile online: http://dossiersgrihl.revues.org/3665); il n. 1/2013 della stessa rivista è stato inoltre dedicato a un tema contiguo, “Expressions de la dissidence à la Renaissance” (URL: http://dossiersgrihl.revues.org/5549).)) quanto tenace capacità di dissimulare all’occorrenza qualsiasi emozione e passione per fini di potere (ma “Quale arte, quale dominio su se stesso presuppone questa profonda dissimulazione che forma il primo carattere del vero cortigiano!”).

I.4. Attuale o inattuale la satira d’Holbach? Sta a ogni lettore valutare secondo la sua esperienza e conoscenza del mondo, ma certo è che molto nella risposta dipende da quale valore si riconosce alla massima che “Tutti gli uomini sono presi dal desiderio di dominare, di essere preferiti ai loro simili, di acquisire considerazione e ricchezze”. Semplicemente, aggiunge l’autore, alcuni per raggiungere il successo in questi scopi si fanno meno scrupoli di altri e per loro “Tutto si nobilita, dacché conduce al potere”.

Ovunque esistono rapporti gerarchici di dominio e subordinazione, oggi si sarebbe tentati di dire intendendone il senso estensivamente e per analogia, molte dinamiche di potere si ripetono in maniera simile – e a volte identica – perché la natura umana nel suo fondo negli ultimi secoli non è mutata e anche in una società molto più complessa come la nostra in cui le “corti” si sono, per molti versi, moltiplicate, i “perfetti cortigiani” si possono muovere a loro agio e non solo nel mondo della politica, sebbene lì certi comportamenti risultino spesso più evidenti((Il concetto di “potere” è molto meno intuitivo di quanto comunemente si pensi; in prima approssimazione si può vedere Steven Lukes, Potere, in «Enciclopedia delle scienze sociali» (Treccani, 1996): http://www.treccani.it/enciclopedia/potere_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali)/ . Ciò premesso, e anche andando al di là della quotidiana propaganda partitica o di quanto riportano periodicamente le cronache giornalistiche, la situazione politica in Italia è molto tormentata, con più problemi che soluzioni: Leonardo Morlino – Daniela Piana – Francesco Raniolo (a cura di), La qualità della democrazia in Italia (1992-2012), Bologna, Il Mulino, 2013; e non mancano i j’accuse e le pubbliche invettive mosse da passione civile, come quella – tra le ultime apparse – di Giorgio Galli, I riluttanti. Le élites italiane di fronte alla responsabilità, Roma-Bari, Laterza, 2012. Nonostante le difficoltà di “studiare sul campo” certi fenomeni, alcune ricerche mirate iniziano a fornire dati e analisi un po’ meno occasionali o impressionistiche rispetto a quelle del passato; tra questi, a titolo di esempio: Fabrizio Di Mascio, Partiti e Stato in Italia. Le nomine pubbliche tra clientelismo e spoils system, Bologna, Il Mulino, 2012; Piero Ignazi – Luciano Bardi – Oreste Massari (a cura di), Non solo Roma. Partiti e classi dirigenti nelle regioni italiane, Milano, Università Bocconi, 2013; Tito Boeri – Antonio Merlo – Andrea Prat (a cura di), Classe dirigente. L’intreccio tra business e politica, Milano, Egea, 2014. Interessante rimane anche lo studio di Guido O. Kirner, Politica, patronage e scambio di doni. Per l’archeologia dei rapporti sociali premoderni nella politica delle società moderne, in «Scienza & Politica», Vol. 16, 30/2004, pp. 59-81 – URL: http://scienzaepolitica.unibo.it/article/view/2838 .)). E quando riescono, visti i loro sacrifici, se non si vuole cedere al moralismo che altro dirgli – oggi più borghesemente – se non: “chapeau!”