Vicente Huidobro: Il creazionismo

VICENTE HUIDOBRO — Il creazionismo non è una scuola che io abbia voluto imporre a qualcuno; il creazionismo è una teoria estetica generale che iniziai a elaborare dal 1912 e i cui tentativi e primi passi li troverete nei miei libri e articoli scritti molto prima del mio primo viaggio a Parigi [nel 1916].

Nel numero 5 della rivista cilena «Musa Joven» io dicevo:

«Il regno della letteratura è terminato. Il secolo XX vedrà nascere il regno della poesia nel vero senso della parola, vale a dire in quello della creazione, come la chiamarono i greci sebbene non arrivarono mai a realizzare la loro definizione.»

Più tardi, verso il 1913 o il 1914, io ripetevo una cosa quasi uguale in una piccola intervista apparsa nella rivista «Ideales», intervista che apriva le mie poesie. Anche nel mio libro Pasando y pasando, apparso nel dicembre del 1913, dico – alla pagina 270 – che l’unica cosa che deve interessare i poeti è l’«atto della creazione» e opponevo ad ogni istante questo atto di creazione ai commenti e alla poesia “intorno a”. La cosa creata contro la cosa cantata.

Nel mio poema «Adamo» (Adán), che scrissi durante le vacanze del 1914 e che fu pubblicato nel 1916, troverete queste frasi di Emerson nella prefazione, dove si parla della costruzione della poesia:

«Un pensiero così vivo che, come lo spirito di una pianta o di un animale, ha una sua propria architettura, adorna la natura con una cosa nuova.»

Però fu nell’Ateneo di Buenos Aires, in una conferenza che diedi nel giugno del 1916, dove esposi pienamente la teoria. Fu lì dove mi si battezzo come «creazionista» per aver detto nella mia conferenza che la prima condizione del poeta è creare, la seconda creare, e la terza creare.

Ricordo che il professore argentino José Ingenieros, che era uno degli spettatori, mi disse durante il pranzo al quale mi invitò con alcuni amici dopo la conferenza:

«Il suo sogno di una poesia inventata in ognuna delle sue parti dai poeti mi sembra irrealizzabile, sebbene lei l’abbia esposto in forma molto chiara e anche molto scientifica».

Quasi la stessa opinione hanno altri filosofi in Germania e ovunque io abbia spiegato le stesse teorie. «È bello ma irrealizzabile».

E perché dovrebbe essere irrealizzabile?

Rispondo ora con le stesse frasi con le quali terminai la mia conferenza data di fronte al gruppo di Studi filosofici e scientifici del dottor Allendy, a Parigi, nel gennaio del 1922:

«Se l’uomo ha sottomesso a sé i tre regni della natura, il regno minerale, il vegetale e l’animale, per quale ragione non potrà aggiungere ai regni dell’universo il suo proprio regno, il regno delle creazioni?»

Ha già inventato tutta una nuova fauna che cammina, vola, nuota e riempie la terra, lo spazio e i mari con i suoi galoppi sfrenati, con le sue grida e i suoi gemiti.

Quello che è stato realizzato nella meccanica lo è stato anche nella poesia. Vi dirò ciò che intendo per poesia creata. È una poesia nella quale ogni parte costitutiva, e tutto l’insieme, presenta un fatto nuovo, indipendente dal mondo esterno, slegato da qualsiasi altra realtà che non sia la sua, poiché prende il suo posto nel mondo come un fenomeno singolare, separato e distinto dagli altri fenomeni.

Tale poesia è qualcosa che non può esistere se non nella testa del poeta. E non è bella perché ricorda qualcosa, non è bella perché ci ricordi cose viste, a loro volta belle, né perché descriva cose belle che possiamo arrivare a vedere. È bella in sé e non ammette termini di comparazione. E nemmeno lo si può concepire al di fuori del libro.

Nulla le assomiglia nel mondo esterno; fa reale ciò che non esiste, vale a dire si fa realtà per se stessa. Crea il meraviglioso e gli dà vita propria. Crea situazioni straordinarie che mai potranno esistere nella verità e dovranno perciò esistere nella poesia al fine che esistano da qualche parte.

