Carlo Dossi: I Lettori

CARLO DOSSI – No, mi diceva jer l’altro un bizzarrìssimo amico, tu non vedrài mai nelle vetrine un mio libro. Se avessi a scrìvere, scriverèi per divertire mè solo, non volendo ingannare nè gli altri nè mè. ¿Parli di gloria? Se è la ventura, ¡tanti saluti! ¿Che fanno ai morti gli incensi? ¿Che è gloria in un evo tellùrico? E se è la presente, non voglio nemmeno tentare. ¿Ho a cangiar la speranza di poterla ottenere con la certezza di non averla ottenuta?
Chè tu ben sai in qual sonnolento paese viviamo. Quà, libri non se ne compra. Vàdano le cento lire in guanti, in falso Champagne, in inverecondi baci; ma, quanto ai libri, s’hanno da avere o per dono od a presto. ¿Non è scroccar la porta al teatro?
Tuttavìa, doniàmone.
¿A chi?
Gli analfabeti son molti – molti come le sòlite arene del mare e le sòlite stelle del cielo – ma molti più ancora sono i leggenti che non capìscono nulla. Altri poi capirebbe, ma non si scòmoda a lèggere. Vorrèbbero, questi, dei libri già belli e letti.

Dunque, i lettori, mèssoci anche chi fiocamente capisce, sono rari e preziosi. E io li divido in due classi – misti e puri.
Misti dico, in generale, coloro che fanno il mestiere di saper la grammàtica, che insègnano sempre e non impàrano mai; gli scrittori abortiti in professori di belle lèttere, gli spulciacòdici, i puristi, gli etimologisti ed altra roba in cisti, ùmile tutta come la coronata humìlitas dei Borromèi. Libro nuovo, per loro, suona libro sospetto. Non vèdono il buono che in compagnìa del vecchio, senza pensare che il vecchio non toglie a niente l’originale peccato d’èssere stato nuovo e senza pensare che i nascituri saranno, per esperienza, molto più doviziosi delle mirìadi dei loro antenati. I quali lettori si danno tosto a guardare se il nuovo scrittore è tagliato sul tale o tale altro modello. – Fra parèntesi, noto che lo studio de’ clàssici – de’ pochi sommi, intendiàmoci – è necessario a chi vuol riuscire: il bello artìstico d’ogni qualunque età, al pari del naturale, racchiude germi, infiniti e perenni, di novìssimi fiori. Ma altro è studio, altro è imitazione. L’imitazione ritrae la linea esterna e alto lì; lo studio fà scoprire la interna, che, in tutte le òpere eccelse, per quanto fra loro lontane e di specie e di lingua e di època, è eternamente quella. ¿Vuòi che il tuo libro possa vìncere il tempo? Sia in istile tuo, in parole dell’oggi, in idèe dell’indomani, in arte del sempre.

Tornando a noi, la suddetta genìa legge con uno stecco; i pensieri non cura ma le parole… Cheh! neanche; altro non scorge all’infuori di combinazioni di lèttere. E te le spera una per una.
¡Guài alle non gabellate toscane! perocchè essa confonde l’inusitato coll’impossìbile e rifiuta i pensieri in omaggio alla lingua ed ha cuor di stampare:
… «quando si sono ricordati nel sècolo XVIII Anton Francesco Bertini, Rinaldo Bracci, il canònico Tocci, gli Zanotti ed il Gozzi, poco più ci rimane da farci su assegnamento. Nel sècolo presente noi siamo scarsi parimenti di buoni scrittori da proporsi ad esempio e non uscirèi gran fatto dal Leopardi e dal Giusti».
Sul che ci vorrebbe una frusta tutt’altro che letteraria, ma, no! son già puniti abbastanza dall’avere negate le artìstiche voluttà.
Poi, metto fra i misti i lettori scriventi, e pesca grossa e pesca minuta. Due terzi di cui non mangia che invidia, o, meglio, è mangiato da essa. Loro, a sentirli, non han mai tempo di lèggere. Ma fanno bibliografìe. Cominciano con due lagrimette sovra il tristìssimo stato della moderna letteratura, sulla miseria di tasca e di testa dei viventi autori, sul dispotismo librario e la indifferenza del pùblico, quindi – o con lodi nauseanti che tùrbano più di una spietata censura o con censure, fomento, non rimedio, alla piaga – accòstano i più disparati punti del libro. Dico cioè, innèstano un napoleònico capo dal petit chapeau su’ n torso di Vènere, sottoponendo due gambe d’Alcide e grìdano «la statua è brutta»; inàffiano con l’aqua bollente e si lamèntan dei fiori che non vèngono bene; stan collo schioppo alla guancia, aspettando il Messìa.

Passiamo ora agli altri, ai lettori puri.
Sono coloro che non insègnano a fare né fanno. E alcuni hanno sale, altri no.
Se sciocchi, lèggono tanto per non scordar l’alfabeto; rìdono cretinamente ad ogni idèa nuova; guàrdano prima a chi scùlpsit e dìcono viva o dìcono morte a seconda del nome. Pènsano che «letterato» signìfichi tale buono a null’altro, un ozioso attivo, un clown in borghese: essi lo invìtano a pranzo come invìtano lui che fà entrare gli uovi, intatti, nelle bottiglie.
Quelli salati, invece, capìscono spesso, ma crèdonsi sempre al disopra del libro. Oh se scrivèssero loro! E mentre agli sciocchi tutto par nuovo, ad essi tutto par vecchio. ¡Pòvero tè se loro vai contrapelo! Il meno che fanno è di darti dell’àsino. ¿Ti applàudono? Non tenerlo ad omaggio: è degnazione.
¿E tu vuòi dunque, mio caro, che io ci rimetta qualche migliajo di lire, che soffra la noja delle bozze di stampa, per sifatta bordaglia? No; io mi fermo all’arrestarsi del mio divertimento. Io non amo che mè. Amar rettamente sè stessi, è amare bene anche gli altri. –

Così mi diceva, jer l’altro, un bizzarrìssimo amico. Quanto a mè… penso… A dire il vero, per quel che riguarda i lettori, debbo pensarla con lui (non guardàtemi bieco, c’è un ma) ma ammetto delle eccezioni; fìrmat règulam exceptio, e di esse, per quanto sìen poche, ciascuno di voi può crèdersi una. Colla fiducia di èssere, si ebbe talvolta la realtà. Un non so quale sapiente, reputàndosi matto, divenne. E da queste eccezioni traggo una conseguenza affatto contraria alla sua; quella cioè, che, gustata l’ìntima gioja di lèggere a noi i nostri pensieri, noi li dobbiamo stampare e pubblicare e diffòndere, affinchè ne pòssan godere anche gli altri, uno pur fosse, basta.
Io v’assicuro; chi ha cuore prova tanto piacere del mezzo Avana che fuma quanto dell’altro mezzo che porge al pòvero spazzacamino.

** Carlo Dossi (1849-1910): Campionario. Ritratti umani (1884; Milano: Fratelli Dumolard, 1885)