? O così parrebbe ((Del resto persiste il doppio problema intrecciato della morale pubblica e del come si possano in concreto circoscrivere penalmente comportamenti noti e ricorrenti, consentendo di adottare adeguate sanzioni ed escogitare misure di deterrenza realmente efficaci. Come ha evidenziato il giurista statunitense Stuart P. Green, «Le sanzioni criminali, il tipo più grave di sanzioni che abbiamo nella società civile, sono state riservate per la condotta che non solo causa oppure è rischio di gravi lesioni (harms) ma è anche inequivocabilmente sbagliata (unambiguously wrongful)» in senso etico, come nei casi di omicidio, stupro, rapina, ma che ha lasciato fuori tutto «un’importante insieme di reati che riflettono un diverso schema (pattern)» e sui quali non sembra esistere un altrettanto netto comune consenso sulla loro illiceità: «I reati che ho in mente – corruzione, estorsione, frode, evasione fiscale, spergiuro, ostruzione alla giustizia, falsa testimonianza, insider trading, e varie violazione di norme e della proprietà intellettuale – tendono ad essere commessi senza violenza; i danni che causano sono spesso diffusi e le vittime colpite da tali reati sono spesso difficili da identificare. Per mancanza di un termine migliore, e riconoscendone la natura contestata, mi riferirò a questa “famiglia” di reati definita piuttosto vagamente, come crimini “dei colletti bianchi”» («There is, however, an important collection of criminal offenses that reflects a different pattern. The offenses I have in mind – bribery, extortion, fraud, tax evasion, perjury, obstruction of justice, false statements, insider trading, and various regulatory and intellectual property crimes – tend to be committed without violence; the harms they cause are often diffuse; and the victims they affect are frequently hard to identify. For lack of a better term, and while recognizing its contested nature, I will refer to this rather loosely defined “family” of offenses as “white collar” crimes», Stuart P. Green, Moral Ambiguity in White Collar Criminal Law, in «Notre Dame Journal of Law, Ethics & Public Policy», 18/2004, pp. 501-519, cit. a p. 501 – URL: http://scholarship.law.nd.edu/ndjlepp/vol18/iss2/15 ). Di Green, che nella scelta terminologica richiama una lunga tradizione che si è ispirata all’omonimo libro del ’49 del criminologo Edwin Sutherland (1883-1950), è stato già tradotto in italiano I crimini dei colletti bianchi. Mentire e rubare tra diritto e morale, Milano, Università Bocconi, 2014; segno o meno dei tempi e delle molte “crisi” che attraversano le società contemporanee, l’attenzione internazionale verso questi fenomeni è comunque sempre più cresciuta negli ultimi anni, come pure mostrano Frédéric Monier – Olivier Dard – Jens Ivo Engels (a cura di), Patronage et corruption politiques dans l’Europe contemporaine (XIXe-XXe siècles), Paris, Armand Colin, 2014 e Pierre Lascoumes – Carla Nagels, Sociologie des élites délinquantes. De la criminalité en col blanc à la corruption politique, Paris, Armand Colin, 2014, in cui i due sociologi francesi provano a dare alcune risposte alle questioni sollevate anche da Green (il quale però, va precisato, a loro differenza non è tanto interessato a “certain types of offenders” quanto a un “certain group of offenses”), studiando il perché “le devianze e delinquenze delle élite non sono percepite come avere la stessa gravità di quelle che attentano alla persona e ai beni” («Les déviances et délinquances des élites ne sont pas perçues comme ayant la même gravité que celles portant atteinte aux personnes et aux biens. Elles ne suscitent pas non plus la même réaction sociale»).)).