Quando scrivo: «L’uccello annida nell’arcobaleno», vi presento un fatto nuovo, qualcosa che non avete mai visto, che mai vedrete e che tuttavia si vorrebbe ben vedere.

Un poeta deve dire quelle cose che mai si direbbero senza di lui.

Le poesie create acquisiscono proporzioni cosmogoniche; vi danno a ogni istante il vero sublime, questo sublime del quale i testi ci presentano esempi così poco convincenti. E non si tratta del sublime irritante e grandioso, ma di un sublime senza pretese, senza terrore, che non desidera sopraffare né schiacciare il lettore: un sublime da taschino.

La poesia creazionista si compone di immagini create, di situazioni create, di concetti creati; non risparmia alcune elemento della poesia tradizionale, salvo che in essa tali elementi sono integralmente inventati, senza assolutamente preoccuparsi della realtà né della veridicità precedenti all’atto della realizzazione.

Così quando scrivo:

L'oceano si disfa
agitato dal vento dei pescatori che fischiano

Presento una descrizione creata; quando dico: «I lingotti della burrasca», vi presento un’immagine pura creata, e quando vi dico: «Lei era così bella che non poteva parlare», oppure: «La notte è in cappello», vi presento un concetto creato.

In Tristan Tzara trovo poesie ammirevoli che trovo molto vicine alla più stretta concezione creazionista. Sebbene in lui la creazione generalmente sia più formale che fondamentale. Però l’uomo che ha scritto i seguenti versi è, senza ombra di dubbio, un poeta:

«EN PORCELAINE la chanson pensée, je suis fatigué — la chanson des reines l’arbre crève de la nourriture comme une lampe.»
 
«JE PLEURE vouloir se lever plus haut que le jet d’eau serpent au ciel car il n’existe plus la gravité terrestre à l’école et dans le cerveau.»
 
«Quand le poisson rame
le discours du lac
quand il joue la gamme
la promenade des dames, etc. »

Francis Picabia ci apre a volte nelle sue poesie delle finestre sull’insospettato, cosa che prova che non è solamente pittore:

«Enchaîne sur l’avenir de l’horloge
des récréations
dans un empire missel;»
 
«Le jour épuisé d’un court instant
parcimonieux
échappe à la sagacité du lecteur
d’esprit.»
 
«Les jeunes femmes compagnes du fleuve
logique viennent comme une tâche sur l’eau
pour gagner un monstre enfumé
d’amis aimables
dans l’ordre du suicide enragé.»
 
«Emporter une histoire pour deux
à force de joie dans la chevelure
des syllabes.»

Anche Georges Ribémont-Dessaignes ha versi che ci fanno uscire dall’abituale:

«Regarder par la prunelle de sa maîtresse
afin de voir à l’interieur.»

E Paul Éluard ci fa molto spesso tremare come il getto d’acqua tutto d’un colpo sulla spina dorsale:

«Il y a des femmes dont les yeus sont comme des
morceaux de sucre il y a des femmes graves comme les
mouvements de l’amour qu’on ne surprend pas
d’autres, comme le ciel à la veille du vent.»

«Le soir trainait des hirondelles. Les hibous
Partageaient le soleil et pesaient sur la terre.»

I due poeti creazionisti spagnoli, Juan Larrea e Gerardo Diego, hanno dato molteplici prove del loro talento. Quando Gerardo Diego scrive:

«Fischiando la tua testa si sgonfia»

oppure:

«La pioggia trema come un agnello»

o quest’altro:

«Una colomba decolla dal cielo»

ci dà una sensazione poetica molto pura. Stessa cosa accade con Juan Larrea quando dice:

«Un uccello cambia il tempo»

oppure:

«Praterie di mattoni fra i suoni»

e anche quest’altro:

«Il tuo ricordo si allontana secondo la direzione del vento»

Questi due poeti hanno provato agli spagnoli scettici fino a quale grado di emozione può arrivare l’inabituale, dimostrando tutto ciò che di serio contiene la teoria creazionista. Non hanno mai fatto ridere (come quei poveri ultraisti) le persone di spirito veramente superiore.

Se per i poeti creazionisti ciò che è importante è la presentazione di un fatto nuovo, la poesia creazionista diviene traducibile e universale perché i fatti nuovi restano gli stessi in tutte le lingue.

È difficile e persino impossibile tradurre una poesia nella quale domina l’importanza di altri elementi. Non potete tradurre la musica delle parole, i ritmi dei versi che variano da una lingua all’altra; però quando l’importanza della poesia risiede innanzitutto nell’oggetto creato, quello non perde nella traduzione nulla del suo valore essenziale. In questo modo, se dico in francese:

«La nuit vient des yeux d’autrui»

o se dico in spagnolo:

«La noche viene de los ojos ajenos»

o in inglese:

«Night comes from others eyes»
[o anche, in italiano:
«La notte viene da altri occhi»] (N.d.T.)

l’effetto è sempre lo stesso e i dettagli linguistici secondari. La poesia creazionista acquisisce proporzioni internazionali, passa a essere la Poesia, ed è accessibile a tutti i popoli e razze, come la pittura, la musica o la scultura.


C’è nell’uomo una dualità che si manifesta in tutti i suoi atti, due correnti parallele nelle quali si generano tutti i fenomeni della vita.

Ogni essere umano è un ermafrodita mancato. Abbiamo in noi un principio o una forza di espansione che è femminile e una forza di concentrazione che è maschile.

In alcuni domina l’una a detrimento dell’altra. In molto pochi appaiono entrambe in perfetto equilibrio.

In fondo, è in questo dove troveremo soluzioni per l’eterno problema dei romantici e dei classici.

Tutto segue nell’uomo questa legge della dualità. E se portiano in noi una forza centrifuga, abbiamo anche una forza centripeta.

Abbiamo delle vie centripete, vie che ci portano come antenne i fatti che gli accadono intorno (audizione, visione, sensibilità generale), e abbiamo delle vie centrifughe che assomigliano ad appartati di emissione e ci servono per emettere le nostre onde, per proiettare il mondo soggettivo nel mondo oggettivo (scrittura, parola, movimento).

Il poeta, come tutti, ha due personalità che non sono, parlando con proprietà, due personalità ma al contrario la personalità al singolare, l’unica vera.

La personalità totale si compone di 3/4 di personalità innata e di 1/4 di personalità acquisita.

La personalità innata è quella che Bergson chiama io fondamentale; l’altra è l’io superficiale.

Anche Condillac distingueva tra un io pensante e un io usuale.

Nel creazionismo proclamiamo la personalità totale.

Nessuna parcella di poeti.

L’infinito intero nel poeta, il poeta integro nell’istante di proiettarsi.

L’opera d’arte ha come culla questi due elementi, che costituiscono anche una dualità parallela: la sensibilità, che è l’elemento affettivo, e l’immaginazione, che è l’elemento intellettuale.

Nel dettato automatico la sensibilità occupa maggior spazio rispetto all’immaginazione, perché l’elemento affettivo è molto meno sorvegliato rispetto all’altro.

Nella poesia creata l’immaginazione prevale sulla semplice sensibilità.


Ciò che più mi ha confermato nelle mie teorie, è stata la critica violenta, i commenti burleschi alle mie poesie, soprattutto al mio libro La grotta del silenzio (La gruta del silencio), pubblicato nel 1913. Tutti i critici cadevano in una crisi nervosa proprio sui versi che mi piacevano, senza forse sapere perché.

Nessuno indovinerà mai quando mi fece pensare questo fatto senza importanza. Senza proporselo, i critici mi aiutarono molto nel mio lavoro a ritagliare con precise forbici versi e immagini come le seguenti:

«Nel mio cervello c'è qualcuno che viene da lontano.»

oppure:

«Le ore che cadono silenziose come gocce d'acqua su un vetro.»
«La camera si è addormentata nello specchio.»
«Lo stagno stagnato.»
«Verso la riva di un libro io mi avvicinai una sera.»