*questo testo è parte dell’introduzione a un e-book uscito nel 2015: d’Holbach – La Boétie, Libertà & Potere: La servitù volontaria – L’arte di strisciare ad uso dei cortigiani, [collana In/Definizioni], Pieffe Edizioni, 2015 [ISBN: 978-88-99508-00-5], che si può ancora trovare in vari e-book store, compreso in quello del popolare Amazon. Una traduzione del saggio del barone d’Holbach si può leggere anche qui in S-Composizioni in Rivista, così come anche l’altra parte dell’introduzione che era dedicata allo scritto di Étienne de La Boétie.

I.5. UNA BREVE NOTA BIBLIOGRAFICA – Oltre a quanto già richiamato sui nodi principali nelle digressioni inserite tra le note, ancora qualche ulteriore indicazione per chi desiderasse fare una lettura più approfondita dei testi. Apertamente contro i cortigiani d’Holbach si è espresso ripetutamente nei suoi maggiori trattati etico-politici, i quali sono anche una critica – da un punto di vista naturalistico, strettamente laico e non religioso, seguendo in questo la tradizione inaugurata da Aristotele, più che da Platone – sia alla separazione, tutt’oggi controversa, delle due “polarità” operata da Machiavelli sia alle visioni un po’ idealizzate e di maniera divulgate da Montesquieu, inclusa la sua opera maggiore, Lo spirito delle leggi (L’esprit des lois, 1748); cfr. ad Indicem e passim: La politique naturelle, ou Discours sur les vrais principes du gouvernement, in 2 tomi, Londra 1773; Systême social ou Principes naturels de la morale et de la politique, avec un examen de l’influence du gouvernement sur les moeurs, 3 tomi, Londra 1773; Éthocratie ou Le gouvernement fondé sur la morale, Amsterdam 1776. Le riproduzioni digitali dei testi disponibili in Gallica, servizio della biblioteca nazionale di Francia, sono pessime ma in mancanza di altro potrebbero risultare utili al lettore: http://gallica.bnf.fr . Per le (poche) traduzioni recenti – e meno recenti – disponibili in italiano si può invece agevolmente consultare il catalogo informatico nazionale: www.sbn.it .

Quasi superfluo ricordare ancora una volta che l’obiettivo contro il quale d’Holbach principalmente puntava le sue critiche era, per ovvie ragioni storiche, la monarchia assoluta, allora la forma più diffusa di quelli che oggi chiamiamo, più estesamente, regimi autocratici (da accostare anche, perché poco cambia nella sostanza, ai regimi oligarchici; per la coppia tirannia/dispotismo, si veda più avanti le note a La Boétie). In questo senso meno contingente, nell’ambito della filosofia politica i suoi scritti non hanno perso valore. Il dibattito è oggi molto frammentario, in gran parte incentrato sui tanti problemi irrisolti che vivono i regimi democratici (o, più realisticamente, poliarchici), ma per avere una mappa abbastanza inclusiva delle molteplici opzioni teoretiche in discussione si possono vedere Lorella Cedroni – Marina Calloni (a cura di), Filosofia politica contemporanea, Milano, Mondadori, 2012 e Mariano Croce – Andrea Salvatore, Filosofia politica. Le nuove frontiere, Roma-Bari, Laterza, 2012. Sul nesso richiamato di Poliarchia/Democrazia, le migliori chiarificazioni sono in Robert A. Dahl, Poliarchia, in «Enciclopedia delle scienze sociali» (Treccani, 1996): http://www.treccani.it/enciclopedia/poliarchia_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali)/; una riflessione teorica articolata, problematica e di ampio respiro è quella di Leonardo Morlino, Democrazia e mutamenti. Attori, strutture e processi, Roma, Luiss University Press, 2014 (versione italiana di Id., Changes for democracy. Actors, Structures and Processes, Oxford (UK), Oxford University Press, 2012, tradotto da Lapo Berti).

Nella vasta bibliografia internazionale molti dei migliori studi che hanno approfondito il pensiero politico del barone d’Holbach sono, comprensibilmente, in francese; tra i più facilmente accessibili, a semplice titolo indicativo al lettore interessato ad approfondire, lingua permettendo, mi limito a segnalarne alcuni che sinteticamente lo affrontano da angolature diverse: Frank A. Kafker (tr. fr. Alain Le Ho), L’Encyclopédie et le cercle du baron d’Holbach, in: Recherches sur Diderot et sur l’Encyclopédie, n. 3/1987, pp. 118-124. DOI : 10.3406/rde.1987.927 – URL: www.persee.fr/doc/rde_0769-0886_1987_num_3_1_927 (ma i suoi rapporti con l’Encyclopédie continuano ad essere per gli studiosi molto intricati: Alain Sandrier, L’attribution des articles de l’Encyclopédie au baron d’Holbach: bilan et perspectives, in Recherches sur Diderot et sur l’Encyclopédie, n. 45/2010 – URL : http://rde.revues.org/4723); Pierre Lurbe, Réflexions sur le gouvernement britannique ou les limites de la liberté à l’anglaise selon le baron d’Holbach, in XVII-XVIII. Bulletin de la société d’études anglo-américaines des XVIIe et XVIIIe siècles, n. 29/1989. pp. 179-195. DOI : 10.3406/xvii.1989.1175 – URL: www.persee.fr/doc/xvii_0291-3798_1989_num_29_1_1175 ; Josiane Boulad-Ayoub, Les idées politiques de d’Holbach et la Déclaration des Droits de 1789, in Philosophiques, vol. 18, n. 2/1991, p. 123-137. DOI: 10.7202/027155ar – URL: http://id.erudit.org/iderudit/027155ar