Sapete chi erano i poeti che citavo nella prima pagina di quel libro? Rimbaud e Mallarmé. E sapete che cosa citavo di Rimbaud?

E ho visto qualche volta ciò che l'uomo ha creduto di vedere.

Dopo l’apparizione del mio libro La gruta del silencio diedi anche un’eccessiva importanza al subcosciente e anche a un certo sonnambulismo. Diedi alla rivista «Ideales» una poesia che si intitolava «Vaghezza subcosciente» e annunciai quello stesso anno tutto un libro in quello stile, intitolato Gli specchi sonnambuli (Los espejos sonámbulos; potete vederlo annunciato nella lista delle Opere dell’autore nel mio libretto El espejo de agua, pubblicato nel 1916 a Buenos Aires).

Però questa fu una parentesi di qualche mese. Presto sentii di perdere terreno e cadevo, sicuramente per reazione, per una reazione violenta, quasi paurosa, in quell’orribile panteismo mischiato di indù e di norvegese, quella poesia da bue ruminante e da nonna soddisfatta. Fortunatamente quella caduta fu di brevissima durata e nel giro di qualche settimana ripresi il mio antico cammino con molto più entusiasmo e conoscenza di prima.

Poi venne il periodo delle confidenze agli amici e dei sorrisi equivoci degli uni e compassionevoli degli altri. Le burle senza ragione, l’atmosfera irrespirabile che finirono per obbligarmi a lasciare le mie montagne native e a cercare climi più favorevoli per i cercatori di miniere.

Verso la fine del 1916 caddì a Parigi, nell’ambiente della rivista «Sic». Io conoscevo molto poco la lingua, ma presto mi resi conto che si trattava di un ambiente molto futurista e non bisogna dimenticare che due anni prima, nel mio libro Pasando y pasando, io avevo attaccato il futurismo come qualcosa di troppo vecchio nel preciso momento in cui tutti gridavano all’avvento di qualcosa di completamente nuovo.

Io cercavo dappertutto questa poesia creata, senza rapporto con il mondo esterno e, quando a volte credetti di trovarla, presto mi rendevo conto che era solo la mia mancanza di conoscenza della lingua quello che me la faceva vedere là dove mancava in assoluto o si trovava solamente in piccoli frammenti, come nei miei libri più vecchi del 1913 e 1915.

Avete notato la forza speciale, l’ambiente quasi creatore che circonda le poesie scritte in una lingua che incominciate a balbettare? Trovate meravigliose delle poesie che un anno dopo vi faranno sorridere.

Nell’ambiente di Apollinaire si trovavano, a parte lui, che era un indiscutibile poeta, qualche cercatore serio; sfortunatamente la maggior parte poco dotata del fuoco sacro, perché non c’è nulla di più falso che il credere che le doti si trovino per strada. Le vere doti del poeta sono tra le cose più rare che esistano. E non prendo qui la parola poeta nel senso intimo che questa parola ha per me, ma nel senso del linguaggio abituale, perché secondo me non c’è mai stato un solo poeta in tutta la storia del nostro pianeta.

Oggi affermo rotondamente, così come feci dieci anni fa nell’Ateneo di Buenos Aires: «Al mondo non è mai stata fatta una sola poesia, sono stati fatti solamente vaghi tentativi di fare una poesia. La poesia sta per nascere nel nostro globo. E quando nascerà quello sarà un evento che rivoluzionerà gli uomini come il più formidabile terremoto». A volte mi domando se non passerà inavvertito.

Lasciamo, dunque, come ben stabilito che ogni volta che io parlo del poeta impiego questa parola solamente per farmi capire, come allungando un elastico, per poterla applicare a coloro che si trovano più vicino all’importanza che ad essa assegno.

All’epoca della rivista «Nord-Sud», della quale fui uno dei fondatori, avevamo tutti una linea generale più o meno comune nelle ricerche, ma in fondo eravamo molto lontani gli uni dagli altri.

Mentre altri facevano lucernari ovali, io facevo orizzonti quadrati. Ecco qui la differenza espressa in due parole. Siccome tutti i lucernari sono ovali, la poesia continua ad essere realista. Siccome gli orizzonti non sono quadrati, l’autore mostra qualcosa di creato da lui. (Il poeta del lucernario ovale ed io siamo ai poli opposti, egli è – come ha detto Picasso nel giornale «Comoedia» qualche mese fa – un pittore nato, io al contrario sono l’anti-pittore per eccellenza, non sono che un umile poeta).

Ecco qui come spiegai il mio titolo Horizon carré in una lettera al critico e amico Thomas Chazal all’epoca della pubblicazione del libro:

«Orizzonte quadrato. Un fatto nuovo inventato da me, creato da me, che non potrebbe esistere senza di me. Desidero, mio caro amico, inglobare in questo titolo tutta la mia estetica, quella che lei conosce già da qualche tempo».

Questo titolo spiega tutta la base della mia teoria poetica. Ha condensato in sé l’essenza dei miei principi.

1° Umanizzare le cose. Tutto ciò che passa attraverso l’organismo del poeta deve raccogliere la maggiore quantità del suo calore. Qui qualcosa di vasto, enorme, come l’orizzonte, si umanizza, si fa intimo, filiale grazie all’aggettivo quadrato. L’infinito rientra nel nido del nostro cuore.

2° Il vago diventa preciso. Nel chiudere le finestre della nostra anima, quello che potrebbe sfuggire e gassificarsi, sfilacciarsi, resta chiuso e si solidifica.

3° L’astratto diventa concreto e il concreto astratto. Vale a dire l’equilibrio perfetto, poiché se voi stirate l’astratto ancora più verso l’astratto si disferà nelle vostre mani o filtrerà tra le vostre dita. Se voi fate il concreto ancora più concreto vi può servire forse per bere vino o ammobiliare il vostro salotto, però mai per ammobiliare la vostra anima.

4° Ciò che è troppo poetico per essere creato si trasforma in qualcosa di creato nel cambiare il suo valore usuale, poiché se l’orizzonte era poetico in sé, se l’orizzonte era poesia nella vita, con l’aggettivo quadrato diviene poesia nell’arte. Da poesia morta passa ad essere poesia viva.

Le poche parole che spiegano il mio concetto della poesia, nella prima pagina del libro del quale parliamo, vi dirà quello che volevo fare in quelle poesie. Dicevo:

«Creare una poesia prendendo dalla vita i suoi motivi e trasformandoli per dare loro una vita nuova e indipendente. Nulla di aneddotico né di descrittivo. L’emozione deve nascere dalla sola virtù creatrice. Fare una poesia come la natura fa un albero.»

In fondo, era esattamente la mia concezione di prima del mio arrivo a Parigi: quella dell’atto di creazione puro che troverete, come una vera ossessione, in qualsiasi parte della mia opera a partire dal 1912. E che ancora continua ad essere la mia concezione della poesia. La poesia creata in ogni sua parte, come un oggetto nuovo.

Devo ripetere qui l’assioma che presentai nella mia conferenza all’ateneo di Madrid, nel 1921, e ultimamente a Parigi, nella mia conferenza alla Sorbona, assioma che riassume i miei principi estetici:

«L’Arte è una cosa e la Natura un’altra. Io amo molto l’Arte e molto la Natura. E se accettate le rappresentazioni che un uomo fa della Natura, questo prova che non amate né la natura né l’arte».

In due parole e per terminare: i creazionisti sono stati i primi poeti che hanno apportato all’arte la poesia inventata in tutte le sue parti dall’autore.

Ecco qui, in queste pagine intorno al creazionismo, il mio testamento poetico. Lo lascio in eredità ai poeti di domani, a coloro che saranno i primi di questa nuova specie animale, il poeta, di questa nuova specie che presto, io credo, nascerà. Ci sono segni nel cielo.

I quasi poeti di oggi sono molto interessanti, però il loro interesse non mi interessa.

Il vento rivolge il mio flauto verso l’avvenire. 

*Traduzione 2019: © Fabrizio Pinna – Diritti riservati.  Titolo originale: Le créationnisme, in Vicente Huidobro (1893-1948), Manifestes, Parigi: Editions de la Revue Mondiale, 1925).


NOTE A MARGINE di effe (3/7/2019) — I. La versione in spagnolo, El creacionismo, si trova in Obras completas (2 vols., Santiago de Chile, Andrés Bello, 1976; recopilación ampliada de Hugo Montes) o anche nella raccolta più completa dei (tanti) manifesti di Huidobro pubblicata in spagnolo una decina d’anni fa: Vicente Huidobro (1893-1948), Manifiestos, Santiago de Chile, Mago Editores, 2009. Non sono invece reperibili altre traduzioni integrali in italiano; questa che si propone qui ai lettori è l’anticipazione del testo che sarà incluso in un libro di prossima uscita (e-book: Vicente Huidobro, Creazionismo, all’avanguardia. Manifesti di estetica e poetica, a cura di Fabrizio Pinna, Pieffe Edizioni 2020), in fondo pensato anche per contribuire a colmare almeno in parte questa lacuna bibliografico/culturale che di fatto in Italia ha sostanzialmente confinato la conoscenza di Huidobro agli studiosi dei movimenti d’avanguardia o di letteratura latinoamericana e agli appassionati che leggono le opere direttamente in lingua originale.

II. Riprendo idealmente un discorso iniziato nel marzo 2016 con la pubblicazione, sempre qui in S-Composizioni in Rivista, di due scritti di Vicente (Epoca di creazione: l’invenzione contro l’imitazione). Insieme allo scritto La Creazione Pura. Saggio di estetica (1921/1925) e al Manifesto di manifesti (1925) – nel quale Huidobro propone una serrata critica del Surrealismo definendo così con maggiore puntualità, per analogia e per contrasto, anche la sua personale “teoria” –, Il creazionismo è uno dei testi più maturi e argomentati della speculazione poetica di Huidobro, il quale ha provato a portare alle estreme conseguenze l’aspirazione a una poesia intesa letteralmente come póiēsis, dal greco poiêin “fare, produrre, inventare”, insomma: creare. Si può dunque considerare uno dei punti culminanti di un percorso ricco e complesso, in parte contraddittorio, che viene da molto lontano (anche se non si è occupato di Huidobro, volendo le principali tappe si possono ripercorre nella precisa sintesi tracciata da Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia di sei idee. L’arte, il bello, la forma, la creatività, l’imitazione, l’esperienza estetica, [1977], Palermo: Aesthetica, 2011, proiettando lo sguardo fino ai tempi attuali con Dean Keith Simonton, “Creativity in the arts and sciences”, in New Dictionary of the History of Ideas, Ed. by Maryanne Cline Horowitz. New York: Scribner, 2005, vol. II, pp. 493-497).

III. Durante i secoli XVII e XVIII si può già constatare – seguendo le parole di Paolo D’Angelo – “uno spostamento verso la componente creativa e costruttiva del procedere estetico che si traduce in un indebolimento del presupposto imitativo”, ma è “il romanticismo [che] ha costituito la crisi definitiva del concetto di imitazione” (L’estetica del Romanticismo, Bologna: il Mulino, 1997, p. 94). In questo senso, restando ai vertici in lingua italiana, si conserva esemplare il caso di Leopardi che, partito inizialmente da un’accettazione delle più tradizionali teorie dell’arte come imitazione, dopo qualche anno arriverà – per la poesia – a un rovesciamento delle sue idee giovanili: “L’imitazione tien sempre molto del servile. Falsississima idea considerare e definir la poesia per arte imitativa, metterla con la pittura ec. Il poeta immagina: l’immaginazione vede il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il carattere essenziale del poeta” (nota dello Zibaldone del 1828, p. 4358).

IV. Tra il “secol superbo e sciocco” di Leopardi e il “siglo cobarde y falso” di Huidobro si compie inoltre una nuova cesura culturale, di portata epocale, segnata profondamente dalla “seconda rivoluzione scientifica”. “Il mio Adamo – avverte Huidobro all’inizio della Prefazione del suo poemetto Adán (1916) – non è l’Adamo biblico, quella scimmia di fango alla quale infondono vita soffiandogli nelle narici; è l’Adamo scientifico. È il primo degli esseri che comprende la Natura, il primo nel quale si risveglia l’intelligenza e fiorisce la meraviglia. A questo primo intelligente e comprensivo do il nome biblico di Adamo.” (Il poemetto Adán in apertura del volume è affettuosamente dedicato «A la memoria de Emerson»; “Ah! Si este hombre admirable hubiera sido más científico.” scrive Huidobro alla fine della sua prefazione dopo aver citato ampi passi del suo saggio “The Poet”, 1842/1844). Filosoficamente estraneo a fughe regressive verso incantati “mondi prescientifici” (mitoteologici o mitofilosofici), questioni già emerse in epoca romantica e post-romantica gli si ripresentano dunque in forma nuova, come Huidobro stesso dichiara esplicitamente in apertura del suo articolo/saggio sulla Creazione pura (1921/1925): “L’entusiasmo artistico della nostra epoca e la lotta tra le differenti concezioni individuali o collettive risultanti da questo entusiasmo hanno rimesso di moda i problemi estetici come ai tempi di Hegel e Schleiermacher. Tuttavia oggi dobbiamo esigere maggiore chiarezza e maggiore precisione rispetto a quell’epoca poiché il linguaggio metafisico di tutti i professori di estetica del secolo XVIII e dell’inizio del XIX non hanno per noi alcun senso. Dobbiamo perciò allontanarci il più possibile dalla metafisica e approssimarci ogni volta di più alla filosofia scientifica”. Topoi di lunghissima tradizione (enthousiasmos, “delirio” e mania poetica, ispirazione, e così via) vengono riletti con questa nuova sensibilità culturale e lo stesso accade per le varie figure-simbolo del poeta che sfilano – riprendendo l’elenco riassuntivo di Gloria Videla de Rivero – nei vari testi di Huidobro: el poeta-rebelde, el poeta-profeta, el poeta-redentor, el poeta-mago, el poeta-súper-hombre, el poeta-creador, el poeta-Dios” (Direcciones del vanguardismo hispanoamericano, Mendoza: Ediunc, 2011, p. 42), senza però dimenticare l’altrettanto significativo poeta “antipoeta y mago”, così evocato da Huidobro in Altazor.

V. The world seems always waiting for its poet… Armato di “una logica sovrastima della poesia e un altrettanto logico disprezzo del realismo” inteso “nel senso usuale della parola, cioè come descrizione più o meno abile delle verità preesistenti” (Manifesto di manifesti, 1925), nella contestazione radicale del principio di imitazione, “confessa” Huidobro, «studiando la poesia con un amore sempre più profondo, giunsi a convincermi che la poesia non era mai esistita […]. Quello che è stato chiamato fino a oggi poesia è un meschino commento sulle cose della vita e non una creazione del nostro spirito. Sono vane infiorettature poste intorno alle cose, ma non è la creazione di un fatto nuovo inventato da noi. Il poeta è un piccolo dio. Si tratta, dunque, di condensare il caos in minuscoli pianeti di emozione.» (La confessione inconfessabile, prosa autobiografica in Vientos contrarios, 1926; una parziale traduzione in italiano si può leggere qui in S-Composizioni in Rivista, dove c’è anche il testo integrale in spagnolo). Il poemario Automne régulier (1925) era accompagnato da un’epigrafe ancora una volta ripresa da “The Poet” di Emerson: “Le monde attend toujours son poéte”. Poeta, cioè “essere umano, integralmente umano”, Vicente Huidobro nel suo ultimo scritto programmatico “Total” (1931/1936), uscito dopo il suo celebre poema-limite Altazor, quando la Spagna e l’Europa precipitavano nei loro stessi vertiginosi abissi, rinnoverà ancora una volta la sua utopia poetica, aspettando “con le orecchie aperte come le braccia dell’amore” il primo poeta, ritornato “verbo cosmico” e speranza e voce di una nuova era.

VI.1. Appunto bibliografico. IN ITALIANO. È naturalmente possibile che alcuni testi di Huidobro siano sporadicamente apparsi tradotti in italiano in alcune antologie e in riviste di poesia o di studi specialistici, ma inoltrarsi in questa direzione sarebbe già di per sé occasione di lunghe ricerche che qui si lasciano in sospeso. Premesso questo, la bibliografia a stampa delle opere di Huidobro tradotte in italiano si riduce davvero a pochissimi titoli, 4 in tutto, due usciti l’anno scorso e uno un quarto di secolo fa: Equatoriale, traduzione di Giovanni Darconza, Rimini: Raffaelli Editore, 2018; Poesie artiche (Poemas árticos), versione di Stefano Strazzabosco, Milano: La vita felice, 2018; Vicente Huidobro, Viaggi siderali: antologia poetica, a cura di Gabriele Morelli, Milano: Jaca book, 1995; a questi tre titoli si aggiunge l’edizione di un poemetto ripreso dalla raccolta postuma Últimos poemas (1948): Monumento al mare, traduzione di Gianni Darconza, Rimini: Raffaelli Editore, 2016 (che si può leggere anche online nella rivista “Terza Pagina” dell’editore: http://www.raffaellieditore.com/terza_pagina/poesia_de_chile_vicente_huidobro). Restano dunque ora come integrazione anche gli scritti presenti – e che compariranno – nell’omaggio al poeta qui in S-Composizioni in Rivista, dove c’è anche la traduzione integrale del manifesto Total citato alla fine della nota precedente:

VI.2. Appunto bibliografico.IN SPAGNOLO. Tra le principali edizioni postume ci sono i due volumi delle Obras completas (a cura di Hugo Montes; Santiago de Chile: Andrés Bello, 1967 e 1976) e l’edizione critica, coordinata da Cedomil Goic, dell’Obra poética (Madrid: ALLCA XX, 2003). Huidobro ha pubblicato anche alcuni volumi di saggi e articoli, romanzi e sceneggiature ma, visto il particolare taglio dato a queste Note a margine, qui si richiamano – per comodità del lettore – solo le prime edizioni delle opere poetiche, una ventina di libri usciti in spagnolo e in francese: Ecos del alma, Santiago de Chile, Imprenta Chile, 1911; La gruta del silencio, Santiago de Chile, Imprenta Universitaria, 1913; Canciones en la noche, Santiago de Chile, Imprenta Chile, 1913; Las pagodas ocultas, Santiago de Chile, Imprenta Universitaria, 1914; Adán, Santiago de Chile, Imprenta Universitaria, 1916; El espejo de agua, Buenos Aires, Orión, 1916; Horizon carré, París, Paul Birault, 1917; Poemas árticos, Madrid, Pueyo, 1918; Ecuatorial, Madrid, Pueyo, 1918; Tour Eiffel, Madrid, 1918; Hallali, Madrid, Ediciones Jesús López, 1918; Saisons choisies (1914-1921), París, La Cible, 1921; Automne régulier (1918-1922), París, Librairie de France, 1925; Tout à coup (1922-1923), París, Au Sans Pareil, 1925; Temblor de cielo, Madrid, Plutarco, 1931; Altazor o el viaje en paracaídas, Madrid, Compañía Iberoamericana de Publicaciones, 1931; Tremblement de ciel, París, l’As de Coeur, 1932; Ver y palpar (1923-1933), Santiago de Chile, Ercilla, 1941; El ciudadano del olvido (1924-1934), Santiago de Chile, Ercilla, 1941; Últimos poemas, Santiago de Chile, Ahués Hermanos, 1948 (postumo).